È il tempo di arare il campo di un movimento disfattista di massa.
Una riflessione di Luca Scacchi, Assemblea Generale Cgil.
La manifestazione per l’Europa del 15 marzo non sarà un semplice evento occasionale. Repubblica e Michele Serra l’hanno proposta per costruire rappresentazione collettive e formare coscienze: l’obbiettivo è riplasmare l’agenda e la composizione del polo progressista intorno alla priorità dello sviluppo federalista dell’Europa, secondo quanto delineato da Draghi, Letta e Prodi (difesa comune compresa). Nel quadro di una sempre più serrata competizione tra poli imperialisti, segnata dal conflitto in Ucraina, dal riarmo diffuso e da nuove guerre commerciali, si coglie la debolezza di una destra reazionaria europea ripiegata nelle piccole case nazionali e si vuole far assumere alla sinistra un ruolo di governo di possibili processi federali nella competizione mondiale. La CGIL è spiazzata da questa proposta: dopo anni di inconcludenza nelle lotte e nella concertazione, la dinamica degli eventi l’ha sospinta allo scontro con governo e padronato, anche se la rivolta sociale per il momento si limita alla campagna referendaria. Il rischio oggi per la CGIL è quello dell’inconsistenza. Il suo tentativo di fondare un’opposizione di massa al governo sulla questione sociale e sul lavoro è stata smontato dalla bocciatura del quesito sull’autonomia differenziata (una scelta tutta politica, con origini forse impensabili) e oggi viene travolto dal 15 marzo. La scelta di colorare di arcobaleno quella piazza è appunto inconsistente, perché si accoda a questo processo e perché per sovvertire gli assetti politici di quella piazza la CGIL dovrebbe avere un chiaro orientamento sulle priorità tra riarmo e processo federale, nel momento in cui le dinamiche storiche fanno passare la possibilità del secondo attraverso il primo. In questo disorientamento, l’ARCI nazionale ha avuto il coraggio e la forza di indicare espressamente la priorità di contrastare il riarmo europeo, si è sottratta a quella piazza e l’ARCI di Roma, con altri soggetti politici, sindacali e sociali, ne ha convocata una alternativa. È una piazza alternativa utile e importante, perché in questi tempi di confusione, servono punti di riferimento e bussole per leggere il presente. Quella piazza aiuta, ma anch’essa e composita e soprattutto bisogna guardare, dal giorno dopo, alla costruzione di un movimento di massa capace di parlare a chi è stato in quella piazza, a chi non è stato in nessuna, a chi a provato a sovvertire gli assetti dell’altra. È tempo di arare il campo di un movimento antimilitarista e disfattista, fondato sull’autonomia del lavoro dal capitale. Per questo, il luogo di un sindacato generale del lavoro, e della mia area sindacale, è in quella piazza alternativa, per costruire oggi un movimento contro il riarmo europeo.
In questi giorni di densa discussione, alcuni hanno sostenuto l’inattualità e in fondo l’inessenzialità della manifestazione promossa da Michele Serra e da Repubblica. Ci si sta dividendo sul nulla, non ci faremo dettare le posizioni da l’uomo sull’Amaca, la proposta di una piazza sull’Europa è fuori tempo e non coglie le ultime evoluzioni del piano von der Leyen, passato il 15 saranno altri i temi rilevanti, in fondo sarà solo una dimostrazione come tante e non lascerà tracce.
Io non penso sia così. Michele Serra e Repubblica, convocando questa manifestazione a Piazza del Popolo, stanno cercando di costruire rappresentazioni collettive e di formare coscienze. Questo, del resto, è il loro mestiere e questa in fondo è una delle principali funzioni di una dimostrazione di massa: disegnare immaginari, piantare una bandiera nella testa delle persone e innescare la loro partecipazione per difendere quella bandiera, sviluppando quindi un progetto politico anche individuando un avversario contro cui serrare le file.
