Costruire ed allargare la mobilitazione contro la stretta autoritaria del governo. Contrastare il Disegno di Legge Sicurezza e le sue misure repressive e liberticide.
Strozzata dai vincoli economici imposti dall’U.E, la compagine di Giorgia Meloni si esercita più volentieri sul controllo, sulle pedagogie repressive e sull’evocazione di continue emergenze sociali, quelle che servono a nascondere i problemi reali o a inventare nuovi nemici. Tale intento securitario sta procedendo con gli scarponi chiodati, moltiplicando i divieti e le punizioni. Soprattutto a danno dei poveri e di chi canta fuori dal coro. Rigore, disciplina e classismo sono le coordinate che guidano l’azione del governo delle destre. In particolare, il Ddl Sicurezza approvato dalla Camera, e ora al vaglio del Senato, riassume in sé il proposito autoritario e la foga ideologica e repressiva degli attuali inquilini di Palazzo Chigi; rivelando l’ansia di colpire ogni forma di protesta prima ancora che si materializzi.
Il pacchetto di norme istituisce nuovi reati e inasprisce le pene, trasformando le questioni sociali in emergenze da reprimere. Il filo nero che lo attraversa è la punizione della marginalità sociale, e la negazione del conflitto, represso e sostituito con la figura del nemico interno da silenziare. In questo quadro, le forme con le quali si manifestano le lotte dei lavoratori diventano dei reati puniti con la reclusione carceraria. Ad esempio, chi partecipa a un picchetto (“impedendo con il proprio corpo la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata”) commette un delitto, e non più un illecito amministrativo com’era finora, ed è passibile di una pena che varia dai sei mesi ai due anni di reclusione. Anche le lotte a difesa dell’ambiente e per il diritto all’abitare sono messe pesantemente nel mirino, introducendo una serie di nuovi reati con pene draconiane anche laddove le proteste siano assolutamente pacifiche. Ciò dimostra chiaramente l’esplicito obiettivo di svuotare a colpi di normative repressive ogni forma di solidarietà e di mutuo soccorso tra le figure sociali che oggi subiscono il peso della crisi economica capitalista. Un giro di vite draconiano, quello governativo, che rivela il proposito di affermare un modello compiutamente autoritario, in grado di disciplinare la società e di favorire i patrocinatori delle agende neoliberiste.
Un capitolo a parte merita il trattamento spietato e disumano riservato ai carcerati e ai migranti. Infatti, nel disegno di legge ci si inventa persino il reato di “rivolta in carcere”, con pene da uno a quindici anni di reclusione per chi non obbedisce agli “ordini impartiti” anche mediante “resistenza passiva”; mentre in un successivo articolo la stessa fattispecie si estende anche alle strutture di accoglienza per minori non accompagnanti e per rifugiati titolari di protezione internazionale. Questa è nel concreto la risposta del governo Meloni all’emergenza carceri, che farà si che mentre i suicidi tra le sbarre crescono a ritmo infernale (80 dall’inizio dell’anno), con queste misure si gonfieranno ulteriormente le celle, peggiorando sensibilmente la condizioni dei detenuti.
Una stretta autoritaria che arriva da lontano.
Questo disegno di legge rappresenta il punto d’arrivo di un processo che si è sviluppato negli ultimi vent’anni. Le condizioni di questa regressione si sono sedimentate grazie alle politiche realizzate dai governi precedenti. Il P.D. e il centrosinistra perseguendo un disegno di “modernizzazione”, fondato sulla centralità dell’impresa e del mercato ha nel corso degli anni realizzato delle “riforme” sul terreno delle politiche sociali (tagli del welfare), del lavoro (concertazione e precarizzazione), della politica economica (privatizzazioni), introducendo anche norme tese a criminalizzare i migranti e a punire la marginalità sociale. Dagli indimenticati “decreti sicurezza” di D’Alema contro la microcriminalità, alle intemerate iniziative di Veltroni che chiedeva più galera ed espulsioni per i rom e i rumeni, fino ad arrivare alle gesta di Marco Minniti, che con i suoi provvedimenti ha sancito un deciso passo indietro sul piano dei diritti e della civiltà giuridica del nostro Paese; come quello sui migranti, che eliminò per gli stessi la possibilità di ricorrere in appello e istituì centri di rimpatrio in ogni regione. Non solo, ma l’allora ministro degli interni del PD fece approvare un decreto sulla “sicurezza urbana” che dava ai sindaci i poteri dei questori per la pulizia e il decoro dei centri storici. Nel mirino di quel provvedimento vi erano i senza tetto, gli occupanti di case, i tossicodipendenti, i Writers e i giovani della movida. Inoltre, veniva allargata ai manifestanti la “flagranza differita di reato”. Inseguendo la destra su terreno securitario, titillando gli umori del suo peggior elettorato, si è così esaurito ogni barlume progressista, e si è costruito un discorso a senso unico che negli anni ha tolto voce a chi si opponeva al razzismo e alle leggi discriminatorie contro gli stranieri.
