A sostegno dello sciopero dei sindacati di base e conflittuali.

La guerra in Ucraina è uno spartiacque: uno di quei punti di svolta che segnano il cambio delle politiche globali come del clima sociale complessivo. Questa guerra è il precipitato della Grande Crisi, la risultante dell’acutizzazione di una competizione internazionale che porta a definire progressivamente aree economiche, monetarie, politiche e militari intorno ai principali poli capitalistici del mondo. L’invasione russa dell’intero paese è l’aggressivo tentativo di un imperialismo di rendita, basato sui residui dell’apparato militar industriale sovietico, di ritagliarsi un ruolo nella crescente polarizzazione mondiale tra Cina e USA. Questa guerra, infatti, come tutte le guerre contiene molteplici conflitti: l’autodeterminazione ucraina, l’indipendenza del Donbass, la definizione delle reciproche aree di influenza di Russia e alleanza atlantica, la concorrenza tra USA e UE, lo scontro tra USA e Cina. Queste diverse componenti interimperialiste la plasmano profondamente, sospinte dalle diverse politiche del revanscismo grande russo, dell’allargamento NATO, della divisione e subordinazione europea agli USA, dello sviluppo di una spazio autonomo europeo costruito anche sulla sua proiezione asiatica (tedesca e francese in particolare), della propensione cinese a congiungere la piattaforma continentale euroasiatica [one road one belt], della divisione di questa stessa massa continentale per facilitare l’isolamento della Cina. Si apre quindi oggi una diversa fase della competizione mondiale segnata dalla frammentazione della globalizzazione, la tessitura di blocchi contrapposti, la mobilitazione nazionalista e la militarizzazione sociale.

 

Questa guerra incide quindi profondamente sulla vita economica e sociale. Non è un conflitto marginale, dal profilo neocoloniale, legato al controllo di materie prime o aree periferiche del globo, come negli ultimi decenni (dai Balcani all’Iraq, dal Sahel all’Afghanistan). Lo vediamo anche nella nostra vita quotidiana, negli attuali prezzi del metano o dell’elettricità, il raddoppio delle bollette e i costi del carburante. Il ritorno dell’inflazione, esacerbata dalla guerra (per il ruolo di Ucraina e Russia in alcuni mercati delle materie prime, a partire da metalli, gas e petrolio, ma anche grano ed altri alimentari), è in realtà precedente. Già nel 2021 era al 7% in USA, al 2% in Europa, negli ultimi mesi oltre il 5% anche in Italia. Quest’inflazione origina nelle contraddizioni della gestione capitalistica della crisi (l’esplosione del debito pubblico e privato oltre tre volte il PIL mondiale, quasi 300mila mld di dollari; l’inondamento della liquidità gestito dalle banche centrali, oggi con bilanci di oltre 30mila mld di dollari) e negli squilibri del rimbalzo post-pandemico (dalle strozzature nei porti a quelle dei chip). Già prima della guerra era evidente che l’inflazione non era congiunturale e quest’anno, in Italia, è oggi superiore al 6% (e potrebbe peggiorare nei prossimi mesi), seconda la stessa ISTAT con un impatto superiore al 9% sui redditi bassi (che hanno più ampie componenti di spesa proprio su energia, carburanti e alimentari).

 

Le strutture salariali sono oggi totalmente indifese: gli stipendi sono stati prima bloccati dalla lunga concertazione e poi erosi dalla Grande Crisi, ma soprattutto pesa l’offensiva padronale di questi decenni. La durata dei contratti nazionali è stata allungata e disarticolata: prima del 2010 l’adeguamento economico era biennale, ora il pubblico oramai li rinnova solo al termine del triennio (si sta ora discutendo il CCNL 2019/2021), mentre in diversi settori si arriva anche a 4 o 5 anni di vigenza (dai metalmeccanici al commercio). Si è da tempo smantellato ogni meccanismo automatico di rivalutazione (scala mobile), come quasi tutte le progressioni economiche generalizzate (anzianità). Si è imposto l’IPCA (l’inflazione al netto dei costi energetici): solo l’edilizia, tra i grandi settori, sembra avere aumenti consistenti in questa fase, sfruttando lo slancio dei sostegni governativi al 110%. Si è inserito negli aumenti stipendiali componenti non monetarie (il TEM e il TEC del patto di fabbrica, con la diffusione di welfare e benefit). Si sono allargate le componenti variabili e aleatorie dello stipendio, anche con la complicità attiva del governo (premi di risultato, produttività, accessorio detassato). Così, oggi, gli stipendi sono semplicemente travolti dall’aumento generalizzato dei prezzi sui prodotti di base per la sopravvivenza.

 

Non c’è però solo l’inflazione. In questi mesi la guerra ha ridefinito le strategie di gestione della crisi e le politiche di governo. Il profilo conservatore, liberista, semibonapartista di Draghi ne è uscito rafforzato: il Def (il documento di politica economica per il 2022) descrive con chiarezza un’economia di guerra, in cui nei prossimi anni il riavvio di una strategia di controllo dei conti pubblici sarà comunque diretta al sostegno delle imprese (con finanziamenti diretti e interventi infrastrutturali a carico delle finanze pubbliche), al servizio della produttività totale dei fattori (come indicato nel PNRR). L’obbiettivo, di conseguenza, è tagliare in primo luogo la spesa sociale: se ne prevede infatti una diminuzione sul PIL, a partire da sanità e scuola, cioè gli istituti universali che (con difficoltà ma in qualche modo) ancora sopravvivono e che proprio negli ultimi due anni, nell’emergenza pandemica, hanno reso evidente la loro importanza per le condizioni di vita della popolazione. Una diminuzione di risorse, dopo decenni di tagli selvaggi, che passerà probabilmente per una radicalizzazione delle politiche federaliste: la disarticolazione del welfare attraverso l’autonomia differenziata. La ripresa in grande stile di una politica liberista contro il lavoro, accompagnata da grandi investimenti pubblici su infrastrutture e sul riarmo (una politica che ricorda molto la stagione reaganiana degli anni ottanta), la possiamo misurare nel recente Decreto Legge sul PNRR, che ha recuperato non casualmente il nocciolo della Buonascuola: la costruzione di un salario premiale, basato sulle performance, solo per una parte ridotte del milione di docenti della scuola italiana. Contro questa politica, inquadrata in una nuova mobilitazione nazionale e nella tessitura di un blocco europeo o atlantista, è sempre più urgente costruire un’opposizione sociale.

