Documento approvato all’Assemblea nazionale di ControVento, Bologna 20 ottobre 2024
UN MONDO VERSO L’ABISSO, UN FILO DA SEGUIRE E UN NODO DA STRINGERE
Mentre si tessono nuovi blocchi, si acutizza la competizione e si diffondono conflitti, la classe lavoratrice è divisa e l’avanguardia rivoluzionaria è frantumata: è tempo di ritessere un percorso internazionale.
1- ControVento è nato con l’invasione russa dell’Ucraina e la sua svolta epocale: in questi due anni abbiamo dovuto confrontarci con una precipitazione della competizione interimperialista, la costruzione di aree di riferimento contrapposte e la diffusione delle guerre (56 quest’anno nel mondo, il numero più alto dal 1945). Abbiamo quindi dovuto approfondire le nostre analisi e collocazioni, verificare collettivamente l’ottica comunista e rivoluzionaria di fronte a questa nuova stagione di guerra, cercando in primo luogo di salvaguardare un punto di vista indipendente della classe lavoratrice e una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria di questo modo di produzione. In questa terzo appuntamento nazionale dell’AMR, allora, confermiamo il quadro generale di riflessioni e posizioni che abbiamo espresso in questo periodo.
- Una stagione di imperialismo di attrito. In questi due anni abbiamo usato spesso questa definizione: cosa intendiamo? La principale dinamica che oggi domina il mondo è l’apertura di una fase storica di acuta contrapposizione tra i principali poli capitalisti che, però, non tende immediatamente a precipitare in una guerra globale. Questa dinamica informa le relazioni tra i diversi paesi ma anche le complessive relazioni sociali tra le classi. La Grande Crisi e la sua gestione, con una radicalizzazione delle politiche neoliberiste precedenti, aveva già tessuto nell’ultimo decennio aree economiche e politiche di riferimento delle principali potenze imperialiste [allargamento NATO; Belt and Road Initiative; scontro commerciale USA-Cina; Trans Pacific Partnership intorno agli USA e Regional Comprehensive Economic Partnership intorno alla Cina]. Questa dinamica ha spinto la Russia verso la Cina (accordi 2014 sui gasdotti) e messo sotto tensione la sua fragile struttura capitalista (conglomerati energetici e residui dell’apparato militar industriale). La volontà di potenza di Putin ha creduto di cogliere nella nuova assertività cinese, nelle contraddizioni europee e nelle sconfitte USA (Iraq e Kabul) l’occasione di ribaltare sul piano militare il suo progressivo confinamento: così si è avviata improvvisamente una nuova stagione di spartizione del mondo, che sta riorganizzando e stringendo nuovi schieramenti. Lo vediamo nei disallineamenti sulle sanzioni alla Russia (India, paesi arabi e Sudamerica), nei golpe antifrancesi in Sahel, nel nuovo protagonismo cinese con l’allargamento dei BRICS e la mediazione Riad/Teheran, nelle prospettive di partnership Iran-Russia, nell’attacco palestinese del 7 ottobre, nel macello di Gaza e nel tentativo israeliano di ridisegnare gli assetti della regione (ridimensionamento Hezbollah, invasione del Libano, attacco all’Iran). Un nuovo conflitto globale è oggi nell’orizzonte degli eventi: cioè, non è solo uno dei possibili sviluppi della situazione, ma la sua stessa eventualità tende a indirizzare i processi politici, economici, sociali e militari, spingendo in quella direzione. Molti i segni di questa dinamica: l’avvio di un riarmo generalizzato (sebbene ancora distante dagli anni ’50, tra 6 e 10% del PIL in USA), focalizzato sulla ricostruzione di grandi eserciti moderni, convenzionali e potenzialmente di massa; l’incipiente tendenza a politiche protezioniste e ad una ricentralizzazione del sistema produttivo, anche con un nuovo protagonismo statale, in un’ottica di scontro tra blocchi se non di guerra; la mobilitazione della società, con processi di progressiva nazionalizzazione e militarizzazione di massa; l’esplosione di conflitti nelle aree di frontiera, che si cerca in ogni caso di circoscrivere. Anche se la profonda interconnessione dei mercati sviluppata negli ultimi quarant’anni e la minaccia di possibili olocausti nucleari ostacolano per il momento l’esplosione di una guerra mondiale, la sua ombra tende a ridisegnare ogni conflitto nel mondo e anche ad impregnare lo scontro di classe lungo l’articolata gerarchia internazionale del capitale.