La Radicalizzazione della cattiveria sociale ha bisogno di una narrazione ideologica.
Ma oggi, le politiche del governo Meloni descrivono una pesante torsione autoritaria e liberticida. Reprimere cancellando il conflitto è lo strumento che si vuole adottare per scongiurare un nuovo ciclo di lotte che possa rimettere in discussione le politiche dominanti. In un’epoca segnata dalla grande e prolungata crisi capitalista, dove tornano a soffiare i venti di guerra, la gran parte delle risorse viene utilizzata per sostenere le grandi imprese e per finanziare i programmi di riarmo. Lo smantellamento dello stato sociale, i tagli alla scuola, alla sanità e alla previdenza che le politiche di austerità prevedono rischiano di accrescere la crisi di consenso delle classi dominanti. Per questo c’è anche il bisogno di distrarre, costruendo un clima di perenne emergenza, che occulti le radici delle disuguaglianze sociali e delle devastazioni ambientali. Per questo, ad esempio, la radicalizzazione della cattiveria sociale dev’essere mistificata, costruendo dei facili capri espiatori indicati come nemici del benessere comune. Lo si è visto chiaramente quando si è trattato di eliminare il reddito di cittadinanza. Infatti, la destra al governo ha accompagnato questa misura con una vibrante campagna ideologica contro i poveri. In quell’occasione, l’accanimento contro i percettori del sussidio si è richiamata ad una presunta morale pubblica, che esaltava il merito e i comportamenti virtuosi come condizioni per accedere al benessere. L’idea di base che veniva veicolata era quella che la povertà fosse un fatto disonorevole, dovuto ad una colpa individuale. Il lessico che venne utilizzato fu quello della responsabilità individuale; un repertorio di argomenti mistificanti per giustificare l’ingiustizia sociale che il vigente modo di produzione determina. La morsa del bisogno –secondo i cantori del libero mercato- era dunque dovuta ad un demerito personale del singolo, era causata dall’indolenza di chi non vuole lavorare, studiare, intraprendere; di chi, com’è stato detto, preferisce rimanere assiso sul divano di casa a impigrire. In questo caso, abbiamo quindi assistito, ad un completo rovesciamento di senso, a un racconto a dir poco contraffatto della realtà: l’indigenza è una scelta di vita, non una condizione generata da una società basata sul profitto, la crescente diseguaglianza socio-economica che impoverisce molti per arricchire pochi è un fatto di natura, non il prodotto di una società dove il credo liberista fa strame di qualsivoglia diritto sociale.
Oggi come allora, questa rappresentazione pubblica delle cause della povertà, è tesa a disciplinare la società entro i canoni di una solida impostazione conservatrice e reazionaria; un neoliberismo autoritario che punta ad assoggettare con norme, comandi e principi morali gli strati subalterni della società. Come si vede, questa vera e propria “guerra culturale” scatenata dal governo delle destre, allude a raffigurare le classi subalterne, come uno strato dove albergano anche elementi “pericolosi” e “devianti”. Ciò non rappresenta una novità, già Gramsci nei ‘Quaderni del carcere individuava questa chiave di lettura: “Per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico”. Una “guerra culturale”, che da tempo, viene tradotta concretamente in leggi, ordinanze e divieti che si accaniscono contro la parte più debole della società: migranti, senzatetto, marginali e clochard sono sempre di più nel mirino delle istituzioni locali e nazionali.
Nell’Italia del terzo millennio la povertà è un reato: se non hai una casa, una rete di contatti che ti permetta di trovare un posto dove dormire, non meriti di trovare riparo, di essere assistito, ma solo di essere punito e sanzionato. Sullo sfondo della crisi del movimento operaio si è esaurito ogni barlume progressista, e il capitalismo torna ai suoi albori. Le disposizioni odierne richiamano – mutatis mutandis- le feroci misure varate all’epoca dell’accumulazione originaria” del capitale, che punivano chi si sottraeva al lavoro e dava spettacolo di povertà. Karl Marx in un capitolo del primo libro del Capitale descrive efficacemente la “legislazione sanguinaria” messa in atto dalla monarchia britannica. “I mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendacità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono essere legati dietro a un carro e frustati finché il sangue scorra dal loro corpo”. E più avanti descrive i provvedimenti presi da Giacomo I d’Inghilterra per scoraggiare coloro che non si piegavano alla disciplina produttiva della nobiltà cadetta. “Una persona che va chiedendo in giro elemosina viene dichiarata briccone e vagabondo. I giudici di pace, nelle Petty sessions (Tribunali locali) sono autorizzati, a farla frustare in pubblico e a incarcerarla, la prima volta per sei mesi, la seconda per due anni… I vagabondi incorreggibili e pericolosi debbono essere bollati a fuoco con una R sulla spalla sinistra e messi ai lavori forzati; se vengono sorpresi ancora a mendicare, debbono essere giustiziati, senza grazia…Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”.