 

Il compito primario oggi è cioè collegare la diserzione da questa logica di guerra alla lotta contro il carovita. La difesa degli stipendi, del salario sociale e dei diritti è oggi infatti strettamente connessa all’indipendenza della classe lavoratrice da ogni logica di mobilitazione nazionale: la difesa degli interessi del lavoro passa cioè non solo attraverso il contrasto politiche di responsabilità e cogestione della crisi (concretizzate negli ultimi decenni nelle strategie concertative e nei tentativi di patto sociale, sempre travolti dall’arroganza padronale), ma anche dalla capacità del lavoro nel suo complesso di disertare la logica del conflitto tra blocchi contrapposti, il sostegno alle politiche imperialiste italiane ed europee, l’intervento attivo in Ucraina e l’invio delle armi a quel paese. Abbiamo visto come dopo una prima reazione di massa, le manifestazioni a Roma in Santi Apostoli e a Milano in Piazza Duomo, i cortei del 5 marzo a San Giovanni e del 26 marzo a Firenze, le mobilitazioni contro la guerra si sono inaridite. Lo abbiamo registrato nei sabati di aprile, lo abbiamo visto nelle piazze del 25 aprile e del primo maggio.

 

Su questo inaridimento ha sicuramente pesato la propaganda di guerra, il governo di unità nazionale e il clima politico di mobilitazione nazionale (a cui ha attivamente partecipato anche l’opposizione di destra di Fratelli di Italia), il protagonismo interventista del PD e la sua piena assunzione delle conseguenti scelte nella politica economica, l’aggressivo imporsi di questo clima nelle istituzioni e nei media (con i relativi processi al dissenso, sino al ridicolo della censura a Nori in Bicocca o al linciaggio pubblico di un realista politico, liberista e conservatore, come Orsini). In questo inaridimento hanno forse pesato anche le divisioni e gli sbandamenti della sinistra, persino di settori classisti e internazionalisti, proprio sull’analisi del conflitto ucraino, il ruolo e la dinamica interimperialista in corso, lo sviluppo di una politica antimilitarista e disfattista. In questa primavera, allora, le dinamiche di divisione nella classe e nell’opposizione sociale sono quindi rimaste e anzi, per certi versi si sono approfondite. L’inflazione e la crisi, infatti, hanno scavato nei solchi delle divisioni interne alla moltitudine del lavoro, in cui in questi anni e con la pandemia si sono diversificate non solo condizioni e cicli di lotta, ma anche percezioni sociali e appartenenze. Così, si è indebolita la capacità di reagire, agire e convergere della classe e anche delle soggettività organizzate della sinistra politica e sociale. Eppure, un consenso di massa attivo e partecipe al clima di guerra e alle sue politiche economiche stenta ancora ad affermarsi. Questo spazio deve esser ora consolidato e allargato, trasformato in scelta consapevole e in conflitto sociale.

 

Convergere e lottare, lottare e convergere. Come abbiamo sottolineato prima del 26 marzo e dopo il 26 marzo, è oggi necessario farsi tutti carico della costruzione di un’opposizione sociale, dello sviluppo di una propensione di massa a disertare la logica dei blocchi. La difesa dell’indipendenza della classe lavoratrice passa cioè oggi per la capacità di lottare, ma anche di convergere al di là della specificità della propria lotta e della propria condizione. Per questo saremo a Firenze all’assemblea del 15 maggio convocata da GKN: un’occasione non solo di concludere con una discussione collettiva quella manifestazione, che ha dato ossigeno ad una convergenza possibile e riunito l’insieme della sinistra politica e sociale del paese, ma anche di provare a proiettare quell’energia e quella forza nei territori e sul prossimo autunno. Per questo riteniamo importante e utile l’appello di diverse forze politiche e sociali per un corteo nazionale a giugno, contro guerra e carovita, proprio a partire da considerazione simili alle nostre sulla guerra in Ucraina e la fase che questo conflitto sta aprendo: un appello e un percorso con il quale convergiamo, nel tentativo di costruire poli classisti e internazionalisti in questo paese. Per questo riteniamo fondamentale la costruzione di uno sciopero ampio, partecipato, generale della scuola contro il DL sul PNRR, il reclutamento e il salario premiale ai docenti, in un settore già altre volte centrale per respingere strategie bonapartiste (vedi la buonascuola), per una reazione immediata e di massa alla svolta iperliberista di questo esecutivo.

 

Per tutto questo sosteniamo, aderiamo e partecipiamo allo sciopero del 20 maggio indetto da una parte consistente del sindacalismo di base e conflittuale, a partire da una prima assemblea di delegati/e a Milano lo scorso 9 aprile. Un prima occasione per segnare e quindi poi ampliare lo sviluppo di un movimento contro la guerra, il carovita, la logica dei blocchi e della mobilitazione nazionale in questo paese.

ControVento

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