- Il ruolo del nuovo imperialismo cinese. Questa nuova stagione è incomprensibile senza l’affermazione di rapporti di produzione capitalisti in Cina [maturati nella stagione denghista e dominanti con l’entrata nel WTO] ed il passaggio ad un sistema di accumulazione centrato su campioni nazionali, investimenti infrastrutturali e sviluppo finanziario. Qui si trova la base strutturale di una nuova politica imperialistica, espressa oggi da Xi Jinping: in questi decenni la struttura bonapartista di uno stato operaio deformato ha gestito senza soluzione di continuità una transizione capitalista e rivestito lo stesso ruolo per un imperialismo nascente, conducendo sotto la pressione della dinamica ineguale e combinata dei mercati mondiali una rivoluzione passiva, mediando i diversi interessi capitalisti e mantenendo subordinata la classe lavoratrice. La Cina, nonostante i suoi profondi disequilibri che rendono difficile controllare un proletariato concentrato anche se ancora immaturo, sta riuscendo a stabilizzare la nuova moderazione (crescita annua inferiore al 5% del PIL), a contrastare la competizione tecnologica USA (Hauwei), a sorreggere con la sua profondità l’iniziativa russa e a conquistare un ruolo in Medioriente. La Cina ha oramai raggiunto il PIL annuo dell’Unione Europea (18mila mld di $) e secondo molti potrebbe arrivare a sorpassare quello USA tra 2035 e 2045 (sebbene la grande moderazione abbia oggi rallentato la sua corsa). Questa dinamica la propone sempre più come il nuovo centro degli assetti gerarchici del capitalismo mondiale, in competizione con la potenza sinora egemone degli Stati Uniti: al di là di paragoni storici astratti (la trappola di Tucidide, cioè la tendenza della potenza declinante ad aprire una guerra prima di esser travolta, ricordando Atene e Sparta), abbiamo già visti simili passaggi nello sviluppo capitalista, all’interno di guerre globali che ne hanno però visto alleati i protagonisti (UK e USA). L’integrazione produttiva e finanziaria che ha sorretto la globalizzazione, con un’egemonia USA e uno sviluppo cinese, ha a lungo sostenuto la loro stretta collaborazione, con sostenitori nelle file del PCC (le provincie costiere) e nel capitalismo USA (le grandi ICT della costa pacifica). Altri settori del grande capitale (infrastrutture e energia), la Grande Crisi e le sue dinamiche competitive, la nuova capacità produttiva cinese nelle ICT e nell’automotive stanno spingendo nell’altra direzione. Non è solo l’ipersensibile politica americana che cerca la contrapposizione, dal Pivot to Asia di Obama (lo spostamento di attenzione per un contenimento della Cina) all’asse Indo-Pacifico di Trump e Biden (alleanze politico-militari intorno alla Cina). La recessione mondiale del 2009 ha sviluppato in Cina un regime di accumulazione meno focalizzato sulle esportazioni e l’inserimento nelle filiere produttive internazionali, in cui pesano di più gli investimenti sulle infrastrutture (porti, città, treni ad alta velocità, auto, ICT) e la costruzione di grandi imprese proiettate sui mercati mondiali (tra le prime cento al mondo ricordiamo ad esempio Stategrid, Sinopec, China National Petroleum, China State Construction Engineering, Industrial & Commercial Bank of China; China Construction Bank; China Railway Engineering Group; Bank of China; China Railway Construction, China Baowu Steel Group, Ping An Insurance; Sinochem, SAIC motor, China Communications Construction, Alibaba, Huawei, tutte più grandi delle italiane ENEL ed ENI, a parte l’ultima sostanzialmente equivalente). Questo assetto produttivo e finanziario, sostenuto dallo Stato, è quindi la struttura che sottende la nuova proiezione imperialista cinese
- Gli Stati Uniti confermano la loro nuova fragilità, segnata anche da una scomposizione della sua struttura sociale ed una profonda spaccatura delle sue classi dirigenti. La riorganizzazione produttiva e finanziaria che si è sviluppata durante la lunga onda depressiva neoliberista ha rilanciato la sua egemonia mondiale (Washington Consensus), culminando nel tracollo dell’URSS e nella cosiddetta globalizzazione. Gli USA hanno quindi a lungo rallentato ed occultato il loro progressivo ridimensionamento, grazie al dominio dei mercati finanziari, ad un esorbitante forza militare e a un debito crescente (reso gestibile dal ruolo internazionale del dollaro). La Grande Crisi ha però esaurito questo precario equilibrio, scompaginando il suo dominio finanziario, facendo emergere la sua sempre maggior debolezza produttiva, logorando la sua forza militare. Questa dinamica non ha solo un risvolto internazionale, ma sta aprendo fratture profonde nella stessa società americana. Oggi assistiamo ad un radicalizzarsi delle divergenze tra le diverse aree economico-sociali (New England, Deep South, Midwest, Grandi Pianure, Costa pacifica), tra realtà