Ripartire dalle Ragioni del Mondo del Lavoro.
Certo, oggi le teste coronate non dettano più legge, e le secolari lotte operaie che hanno consentito alle classi subalterne un avanzamento sociale e civile non permettono più a “lor signori” l’uso disinvolto della corda saponata, l’esercizio della spietata brutalità su larga scala che in quel tempo veniva usato per mantenere saldo l’ordine capitalistico. Ma le leggi di fondo del funzionamento capitalistico rimangono le stesse, con il loro carico di crudeltà nei confronti degli ultimi della scala sociale. Come quello che viene attuato nei confronti delle popolazioni che scappano da guerre, fame e miseria, e cercano riparo nei paesi occidentali. Questi disperati vengono criminalizzati, respinti e deportati. Le politiche di respingimento attuate dalla U.E. e gli accordi dell’Italia con alcuni paesi del Nord Africa vanno in questo senso, e mostrano chiaramente il volto disumano di un occidente capitalista che ha come unico obiettivo quello di respingere i profughi che cercano aiuto. In un’Italia, che registra un crollo dei salari, mentre i super-ricchi possiedono la ricchezza equivalente a quella del 60 per cento di chi è considerato povero, lo stigma inflitto ai più deboli serve a rimuovere i problemi dell’eguaglianza e della giustizia sociale; è funzionale a mantenere i poveri, i precari e i disoccupati nel silenzio e nella vergogna.
Per contrastare la deriva del nazionalismo, il risorgente razzismo e l’incipiente guerra tra i poveri che si sta sviluppando, non basta contrappore i valori della solidarietà e della convivenza. Occorre ripartire dalle ragioni del mondo del lavoro, per ricostruire l’unità di classe tra tutti gli sfruttati attorno ad un programma anticapitalista che rivendichi il diritto alla casa, allo studio, alla salute, al lavoro stabile e ben retribuito. Per questo serve una sinistra capace di andare controcorrente; una sinistra che rivendichi apertamente l’abolizione di tutte le leggi che discriminano gli immigrati, e che si batta per i pieni diritti politici e civili per tutti. Una sinistra capace di aiutare gli strati subalterni a prendere la parola, a ripoliticizzare il fenomeno della povertà come problema strettamente legato all’assetto capitalistico della società.
Per una Mobilitazione Larga e Unitaria.
La criminalizzazione del dissenso serve a un governo reazionario che punta a rafforzarsi soprattutto puntando sull’ordine e sulla paura. E serve anche a nascondere i contenuti delle contestazioni, dipingendo scenari a tinte fosche che richiamano lo spettro degli anni di piombo, com’è accaduto alle recenti mobilitazioni studentesche che sono state stigmatizzate e delegittimate dai massimi esponenti del governo Meloni, a partire da Nordio, il ministro della giustizia che ha ingiunto ai magistrati “di essere severi contro questi banditi”. Le manganellate –fisiche e mediatiche- agli studenti arrivano in un contesto dove i tagli alla scuola e l’aumento dell’alternanza scuola-lavoro sono imperanti, dove il futuro dei giovani appare del tutto dominato da uno stato di accresciuta precarietà. Questo attacco al diritto di protestare- come mai era avvenuto nel corso della storia repubblicana- avviene in un clima mediatico nel quale il tema del riarmo e della preparazione ad una eventualità bellica è ormai accettato ed evidente. La criminalizzazione delle manifestazioni di protesta contro le politiche adottate dai governanti non è un esclusiva solo italiana, ma è una tendenza internazionale che si sta sviluppando anche in altri paesi, non solo in quelli retti da un regime autocratico, ma anche in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, dove sempre più spesso si adottano provvedimenti che mirano a contenere il dissenso con esplicite restrizioni alla libertà di manifestare, censurando il pensiero non allineato, e arrivando persino a introdurre un codice di abbigliamento, con tanto di divieto ad indossare la Kefiah, quale simbolo che può richiamare la lotta del popolo palestinese. In un contesto dove le libertà si stanno assottigliando, e dove si legifera inventando nuovi reati, trasformando le multe in galera è fondamentale costruire una mobilitazione larga e unitaria che possa accumunare tutti coloro che intendono avversare questa pericolosa deriva reazionaria. A partire dallo sciopero generale del 29 novembre, dalla giornata di lotta del 30 novembre indetta contro il massacro del popolo palestinese, per arrivare alla giornata della manifestazione nazionale a Roma del 14 dicembre contro il Disegno di legge Sicurezza sarà importante fare emergere e comunicare ai lavoratori e i giovani del nostro paese i contenuti alternativi che oggi possono contrastare la filosofia pubblica di questa compagine sovranista, la quale in sostanza, si riduce a quattro comandamenti: libertà per i ricchi, impunità per i potenti, demagogia per i creduloni, manganello per i devianti e i contestatori.