La manifestazione per l’Europa vuole porre al centro dell’agenda politica della sinistra il rilancio di un processo federalista, per competere meglio con le altre potenze mondiali. Lo ha detto Michele Serra, con parole abbastanza chiare, nel suo primo articolo-appello: Che fine farà l’Europa, che oggi ci appare il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro, per giunta ricolmi di bombe atomiche? Sopravviverà la way of life europea a questa stretta…? Lo ha sottolineato nell’ulteriore precisazione (Europa, cosa difendiamo difendendoci): c’è un vuoto da riempire, una costruzione politica ed etica ancora molto fragile, in una fase storica in cui ansia e l’incertezza sono un sentimento popolare; la difesa europea è questione come ovvio tecnico-militare, ma è soprattutto questione politica (Che cosa difendiamo, difendendoci, è la domanda che conta, e la risposta è determinante). Lo ha ribadito, per chi ancora non lo capisse, nell’ulteriore articolo di oggi (Europei in cerca d’Europa): mi sono chiesto se, stretti tra Putin e Trump, non fosse l’ora di scendere in piazza per chiedere all’Europa di esistere non solamente come entità burocratico-economica, ma anche come soggetto etico-politico; accelerando il suo lungo (troppo lungo) cammino federativo e trans-nazionale…nella serrata discussione di questi giorni, qualcuno ha detto: prima la pace. Qualcun altro ha detto: prima la libertà. Ma “Europa” vuol dire, sia pure nell’empireo dei princìpi, che le due cose non possono che stare assieme, perché l’una senza l’altra non può esistere [cioè, prima l’Europa!]. Allora, in conclusione, venite con la bandiera europea, abbiamo chiesto. Niente simboli di partito, per cortesia. Una piazza blu a stelle gialle che domandi, e si domandi: noi siamo qui, dov’è l’Europa che vorremmo?
Questa manifestazione, cioè, rivendica uno spazio europeo unitario e indipendente. Nei tempi cupi del trumpismo e in quelli di una possibile vittoria politica Russa (avendo retto economicamente e militarmente alla pressione NATO sul fronte ucraino, nonostante il disastro dell’invasione nei primi mesi), nel quadro dell’avvio di nuove guerre commerciali tra i principali poli capitalistici (in primo luogo USA, Cina e appunto Europa), l’appuntamento del 15 marzo pone come priorità il rilancio di un Unione Europea politica, in grado di proteggere il proprio modello democratico e sociale. Questa è stessa aspirazione, in fondo, di Enrico Letta (Much More Than a Market, april 2024), Mario Draghi (Rapporto sul futuro della competitività europea, settembre 2024) e Romano Prodi (Europa a due velocità, ora o mai più, giugno 2024). La loro declinazione è ovviamente più strutturata di quella di un’opinionista, da ex presidenti del consiglio e politici di primo piano nell’Unione (un europarlamentare, un ex presidente della BCE e un ex presidente della Commissione Europea). Michele Serra evoca la poesia dei valori fondanti, loro articolano la prosa di un piano economico e politico, ma al fondo è esattamente la stessa prospettiva (non a caso, Serra la richiama espressamene nel testo, con il do something). Nelle pagine di Letta e Draghi, nel ribaltamento della storica posizione di Prodi contro l’EuroKern (un nucleo ristretto di paesi a maggior integrazione, avversata negli anni Novanta e oggi delineata come univa via di uscita), non c’è solo la richiesta di nuovi fondi strutturali ed Eurobond, che pure vi sono, ma vi è soprattutto la necessità di dare all’Unione una reale struttura economica condivisa: in primo luogo, cioè, vi è un’unificazione dei capitali, la costruzione di campioni continentali nei principali settori produttivi (IA, ITC, difesa, energia), per sorreggere la competizione con gli altri poli mondiali. Nel progetto di questa nuova unione federale sta il nucleo essenziale del 15 marzo, lo spiega sempre in prosa Romano Prodi, per sostanziare la poesia di Serra delineata in Cosa difendiamo difendendoci: l’esercito comune è lo strumento per garantire la nostra sicurezza con spese limitate, nella tutela dei diritti maturati e delle conquiste democratiche; ora si deve cominciare con quello che si può fare oggi poi subito dopo un comando unico; il riarmo europeo è quindi un primo passo necessario.