metropolitane e rurali, tra i diversi gruppi etnici, mentre si è esaurita la capacità di controllare il suo proletariato attraverso forme di redistribuzione settoriale del surplus imperialista (alti stipendi, sussidi agrari e fondi pubblici, gestione diffusa del debito). In quest’ultimo decennio abbiamo allora visto una ripresa del conflitto sociale, segnato non solo da grandi movimenti sociali [OccupyWallStreet; Black Lives Matter, #Meetoo; gli studenti universitari, #FreePalestine], ma anche da una ripresa del conflitto nei rapporti di produzione [nuova direzione UAW e scioperi dell’auto, vertenze insegnanti e università (Minneapolis, Pennsylvania, Colorado, California), la lunga mobilitazione di attori e sceneggiatori, le lotte per il salario minimo]. Questi conflitti, però, sono stati spesso segnati da politiche identitarie, che perimetrano le specifiche oppressioni astraendole da un’analisi dei rapporti di produzione, e da un’intersezionalità come semplice sovrapposizione di diverse oppressioni, producendo da una parte divisioni che hanno ostacolato la generalizzazione dei diversi cicli di lotta e dall’altra movimenti moltitudinari senza alcun perimetro e punto di vista di classe. Questa radicalizzazione dei conflitti, frammentazione delle soggettività e disarticolazione della struttura sociale ha sviluppato anche un movimento reazionario intorno alla paura e alla rabbia dei ceti intermedi (compreso quelli asiatici, latinos e persino black), al revanscismo di settori di proletariato bianco (in particolare rurale) e a movimenti religiosi fondamentalisti, in particolare evangelici. Un movimento capace di penetrare anche nelle classi subalterne, sopravvivere a sconfitte elettorali e ridisegnare l’assetto del Partito Repubblicano (MAGA), mentre la classe dirigente USA, ed in particolare il suo grande capitale, è divisa tra il rinnovamento delle strategie di accumulazione perseguite con la globalizzazione e lo sviluppo di nuovi assetti nazionalisti, aggressivi e ripiegati sul proprio territorio. Le prossime elezioni americane, quindi, riproducono la contrapposizione tra queste nuove tendenze reazionarie (Trump) e un fronte democratico ancorato alle politiche liberiste (Harris), senza nessuna sostanziale espressione politica di un’alternativa di classe e nemmeno degli scomposti conflitti sociali dell’ultimo decennio.
- Un’Unione Europea in tensione e stallo, una prospettiva di potenza ad oggi minoritaria. Il terzo protagonista è l’imperialismo debole e multipolare dell’Unione Europea. Il suo progetto federalista nasce dalle macerie del 1945, la sua cooperazione economica e commerciale è sospinta dalla guerra fredda. L’area europea ha comunque mantenuto nei decenni una pluralità di formazioni sociali, subordinate all’asse atlantico e con centri capitalistici tra loro in competizione. Il crollo dell’URSS e la riunificazione della Germania ha prodotto un primo abbozzo federalista incompiuto, senza l’unificazione di capitali, politiche fiscali e forza militare, con istituzioni confuse e procedure farraginose. La politica euroasiatica tedesca (esportazioni verso la Cina, sviluppo di un possibile asse autonomo dagli USA) e la politica atlantica di contenimento della Russia hanno portato all’espansione ad oriente dell’Unione, che ha complicato la già fragile architettura istituzionale. Questo processo federalista ha comunque sospinto una profonda ristrutturazione produttiva del continente, con lo sviluppo di un nucleo mitteleuropeo [oggi espanso oltre la Germania in Scandinavia, Benelux, Parigi e Francia centro-meridionale, Italia settentrionale e Catalogna], una nuova area industriale prossimale [Polonia, Boemia, Slovenia e in parte Romania], una cintura periferizzata [deindustrializzazione, sviluppo turistico e debito: Italia e Spagna meridionali, Portogallo, Croazia, Grecia, Cipro], alcuni centri finanziari [Irlanda, Malta, Estonia, Lussemburgo e per certi aspetti Paesi bassi]. La Grande crisi ha messo in tensione questi assetti, con il fallimento della rifondazione costituzionale (la revisione dei trattati, collassata nel 2007), la divaricazione delle dinamiche economiche, l’esposizione dei principali istituti finanziari del nucleo mitteleuropeo, la pressione su alcuni debiti sovrani periferici. Si sono così acutizzate le politiche di austerità [tagli alla spesa pubblica, pareggio di bilancio in Costituzione; esaurimento del modello sociale europeo, Draghi 2012], aprendo la strada a spinte centrifughe nell’Unione. Il tentativo di resistenza del lavoro (scioperi generali 2010/2012 e referendum greco 2015), scomposto e ancorata ancora a logiche riformiste [un’astratta Europa sociale, ipotetico centro di regolazione keynesiana con una spesa pubblica federale] è stato travolto dalla sua ricerca di mediazione, mentre la logica neoliberista si è imposta e la BCE è emersa