di Tiziano Bagarolo
[Pubblicato su “Bandiera Rossa” n. 6, 21 aprile 1985]
La sovrastima dei fabbisogni di energia, e di energia elettrica in particolare, è stata una costante dei piani di sviluppo del nucleare in Italia. Ipotesi che venivano via via smentite dall’evoluzione dei fabbisogni reali, come è dimostrato dall’aggiornamento del PEN del 1985 – che si esamina nell’articolo che segue, parte del dossier “Energia e ambiente: quale alternativa”, pubblicato sul giornale della LCR “Bandiera Rossa” n. 6, 21 aprile 1985 –. E tuttavia l’interesse del capitale a sviluppare la tecnologia del nucleare, se non altro per partecipare alle collaborazioni europee (e ai relativi profitti) del settore elettro-meccanico-nucleare, furono sempre un argomento più che sufficiente per spingere i governi a prevedere in ogni caso, al di là delle effettive necessità, l’avvio di un programma di costruzione di centrali nucleari. (t.b., 5-01-2010)
Aggiornato il Piano energetico nazionale.
Luglio 1975. Dieci anni fa vedeva la luce il primo PEN, piano energetico nazionale. Elaborato dal ministero dell’Industria nel clima d’emergenza creato dalla prima crisi petrolifera, formulava in modo inequivocabile uno scenario energetico futuro fondato sul nucleare. Stime gonfiate dei fabbisogni, necessità di sostituire il petrolio, previsione di una crescita accelerata della quota dei consumi elettrici sui consumi globali (l’opzione del “tutto elettrico”, assolutamente irrazionale e contraria ad ogni criterio scientifico di conservazione ed uso appropriato dell’energia), mancanza di alternative a breve termine erano gli elementi di base con i quali si giustificava la scelta dell’ENEL di costruire 62 (!) centrali nucleari entro la fine del secolo (una ventina entro il 1990).
Nel 1977 il PEN conosce una seconda versione. Nel 1981 una terza. Nell’uno e nell’altro caso le stime dei fabbisogni e le varie grandezze programmate hanno subito delle correzioni al ribasso. Dopo che quelle precedenti erano state smentite dai fatti. Ma la logica ispiratrice restava la stessa. Il nucleare restava l’opzione di fondo, pur se ridimensionata. Oltretutto l’opposizione delle popolazioni destinatarie delle centrali si era dimostrata un osso duro. E l’incidente del 1979 a Three Miles Island aveva consigliato prudenza.
Febbraio 1985. Il ministro dell’Industria, il liberale Altissimo, ha presentato al Parlamento l’aggiornamento del PEN varato nel 1981. Le vecchie previsioni, ancora una volta, sono risultate del tutto sbagliate. Non solo i consumi globali non sono aumentati come previsto, ma sono addirittura diminuiti. E la quota di essi coperta dal petrolio (il 68% nel 1980) è caduta nel 1984 al 59% del totale contro una previsione del piano del 65%. Per effetto della recessione, certo, ma anche della razionalizzazione dei processi industriali e dei consumi. E’ cresciuto l’utilizzo del gas naturale (meno inquinante), grazie ai contratti con l’Algeria e l’URSS. Ma ciò è avvenuto per iniziativa dell’ENI, non per decisione del piano, che si è limitato a registrare le cose a posteriori. Anche 1’incremento della domanda elettrica è risultato nettamente inferiore alle previsioni (vedere la tabella 1). Così, a parte l’entrata in funzione della centrale di Caorso, il nucleare è rimasto al palo. Ed è ormai chiaro a tutti ‒ ENEL e ministro compresi ‒ che della fonte nucleare si può tranquillamente fare a meno.
Tabella 1
E invece che futuro ci prospetta il PEN aggiornato? Persevera, diabolicamente, a riproporre una crescita sovrastimata dei fabbisogni elettrici e quindi il quasi raddoppio della potenza netta disponibile degli impianti di produzione dell’ENEL. Da realizzare in che modo? Ancora, naturalmente, col ricorso al nucleare. Per ora cinque nuove centrali da avviare, una all’anno, entro il 1990. Si incomincia quest’anno con la seconda centrale di Trino Vercellese, in Piemonte. L’anno venturo toccherà alla centrale del Salento in Puglia. Nel 1987 sarà la volta della Lombardia… Contando su fatto che la legge corruttrice del 1983 faciliti l’acquisizione dei siti. E poi con le megacentrali a carbone, di cui è noto da tempo il devastante impatto ambientale. E contro le quali l’opposizione popolare non è stata meno decisa. Ma quali sono oggi le giustificazioni per buttare una montagna di miliardi nello sviluppo di una tecnologia qual è il nucleare, che oltre che apparire inutile, rischiosa e in ritardo, risulta anche antieconomica?
In realtà una giustificazione plausibile la lobby del nucleare non ce la fornisce, se si eccettua la cocciuta volontà di mantenere in piedi un’industria e i suoi legami internazionali in vista dello sviluppo della filiera europea dei reattori veloci al plutonio (il cui primo esempio, il reattore Superphénix installato a Creys-Malville in Francia, frutto della collaborazione italo-franco-tedesca nel settore, comincerà la sua produzione commerciale nel giro di due-tre anni). Non a caso ben 5.000 miliardi sono stati stanziati dall’ENEA (l’ente che è succeduto al CNEN) per la ricerca in questo settore nei prossimi cinque anni. Quindi centrali care, pericolose e inutili oggi per preparare un futuro ancora più inquietante… Eppure oggi non regge più, se mai aveva retto, l’argomento della mancanza di alternative. Contropiani alternativi, elaborati da studiosi legati al movimento antinucleare hanno visto la luce negli ultimi anni ad opera della Lega per l’ambiente e, recentemente, di Democrazia proletaria (vedere la tabella 2).
Tabella 2
Ispirati ad una filosofia che rifiuta la logica distruttiva dell’attuale modello di sviluppo e tuttavia fondati su assunti realistici ed economicamente praticabili, dimostrano come una politica un po’ più attiva di conservazione dell’energia (da intendersi come uso appropriato delle risorse energetiche in rapporto con gli usi finali, non come austerità malthusiana dei consumi), combinata con uno sviluppo credibile delle fonti rinnovabili (idroelettricità, geotermia, solare, biomasse, riciclo…), più un ricorso controllato al gas naturale e al carbone (non necessariamente mediante megacentrali), possa garantire la transizione da un modello energetico fondato sul petrolio ad uno progressivamente fondato sulle tecnologie solari senza dover passare per l’adozione del nucleare.
Una possibilità che contiene inoltre maggiori potenzialità di occupazione e di innovazione tecnologica e che, soprattutto, mantiene aperta la prospettiva di un modello di sviluppo diverso, più equilibrato, rispettoso dei cicli naturali e dell’esigenza di democrazia, cioè di reale controllo da parte dei lavoratori e delle larghe masse, nelle scelte di sviluppo economico e sociale. Non sono piani “socialisti”; sono però incompatibili con gli sviluppi odierni del capitale quanto la scelta nucleare è incompatibile con qualsiasi prospettiva socialista degna di questo nome. La posta in gioco, quindi, non è di secondaria importanza. Gli errori e i ritardi che in questo campo devono ancora essere superati dalle forze maggioritarie del movimento operaio non sono cosa da poco.