Questa proposta ha costretto in pochi giorni tutta la sinistra a prendere posizione, aprendo linee di faglia, discussioni e spaccature nelle principali forze. Questo è già in sé un risultato, che rende evidente la capacità di questo intellettuale e del suo giornale di cogliere una questione politica ancora sotto il pelo dell’acqua dell’attenzione sociale, farla emergere e renderla comune, chiamando le soggettività e le persone a schierarsi. Le manifestazioni che acquisiscono forza e significato sociale sono del resto quelle tracciano un solco e quindi un campo nel quale riconoscersi: quella proposta da Michele Serra e da Repubblica è contro la destra reazionaria e per ridisegnare il campo progressista. Qui sta la sua forza.
Questa è una manifestazione contro la destra reazionaria. La crescente competizione mondiale, rilanciata dalla Grande crisi che si è aperta nel 2006/2009 e dalla sua gestione, è stata accompagnata nell’ultimo decennio da retoriche revansciste e da rigurgiti maschilisti, da nuovi autoritarismi e da sogni di nuovo ordine mondiale, coagulati da un nuovo protagonismo politico e sociale di ceti intermedi minacciati dalla crisi e nostalgici di un tempo mai vissuto. L’abbiamo vista arrivare: Modi, Erdogan, Netanyahu, Shinzo Abe in Giappone, Duterte nelle Filippine, per alcuni aspetti il nazionalismo autoritario di Xi Jinping, Putin e Orban, i fratelli Kaczyński in Polonia, Bolsonaro, Pinera in Cile, la prima presidenza Trump, Salvini e il governo gialloverde nel 2018. L’abbiamo anche vista rilanciarsi con l’invasione in Ucraina e l’apertura di una nuova stagione di imperialismo di attrito: Meloni in Italia, Milei in Argentina, Bukele in Salvador, la seconda presidenza Trump, le politiche genocide di Netanyahu, l’ascesa del RN di Le Pen e Bardella, dell’AFD e di Merz in Germania, delle destre parafasciste nei paesi scandinavi o in quelli iberici. Questa destra reazionaria, oggi, segna la capacità di plasmare la politica mondiale con la ripresa delle guerre commerciali, le minacce di espansionismo USA su Canada e Groenlandia, le ipotesi di pulizia etnica a Gaza, il cambio di atteggiamento geopolitico verso la Russia per sganciarla dall’abbraccio cinese. In questo passaggio di fase, Michele Serra e Repubblica colgono un punto di debolezza e una contraddizione di fondo nella destra reazionaria europea (al contrario di quella USA o asiatica): il suo ripiegamento nelle piccole case nazionali. Questa destra reazionaria ha infatti costruito un consenso di massa a partire da un nucleo centrale di ceti intermedi colpiti dalla crisi economica e dalle politiche di austerità, dai processi di competizione e centralizzazione dei capitali che in questi anni sono stati impersonificati dalle politiche UE. Nuovi e vecchi professionisti, commercianti, piccoli industriali, funzionari e quadri pubblici sono stati schiacciati in questi anni dallo scambio ineguale dell’euro, dai regolamenti commerciali dell’Unione (per imporre standard e prodotti europeo nel mondo, gravando però anche sul piccolo capitale nazionale), dalla concorrenza e della finanziarizzazione. La destra reazionaria è quindi cresciuta a partire da quartieri e aree marginali, agglutinando intorno a questi ceti settori popolari e operai. La competizione economica, politica e militare oggi però si gioca su livelli continentali. Portare questo grumo di rappresentazioni e umori nella prospettiva di un Europa potenza è non solo complesso in tempi brevi, ma apre fratture nel proprio fronte politico. Lo si vede quotidianamente nelle incertezze di Meloni, nei contrasti tra Salvini e Tajani, negli smarcamenti di Vannacci. La destra reazionaria europea oggi non è quindi uno strumento per costruire un’Europa potenza: il giorno che fosse capace di interpretare questa prospettiva, magari declinandola su una supremazia bianca, cristiana e tradizionale, potrebbero cambiare gli assetti del continente. Oggi però queste forze accompagnano al massimo l’idea di un coordinamento tra Stati (un riarmo alla von der Leyen e una politica economica scomposta), che rischia appunto, come sottolinea Serra, di esser travolta come vaso di coccio tra i vasi di ferro di Cina e USA.