come unica istituzione strategica (Whatever it takes, Draghi, 2012). Al termine del decennio, la Brexit segnava un rilancio delle dinamiche centrifughe e la pandemia un primo cenno di ripresa federalista (Next generation UE). L’imperialismo di attrito ha quindi sconvolto questi assetti: si è rotta la prospettiva d’integrazione euroasiatica (Nordstream), si è messo in discussione la politica esportativa del suo nucleo, si è sviluppato un fronte militarista in Scandinavia e alla frontiera orientale (Svezia e Finlandia nella NATO, riarmo polacco, mobilitazione dei Baltici, con posizioni a sostegno anche nella nuova sinistra). Il grande capitale, già diviso su linee nazionali e con scarse aggregazioni continentali, si è ulteriormente scomposto tra la prospettiva di serrare le file dell’asse atlantico e timide ipotesi autonomiste. Si è così infranta ogni logica di investimenti federali (rinnovo del Next Generation UE) e si è imposta una nuova austerità (rinnovo del patto di stabilità), mentre il nucleo politico dell’Unione si è indebolito (instabilità governativa di Francia e Germania), il Parlamento europeo ha maggioranze variabili, la Commissione è tentata da fughe in avanti. In questo contesto il Piano Draghi si propone come unica agenda di fase, con l’obbiettivo di sviluppare il capitale continentale intorno ad un cuore produttivo centrato su difesa, energia, ICT, sostenuto da politiche commerciali e grandi investimenti continentali, sorretto da una gestione intergovernativa (Europa a diverse velocità, a cui si è convertito anche Prodi). Una visione volta a far sopravvivere il capitale europeo nella spartizione del mondo, che si scontra oggi l’assenza di un soggetto sociale o istituzionale in grado di imporla, in assenza di un’emergenza straordinaria. Grave, in tutto questo, la fascinazione per l’ipotesi federalista della vecchia e nuova sinistra riformista, che non vi vedono la preparazione e l’intervento nelle dinamiche del conflitto globale.
- Le instabilità delle cinture intorno ai poli capitalistici. La stagione della globalizzazione ha impattato su tutti i paesi della semi-periferia e della periferia. La diffusione della rivoluzione verde, l’industrializzazione e la bio-ingegnerizzazione dell’agricoltura, la formazione di ampi mercati internazionali hanno da una parte marginalizzato le economie locali, dall’altro avviato estesi processi di mercificazione, inserimento nei circuiti di valorizzazione e industrializzazione di questi territori. Questi processi hanno determinato un’impressionante riduzione dell’estrema povertà (dal 50% nel 1970 a poco più del 10% della popolazione mondiale oggi); un crollo della malnutrizione (dal 34% del 1970 al 12% di oggi); una contrazione del tasso di mortalità infantile da 100 per mille nati vivi nel 1970 a 25.51 di oggi; un aumento della speranza di vita media dai 57 anni del 1970 ai 73 di oggi. Questi stessi processi hanno però innescato enormi migrazioni, la formazioni di inedite megalopoli (spesso più grandi di quelle delle metropoli imperialiste), un aumento dello sfruttamento e della marginalità sociale. I paesi della periferia e della semi-periferia oggi sono quindi caratterizzati da un’estrema polarizzazione tra limitati ceti borghesi globalizzati e masse diseredate, spesso di recentissima urbanizzazione, con lo sviluppo di una classe operaia spesso esile e isolata. La Grande crisi e poi la stagione dell’imperialismo di attrito hanno moltiplicato la pressione su queste formazioni sociali, su cui si scarica con maggior forza anche l’emersione dell’attuale surriscaldamento globale (fragilità di ambienti e popolazioni): si sono così ripetute grandi esplosioni sociali, rivolte e movimenti di massa, che tendono però a chiudersi con strette autoritarie e svolte nazionaliste, o con esperienze ambigue e caudilliste con vaghe matrici progressiste. Questi paesi sono oramai strutturalmente collocati all’interno delle gerarchie internazionali del capitale e del lavoro: i ceti intermedi fragili perennemente minacciati dall’abisso del declassamento e un proletariato giovane, scomposto e di recente migrazione, non riescono a sviluppare alcuna prospettiva di trasformazione dell’attuale modo di produzione. Nell’ultimo quindicennio abbiamo quindi visto le diverse primavere arabe (2010/12); le rivolte del carburante (19/20) e il movimento Donna, vita, libertà (2023) in Iran; la primavera di Gezi park (2013); le proteste contro il carovita in Sudan (2018/19); l’Hirak algerino (2019/20); il movimento 17 ottobre in Libano (2019/20); l’Estallido social in Cile (2019/20); le manifestazioni in Colombia (2019/20); il movimento Tishreen (ottobre) in Iraq (2019/21); la rivolta dei prezzi in Kazakistan (2022); la rivolta del pane in Sri Lanka (2022); la rivolta dei diseredati in Perù (2022/23); la rivolta degli studenti in Bangladesh (2024).