Una sinistra di governo per l’Europa. Di fronte all’incapacità delle destre di coprire il ruolo di costruttori di un Unione federale, Michele Serra e Repubblica propongono allora questa prospettiva come progetto identificante per il polo progressista. In fondo, già negli anni Novanta, quando la destra conservatrice del continente era troppo legata ai capitali nazionali, agli interessi delle borghesie locali, alle consolidate gerarchie nazionali nel quadro della CEE, la sinistra riformista si è fatta carico di condurre in prima persona le politiche neoliberiste e di austerità che hanno tessuto l’Unione Europea e l’euro (Delors e il Partito socialista francese, Prodi e l’Unione, Schröder e l’SPD). La dinamica politica degli anni Novanta e dei primi Duemila è così stata a lungo segnata da due destre, una conservatrice ed una progressista, che entrambe hanno condotto politiche di compressione del salario globale (diretto, indiretto e sociale). Questa dinamica ha favorito da una parte i processi di erosione della partecipazione sociale, dall’altra il passaggio di ampi settori alla destra reazionaria (in Italia soprattutto dopo la doppia recessione 2009/2012, grazie al transito nel primo Movimento 5 Stelle e l’approdo nel governo Conte-Salvini). L’idea di Michele Serra e di Repubblica, allora, è che le forze progressiste possono ancora una volta ricoprire il ruolo dei costruttori di una politica europea, oggi non tanto segnata da euro e austerità, ma dalla competizione mondiale e quindi anche dal riarmo. In “un’ottica di pace”, certo, perché così si difendono anche valori democratici, integrazione e stato sociale: la priorità, però, è quella della costruzione del blocco continentale (una sorta di riedizione della politica dei due tempi che, appunto, abbiamo già conosciuto negli anni Novanta, quando la concertazione di oggi doveva servire all’occupazione di domani: in realtà, abbiamo visto solo la compressione salariale e il precariato!). Michele Serra e Repubblica provano così a dare una risposta alle ansie del presente, a sfruttare una debolezza delle destre e quindi a delineare un campo politico per polo progressista in primo luogo europeista. Questa manifestazione allora non si conclude il 15 marzo, perché il suo obbiettivo è aprire il processo costituente di una nuova prospettiva politica, avviare una ridiscussione del profilo programmatico delle forze progressiste e riorganizzarlo intorno alla priorità europea. Si annuncia, cioè, su quella piazza e in quella piazza l’ennesimo congresso permanente del Partito Democratico, per definire il suo perimetro, la sua identità e il suo progetto (alleanza contro le destre, campo largo, campo europeista). Si staglia in questa discussione l’ombra di Paolo Gentiloni, la ricostruzione di un blocco con Renzi e Calenda, l’apertura di un fronte di dialogo con Forza Italia e la sua anima popolare, il superamento della leadership della Schlein, il declassamento dei 5 Stelle. Alla fine, in realtà, l’uomo per tutte le stagioni, quel Giuseppe Conte protagonista del governo gialloverde, giallorosso, del sostegno a Draghi, del campo largo e infine del progressivismo indipendente nelle file europee di The Left, potrà anche interpretare un europeismo grillino, purché subordinato a questo nuovo assetto. Non finirà allora il 15, anche perché questa dinamica si intreccia con altri percorsi e aspirazioni: la scesa in campo di Ernesto Maria Ruffini e i circuiti cattolici, le uscite di Franceschini e lo scavallamento della logica di coalizione, la costruzione di un’alternativa di governo a Meloni e Salvini.
La CGIL è stata spiazzata da questa piazza e dalla sua forza politica. Negli scorsi anni ho radicalmente criticato il gruppo dirigente della CGIL, prima intorno a Camusso e poi intorno a Landini, per l’inconcludenza della sua azione e della sua prospettiva. L’inconcludenza, cioè, delle mobilitazioni, spesso sfasate nei tempi, iniziate ma mai proseguite e perseguite con determinazione (il contrasto al modello Marchionne, fermatosi nel 2012 con Grugliasco e il CCSL, se non nelle aule di tribunale; l’iniziativa contro il jobsact, limitata allo sciopero generale del dicembre 2014 e senza approdare a ulteriore iniziative per oltre un decennio; la Carta dei diritti e i referendum sulla scuola del 2016, la prima dimenticata e i secondi non sostenuti; gli scioperi di marzo nella pandemia, arginati per non trasformare la paura in rabbia; gli scioperi contro Draghi prima e i primi passi di Meloni poi, scomposti e occasionali). L’inconcludenza, però, era anche nella prospettiva di cogestione della crisi: in una stagione di competizione internazionale, di pressione sui margini di profitto e inceppamento dei meccanismi di accumulazione del capitale, in una stagione di Grande Crisi, governo e padronato non sono disposti a nessun compromesso stabile. Negli ultimi quindici anni il sistema contrattuale è stato quindi disarticolato (con crescenti divergenze tra condizioni di lavoro e sistemi di regolazione settoriale) e i sistemi universali del salario sociale sono stati scomposti (previdenza, sanità, trasporti pubblici e istruzione). Nell’ultimo anno la dinamica delle cose (l’azione del governo Meloni, la nuova ondata reazionaria nel mondo, la contrapposizione internazionale) ha avviato un cambio di passo in CGIL: si è assunto la necessità del conflitto per tenere in vita le ragioni e gli interessi del lavoro [mai così citato, ad esempio, alla recente Assemblee delle assemblee a Bologna, dall’introduzione di Alessandro Barbero agli interventi di importanti segretari di categoria]. Ne si è fatta persino una bandiera con l’evocazione ripetuta della rivolta sociale.
Il problema oggi, allora, non è l’inconcludenza, ma rischia di esser l’inconsistenza. La CGIL ha colto la necessità di organizzare lo scontro sociale, ma lo ha incongruamente dislocato soprattutto sul terreno elettorale: il voto è la nostra rivolta. Ha reso nuovamente occasionale lo sciopero generale di dicembre con la UIL, ha lasciato le categorie condurre le proprie diverse vertenze contrattuali (gli scioperi di metalmeccanici e conoscenza, il rinnovo separato nelle Funzioni centrali, la contrapposizione con l’asse CISL e autonomi nelle prossime elezioni RSU della pubblica amministrazione), focalizzando l’iniziativa generale sulla campagna referendaria. La segreteria CGIL ha così fatto una scommessa, quella di poter segnare una primavera referendaria su autonomia differenziata, quesiti sul lavoro e cittadinanza. La forza trainante del quesito contro il federalismo sociale, contro la disarticolazione di diritti e servizi universali, aveva inaspettatamente aperto la possibilità di conquistare il centro dell’agenda mediatica e anche di ribaltare gli attuali assetti politici, erodendo il consenso della destra e mettendo in discussione la stessa tenuta del governo. La consistente raccolta firme sull’autonomia differenziata in poche settimane, la popolarità dell’iniziativa nelle regioni meridionali, l’attenzione anche al nord, rendeva il quorum raggiungibile e quella battaglia al centro dell’attenzione, mentre gli altri quesiti su precarietà, licenziamenti e cittadinanza davano a quella campagna una curvatura sociale che avrebbe in ogni caso segnato il voto. Si pensava così di forgiare un’opposizione fondata su lavoro e difesa dello Stato sociale, in uno scontro elettorale che comunque fosse finito avrebbe sorretto una dinamica di massa.