- Il conflitto israelo–palestinese e il massacro di Gaza. Dal 7 ottobre ad oggi abbiamo assunto su queste vicende una posizione diversa rispetto ad altre forze (dall’esaltazione dell’attacco palestinese ed il sostanziale sostegno dell’unità della resistenza di TIR-SiCobas, sino all’assenza di ogni critica pubblica ai metodi di lotta e all’unità della resistenza del PCL). Riteniamo sbagliato considerare reazionaria qualunque lotta nazionale. Da un punto di vista teorico, perché significherebbe annullare l’attuale gerarchia internazionale del capitale e del lavoro: non ci sono solo poli imperialisti e medie potenze capitaliste, ma rimangono ancora oggi semiperiferie e periferie subordinate. Critichiamo il sostegno alla resistenza ucraina non perché non ci siano subordinazioni nazionali, ma perché l’Ucraina è un’area di confine tra molteplici imperialismi e quel conflitto è oggi sussunto in uno scontro interimperialista. Altre guerre moderne, invece, hanno un’evidente profilo neocoloniale, dagli interventi mediorientali (Iraq e Afghanistan) a quelli in Nordafrica (Libia e Sahel). Israele poi ha storicamente una matrice neocoloniale, con un ruolo dello Stato Sionista nel subordinare la popolazione araba (nel paese e nei territori occupati) e nell’assumere gli interessi imperialisti nell’area (prima in rapporto con la Francia, poi con gli USA). Certo, nella dinamica contemporanea dell’imperialismo di attrito, in questa gerarchia internazionale del capitale e del lavoro si strutturano dinamiche e blocchi geopolitici che fanno capo ai principali poli imperialisti, risucchiando sempre più le specificità sociali dei diversi conflitti all’interno della logica e degli schieramenti della possibile prossima guerra globale: così, oggi, la competizione tra Cina e USA, l’inserimento russo e quello europeo, la proiezione iraniana e quella turca, giocano un ruolo negli eventi e negli sviluppi del 7 ottobre, del massacro di Gaza, dell’ipotesi di nuove alleanze tra stati arabi e Israele (pace di Abramo), del tentativo di costruire nuovi equilibri dell’area. Queste dinamiche, da seguire e da considerare perchè potrebbero diventare determinanti in un conflitto globale aperto, non eliminano però l’esistenza di relazioni sociali neo-coloniali che caratterizzano alcune popolazioni dell’area (dalla Palestina al Kurdistan). Da un punto di vista politico, negare queste subordinazioni neocoloniali porta al disfattismo bilaterale, che nega il carattere progressivo di una sconfitta imperialista in questi conflitti (Iraq, Afghanistan e Israele). Difendere il diritto di resistenza di chi subisce un’occupazione e una discriminazione non è solo giusto eticamente, ma anche importante perché una sconfitta imperialista indebolisce la sua egemonia e il suo comando. In ogni dinamica politica, compreso le guerre, i comunisti rivoluzionari rivendicano comunque l’autonomia di classe: anche in un movimento e in una guerra di liberazione, è cioè importante contrastare ogni alleanza interclassista, ogni fronte nazionale, proprio per evitare ogni subordinazione della classe lavoratrice alle proprie borghesie, foriera di conseguenze disastrose. Questo deve avvenire con nettezza e determinazione anche di fronte a possibili direzione democratiche e progressiste, che come più volte avvenuto nella storia sono poi capaci di farsi carico di feroci repressioni per bloccare ogni tentazione di rivoluzione sociale, come di tremende derive affaristico-clientelari (da Suharto ad Arafat). Questo deve avvenire con eguale forza e chiarezza di fronte a direzioni fondamentaliste e reazionarie, come oggi avviene nei paesi arabi e mediorientali, con forze religiose e comunitarie che hanno giocato un ruolo diretto nel costruire regimi autoritari, nel reprimere diritti sociali e civili, nel contrastare nel sangue grandi movimenti sociali giovanili e inclusivi (pensiamo al ruolo di Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, il regime teocratico in Iran o i partiti sciiti in Iraq). Nella dinamica ineguale e combinata del capitalismo, l’indipendenza senza trasformazione sociale sarebbe solo formale: un’eventuale Stato palestinese, nell’attuale quadro capitalista sarebbe comunque inquadrato in rapporti neocoloniali con Israele (se rimanesse), le petromonarchie, gli USA o la UE. Proprio il sostegno al diritto di resistenza e l’esplicito schieramento per la sconfitta di Israele, richiede allora l’esplicito e netto contrasto dell’attuale direzione