Questo scenario è stato di fatto smontato in due mosse. In primo luogo, è arrivata la bocciatura del quesito sull’autonomia differenziata da parte della Corte costituzionale. L’esito largamente imprevisto ha improvvisamente spezzato la punta di lancia dell’iniziativa referendaria, non solo rendendo improbabile il raggiungimento del quorum (e quindi la sua capacità di focalizzare l’attenzione sociale), ma anche limitando l’impatto di quel voto (che non mette più in discussione assetti e prospettive del governo). Alcune autorevoli ricostruzioni fanno risalire le ragioni di quell’inatteso pronunciamento all’atteggiamento di ambienti quirinalizi e cattolico-democratici, da una parte preoccupati dall’ascesa di Trump e della tenuta istituzionale italiana (la priorità è evitare la spaccatura del paese e la messa in discussione del governo nel pieno di un probabile, e poi effettivo, turmoil europeo), dall’altro attirati dall’ipotesi di ostacolare un riassetto del polo progressista sui temi del lavoro. Il secondo passaggio è proprio quello del 15 marzo, la proposta di ricostituzione di un campo politico progressista sotto il segno gialloazzurro dell’Europa federale. Il tentativo di CGIL, ANPI, AVS e quant’altri saranno presenti di colorare di arcobaleno quella piazza, sovvertendone dal basso l’assetto gialloazzurro, penso sarà purtroppo inconsistente. In primo luogo, perché indipendentemente dai colori di quella piazza, si è dato vita ad un progetto che affonda come il burro nelle divisioni e nelle incertezze del campo largo e della sinistra riformista. La fondazione sociale e sul lavoro non si può reggere semplicemente su una campagna referendaria e qui pesa, immensamente, l’assenza di un reale movimento di massa, la frammentarietà e l’intermittenza del conflitto sociale. La presenza di CISL e UIL nel gialloazzurro di quella piazza, poi, offre una sponda importante proprio per circoscrivere socialmente ogni dinamica arcobaleno. Anzi, l’incapacità di sganciarsi da quella dinamica anche da parte di soggetti rilevanti del fronte sociale e pacifista, in qualche modo ne consolida la prospettiva e la capacità di attrazione. In secondo luogo, per sovvertire gli assetti politici di una piazza, bisogna avere chiarezza e determinazione sul diverso percorso che si vuole avviare. Questa non è la situazione della CGIL.
La prospettiva di un rilancio federale europeo segnato dal suo riarmo disorienta infatti la CGIL. La storia, la tradizione, la cultura e le ragioni sociali di fondo della CGIL la collocano nel campo pacifista e antimilitarista. Diversamente dalle sinistre francesi e inglesi (diversamente dalla SFIO, dal PCF, o dal Labour), il sindacalismo italiano è quasi sempre stato anticolonialista, antimilitarista e contro la guerra, anche nelle sue propensioni riformiste: non solo nella Prima e la Seconda guerra mondiale, ma anche contro gli interventi in Libia (1911) e Albania (1918-20), nella prima guerra del Golfo (1992) e nelle guerre mediorientali degli ultimi vent’anni. Qualche incertezza per contingenti necessità emersero solo con il Kosovo, e non nella FIOM e nelle sinistre sindacali. Anche allo scoppio della guerra in Ucraina, tre anni fa, la CGIL chiamò una piazza (il 5 marzo) con una piattaforma iniziale inequivocabile, definita con la Rete italiana per la pace e il disarmo, contro l’aggressione, l’allargamento della NATO, l’invio di armi e aiuti militari all’Ucraina, per una neutralità attiva a fianco di lavoratrici e i lavoratori ucraini e russi che si oppongono alla guerra. Una propensione che non è solo contro la logica di guerra, ma anche contro ogni militarizzazione sociale: lo abbiamo visto in questi mesi, con la scelta di FLC, FIOM e FLAI di essere in prima fila nella Rete No DdL Sicurezza, sin dalla prima assemblea nazionale alla Sapienza (novembre 2024). Un percorso condotto come parte di parte, alla pari, in una rete con altre organizzazioni e movimenti sociali. La lettera a Repubblica con cui Landini ha comunicato la partecipazione, ma non l’adesione, della CGIL alla piazza per l’Europa sottolinea il profilo di questo sindacato per i diritti, la pace e il lavoro, la prospettiva di un’Europa sociale. Però, afferma anche che l’Europa deve avere un forte sistema industriale (sottolineando ” ritardi e le fragilità del sistema industriale, incapace di reggere la competizione con le grandi potenze mondiali) e soprattutto non contrasta l’ipotesi di una difesa comune (stigmatizza il riarmo di von Der Leyen ma poi aggiunge: Inoltre, queste risorse e il piano deciso non serviranno né a costruire un esercito europeo né a definire un sistema di difesa europeo). Del resto, il documento per il XIX congresso (Il lavoro crea il futuro), oltre che sottolineare la necessità di una profonda revisione dei trattati europei (potere legislativo al Parlamento europeo, superare il meccanismo decisionale basato sull’unanimità ed estendere gli ambiti di competenza delle istituzioni UE oltre gli attuali), oltre a dare vita a strumenti finanziari di mutualizzazione del debito (eurobond) e a politiche monetarie non convenzionali a sostegno delle politiche industriali europee in settori strategici, si ricorda che L’Unione Europea deve dotarsi di una politica estera e, conseguentemente, di una politica di difesa comune. Nell’inedito passaggio di oggi, in cui la strada di un’ipotetica Europa federale potrebbe passare per un esercito comune europeo e per il riarmo, la CGIL si trova al centro di propensioni diverse. Anche per questo, la discussione in questi giorni è stata così significativa, e così emotiva, nelle sue fila.
Il 15 marzo è stata chiamata anche un’altra piazza. La sicurezza è nel ripudio della guerra. No al riarmo in Europa. No alla difesa comune. No all’economia di guerra. L’affetto serra nuove alla pace. A piazza Berberini, cioè, in diretto contrasto con la priorità all’Europa, si pone la priorità del contrasto alla guerra e al riarmo. Lo ha fatto in primo luogo l’ARCI di Roma, insieme ad Attac, PaP, Rifondazione, PCI, USB e tanti altri: sottolineo il ruolo dell’ARCI di Roma perché, dopo le inequivocabili parole della Presidenza nazionale dell’ARCI (Crediamo che la priorità oggi sia un’altra, no a Rearm Europe), ha esplicitamente fatto appello ad un’altra piazza: Stop Rearming Europe, Contro le politiche coloniali, Per un’Europa bandiera dei popoli oppressi, Pace e solidarietà contro guerra e austerità. L’ARCI, con la forza della sue convinzioni, ha posto quindi il tema di fondo: la priorità è contrastare il riarmo europeo. Questo è il filo che effettivamente permette di affrontare e sbrogliare la matassa: si traccia un solco per definire un campo oggi non solo importante, ma necessario. Certo, in quella piazza alternativa ci sono comunque tante cose, anche confuse. C’è un pacifismo che guarda agli organismi internazionali e alla diplomazia come gli strumenti cardine per le relazioni tra gli Stati: questa prospettiva era irreale nel quadro della guerra fredda (dove ONU e relazioni diplomatiche erano segnate dal contrasto USA/URSS), era astratta nel mondo della globalizzazione (dove le gerarchie del Washington consensus regolavano le relazioni tra paesi), è inconsistente in un mondo segnato dalla contrapposizione multilaterale tra potenze imperialiste in crisi. C’è anche un neo-campismo geopolitico, che guarda al sostegno di un supposto campo avverso contro l’imperialismo dominante (quello USA), alla costruzione di relazioni multilaterali con le nuove potenze emergenti, allo smantellamento dell’Unione Europea in nome di un’Alba mediterranea o simili alleanze trasversali. Né l’una né l’altra sono prospettive per me interessanti: da una parte richiamano esperienze di grande partecipazione ma scarsissimo impatto reale (le grandi manifestazioni del 1938, la seconda potenza mondiale del 2002), dall’altra si finisce per perdere ogni bussola sociale, ogni prospettiva di classe, per sostenere semplicemente questo o quell’altro imperialismo in campo. Però, oggi questa piazza utile, proprio per segnalare il netto contrasto alla proposta di un Europa federale che si fonda nella competizione e nel riarmo.