nazionalista, comunitarista e reazionaria palestinese. In questa particolare formazione sociale, per di più, la subordinazione neocoloniale non avviene tra due paesi, ma tra due popoli tra il fiume e il mare. La necessità di una trasformazione sociale è allora ancora più evidente, perché la distruzione di quel regime neocoloniale in un modo di produzione capitalista non potrebbe avvenire che con operazioni di pulizia etnica o senza intaccarne le diseguaglianze strutturali, promuovendo una nuova borghesia dei subordinati come in Sudafrica. L’odierna sconfitta di Israele potrebbe però rappresentare un passaggio progressivo, capace anche di rimettere in discussione quell’egemonia comunitaria che oggi ingabbia il suo proletariato: proprio per questo è necessario contrastare Hamas (e Hezbollah, che seppur con tratti sociali ha la stessa matrice comunitaria) e differenziarsi da quella strategia terroristica di lotta armata (conseguenziale a quell’impostazione politica). Per questo è oggi centrale, contro il massacro palestinese e i ripetuti crimini di guerra israeliani, contrastare il fronte unitario della resistenza e le ipotesi di governo di unità nazionale delle dichiarazioni di Beirut e Pechino, sottoscritte anche dalla sinistra (Fdlp e Fplp). Per questo siamo contro i due stati e abbiamo usato la parola d’ordine della desionizzazione (storicamente usata da Matzpen), rivendicando la costruzione di un fronte unitario della classe lavoratrice israeliana e palestinese: solo la loro unità ha la possibilità di mettere in gioco la trasformazione di quella formazione sociale stratificata per nazionalità.
- Lo sviluppo di destre reazionarie. Come abbiamo ricordato l’anno scorso, la Grande Crisi, l’acutizzazione della competizione e il logoramento delle classi dominanti (sia nei paesi a tardo capitalismo, sia in periferie e semiperiferie in cui collassano gli equilibri), ha visto crescere una nuova destra di massa. I ceti intermedi (minacciati da crolli finanziari, recessioni e ristrutturazioni) hanno dato vita a movimenti che hanno confusamente amalgamato pulsioni contro le élite, nostalgie di un tempo mai vissuto, tentazioni comunitarie, ricerca di sicurezza, reazioni xenofobe e rifiuto di nuove norme sociali. Sono le basi storiche del fascismo, oggi però senza il suo uso della violenza [oggi inessenziale], ma con una nuova capacità di penetrazione nelle classi subalterne, persino in settori di classe operaia organizzata. Una nuova destra come il PIS polacco, Orban in Ungheria, il BJP e Modi in India, Trump in USA, Bolsonaro in Brasile, Erdogan in Turchia, Netanyahu in Israele, Bukele in Salvador, Khan in Pakistan, Abe in Giappone, Le Pen in Francia, il Vlaams Belang in Belgio, l’Ukip in GB, l’AFD in Germania. Movimenti che spesso hanno alluso ad una nuova gestione capitalistica della crisi, nazionalista e statalista, senza la capacità di costruirla, e che oggi possono contare sull’imperialismo di attrito per un loro rilancio, funzionale all’inquadramento e alla militarizzazione a cui tende la nuova fase. È la nuova stagione di Fratelli di Italia, VOX, i Democratici Svedesi e i Veri Finlandesi, il rilancio dell’AFD tedesca, Milei in Argentina, la destra religiosa in Israele. Negli ultimi anni si è anche vista una certa reattività di ampie coalizioni di contenimento, che comunque non sembrano bloccarne la deriva (Biden ed Harris in USA, Sanchez in Spagna, Lula in Brasile). Alla base di questa nuova matrice reazionaria c’è spesso un nucleo religioso, capace di plasmare identità comunitarie e sviluppare radicamento sociale attraverso propri apparati (chiese, scuole, associazioni di volontariato, reti di welfare e protezione per i fedeli). Questi movimenti politici integralisti e reazionari, in particolare in alcune formazioni sociali della periferia e della semiperiferia, sono non solo veicolo di organizzazione dei ceti intermedi e masse giovanili (spesso istruite ma senza aspettative), ma anche di una borghesia nazionale compressa dalla competizione e dalle gerarchie del mercato mondiale. Si pensi allo sviluppo dello stato teocratico sciita nella rivoluzione iraniana, Hezbollah in Libano, Da’wa e al-Sadr in Iraq, i Fratelli Musulmani e Hamas, il movimento talebano, la nuova destra religiosa ebraica, il BJP in India, i buddisti Bodu Bala Sena dello Sri Lanka o il Ma Ba Tha