Il punto però, è che il solco fra le due piazze non può essere oggi una barricata, non è utile che sia oggi una barricata. Chi porta la bandiera della pace alla manifestazione per l’Europa, prova comunque in qualche modo a sovvertire quello schema, pur non mettendo apertamente in discussione la priorità dell’Unione Europea. Soprattutto, molti non sono né in una piazza, né nell’altra, perché non colgono oggi la centralità di questo contrasto, pur percependo le ambiguità ed i rischi di quella prospettiva europeista. Il punto, allora, è che oggi è il tempo di arare il campo di una disfattismo e un antimilitarismo di massa. Arare un campo vuol dire avere la capacità di ribaltare percezioni e rappresentazioni diffuse, aprendo lo sguardo alla dinamica incipiente ma evidente del riarmo internazionale, della tessitura di blocchi internazionali, della precipitazioni di contrapposizioni commerciali, economiche e militari tra i principali poli capitalistici. Arare un campo vuol dire oggi costruire nel confronto politico, nel dibattito pubblico, nel senso comune la percezione che la nostra realtà si sta muovendo verso la contrapposizione tra poli imperialisti, una progressiva militarizzazione sociale e persino processi di nazionalizzazione di massa. A sospingere queste dinamiche non è una semplice volontà politica distorta, l’irresponsabile automatismo comportamentale di sonnambuli senza cervello, le folli propensioni di questo o quel leader autoritario: la competizione e lo scontro internazionale sono indirizzati dai processi di accumulazione del capitale, dalla necessità di espandere i mercati ed esportare capitali per riprodurli, dalla finanziarizzazione e dall’inquadramento di queste tendenze da parte dello Stato, che sempre più si pone come sostegno, difesa e quindi organizzatore dei capitali del proprio territorio.
Se la militarizzazione sociale e il riarmo è allora una tendenza strutturale del nostro presente, la nostra priorità, allora, è quella di sviluppare un movimento di massa disfattista e antimilitarista. Questo processo è oggi inevitabilmente in alternativa alla definizione di un campo progressista che fa dell’Europa la sua priorità, ma deve anche esser capace di darsi una propensione di massa, provando a portare contro la guerra e il riarmo non solo e non tanto i settori radicali dell’attivismo politico e sociale, ma l’insieme delle classi subalterne di questo paese. Per questo, oggi, nel momento in cui per la prima volta si apre nel corpo vivo delle forze della sinistra e nel senso comune di ampie masse una riflessione e un confronto sulle dinamiche del presente, la prospettiva della guerra, la costruzione di una potenza europea, bisogna avere la determinazione delle proprie convinzione, ma anche la capacità di spiegare pazientemente, dialogare apertamente, spostare progressivamente le rappresentazioni e le coscienze collettive. Questa prospettiva, oggi come ieri, non può fondarsi semplicemente su un astratta volontà di pace, sull’affidamento a diplomazie tra classi dominanti o sul sostegno di un multipolarismo capitalista. Non può, cioè, fondarsi sulla richiesta di Pace, ma deve costituirsi nell’opposizione concreta alle dinamiche di competizione e di guerra. Questa prospettiva, oggi come ieri, deve allora in primo luogo riscoprire le proprie radici sociali, le proprie ragioni di fondo, che sono quelle dell’autonomia del lavoro: nei rapporti di produzione e nei rapporti sociali complessivi, la percezione collettiva dell’autodeterminazione degli uomini e delle donne rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale, il contrasto tra gli interessi generali del lavoro e quelli del capitale, fonda la rivendicazione dell’indipendenza della classe lavoratrice rispetto alle classi dominanti, nel proprio paese, nel proprio continente, come in ogni paese e in ogni continente. Riscoprire le radici del sindacato e del lavoro, allora, vuol dire riattivare il profilo internazionale e internazionalista del lavoro, che contro le logiche di guerra e contro gli inquadramenti nazionalistici, contrasta radicalmente la logica della competizione e della concorrenza capitalista. Nell’autonomia dal capitale, si riscopre allora anche il disfattismo delle classi subalterne. Per questo, oggi, come sindacato e come area sindacale, ha senso nel solco dell’ARCI nazionale, sottolineare che La guerra è già nelle cose e il nuovo ordine mondiale fondato sul più forte e sull’accordo tra i più forti compone un quadro drammatico…Crediamo allora che la priorità oggi sia quella di contrastare il Piano europeo ReArm e sconfiggere conseguentemente quell’idea che si è imposta nel tempo nel nostro continente: “La Fortezza Europa”.
Luca Scacchi