- Crisi climatica e manipolazione biologica, le distopie del presente. Il dominio degli attuali rapporti di produzione sul mondo, con la piena integrazione nei processi di valorizzazione capitalista di enormi formazioni sociali (Cina, India, Africa) ha rilanciato in questi decenni non solo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma anche lo sfruttamento dell’uomo sulle limitate risorse naturali del pianeta. La mercificazione e la ricerca del profitto hanno portato non solo ad una selvaggia depredazione degli ambienti naturali, ma ad una crescita di inquinamento, produzione di rifiuti e uso di energia fossile che ha avviato uno strutturale sconvolgimento dell’ecosistema ed un surriscaldamento globale. Questa dinamica, dopo decenni di allarmi, ha raggiunto oggi un tipping point, un vero e proprio punto di svolta, innescando una velocità nel cambiamento climatico senza precedenti che non solo produce eventi estremi, la diffusione della desertificazione, la scomparsa di intere specie e la moltiplicazione delle fragilità di moltissime formazioni sociali, ma mette a rischio lo stesso equilibrio del pianeta e quindi la possibilità del permanere una nicchia ecologica in cui l’uomo possa sopravvivere. L’uscita dall’estrema povertà di centinaia di milioni di uomini e donne, l’industrializzazione accelerata di grandi formazioni sociali, lo sviluppo economico di paesi periferici ha prodotto il tentativo di replicare stili di vita e livelli di benessere depredativi caratteristici delle classi metropoli imperialiste, dalla mobilità individuale al consumo alimentare. Si è così sviluppato un mercato mondiale agricolo e nutrizionale dominato da grande imprese, che hanno sviluppato una filiera insostenibile di produzione vegetale e animale, con un’ampia manipolazione della vita e degli stessi prodotti. Si sono così diffuse non solo malattie da sovra-alimentazione e adulterazione del cibo, con una pandemia mondiale di obesità, ma si sono prodotte filiere malate che si basano sullo sfruttamento incontrollato, facilitando la diffusione di malattie cross specie e pandemie devastanti. La capacità sociale e tecnologica in campo sanitario ha poi fatto salti impressionanti, non solo nella conoscenza, nel monitoraggio e nell’offerta di terapie, ma anche nello sviluppo di sistemi di controllo e di cura (come si vede nel crollo della mortalità infantile e nella gestione della pandemia covid). Questa scienza e questa tecnologia arriva oggi a comprendere e manipolare il patrimonio genetico umano, non solo aprendo nuovi salti di qualità nelle politiche sanitarie (la farmaceutica targettizzata), ma anche dischiudendo prospettive di mutazione intenzionale della biologia umana (dall’intervento riparativo all’ibridazione di nuove caratteristiche genetiche). Questo traguardo, all’interno di un modo di produzione capitalista, rischia di innescare nuove stratificazioni castali e derive apocalittiche. La consapevolezza sociale di questi rischi, sia sul terreno ecologico sia su quello biologico, è cresciuta in questi anni, a fronte delle concrete esperienze del cambiamento climatico, della pandemia del 2020, della penetrazione delle scoperte scientifiche nella vita quotidiana. Questa consapevolezza non ha però prodotto solo una maggior coscienza politica e nuovi movimenti di massa, ma anche la diffusione di derive antimoderniste, rifiuto scientifico, complottismi, teorie no-vax, movimenti primitivisti, tendenze ecologiste e antispeciste reazionarie (che si propongono di ricostruire un idealtipico equilibrio naturale, superato nell’antropocene dallo stesso sviluppo umano). Il contrasto di queste derive da parte della classe lavoratrice e dei suoi movimenti politici deve però partire da una critica radicale delle teorie produttiviste che hanno segnato il Novecento, in cui lo sviluppo delle forze produttive era visto come condizione e fattore determinante della socializzazione non solo per correnti riformiste, ma anche in alcuni settori classisti e rivoluzionari. La necessità di riportare la critica dello sfruttamento dell’ambiente nel quadro dell’analisi dei rapporti di produzione, nella prospettiva di costruzione di una transizione collettivistica, deve quindi anche farsi carico di una critica della scienza e della tecnica (dei suoi indirizzi di classe), oltre che della salvaguardia degli ecosistemi e delle risorse, in primo luogo proprio per garantire la riproduzione sociale del genere umano. Per questo la crisi ambientale e i rischi biologici sono parte delle sfide politiche dell’oggi, la prospettiva eco socialista è una componente fondamentale del programma rivoluzionario.
2- La Carta fondativa di ControVento richiama l’obbiettivo di sviluppare una nostra propensione internazionale ed internazionalista. L’impianto programmatico comunista e rivoluzionario su cui siamo nati, infatti, ci ha posto la necessità di collocare il nostro percorso anche in un quadro internazionale sin dalla nostra costituzione. La carta fondativa, infatti, si chiude con le seguenti considerazioni e, a fronte delle derive e delle divisioni dell’avanguardia rivoluzionaria internazionale, la nostra attività si è mossa in una logica di raggruppamento.
- ControVento, infine, per perseguire il proprio scopo e i propri principi programmatici, nel rispetto della propria pluralità di analisi, posizioni e collocazioni, riconosce la necessità di sviluppare un’azione internazionalista e un’organizzazione internazionale. Un’azione internazionalista, in quanto nella dinamica ineguale e combinata del capitalismo, ritiene fondamentale metter al centro di ogni conflitto sociale la prospettiva del lavoro e il suo antagonismo con il capitale, sostenendo quindi l’unità della classe e contrastando, nel rispetto del diritto alla difesa e all’autodeterminazione dei popoli oppressi, ogni tentazione nazionalista, campista e sovranista che trova sostentamento dallo strutturarsi delle gerarchie internazionali tra i diversi paesi e le diverse formazioni sociali. Un’organizzazione internazionale, in quanto proprio per evitare il prevalere di punti di vista ed interessi nazionali, ritiene necessaria la ricostruzione di un’internazionale rivoluzionaria, a partire da un riferimento generale ai percorsi del trotskysmo e della IV internazionale, dell’antistalinismo e del movimento marxista rivoluzionario: consapevoli dell’importanza della loro esperienza e definizione programmatica, ma anche coscienti da una parte delle degenerazioni movimentiste o settarie che spesso li caratterizzano, dall’altra del moltiplicarsi in un campo politico limitato di progetti, strategie e prassi tra loro molto diverse. In attesa che lo sviluppo storico e lo scontro di classe internazionale delinei nuove e più adeguate bandiere, questo riferimento rimane infatti utile a definire programmaticamente il campo dei comunisti rivoluzionari ed a sostenere la ricostruzione di strutture internazionali. A questo scopo promuove, supporta, organizza e sostiene iniziative di confronto, collegamento, organizzazione, solidarietà, mutuo-soccorso e azione comune, con associazioni, organizzazioni o raggruppamenti internazionali, come con movimenti sociali e sindacali, vertenze e lotte di altre nazionalità, etnie, paesi e regioni del mondo.
- ControVento, inoltre, si è fondato con la consapevolezza della frammentazione e del ripiegamento che segna internazionalmente l’avanguardia comunista e rivoluzionaria. Le ragioni di questa condizioni sono sicuramente collegate alle dinamiche più complessive di una stagione di divisione e disorganizzazione della classe lavoratrice, ma affondano le radici anche nei processi storici e nei limiti soggettivi che hanno segnato il movimento comunista rivoluzionario. Questa condizione è quindi il risultato della difficoltà di combattere contro la corrente per decenni, contrastando le egemonie sul movimento operaio da una parte delle correnti riformiste, sorrette dalle aristocrazie operaie e dalla più generale tendenza di alcuni settori di classe a interpretarsi come capitale variabile, dall’altra delle correnti staliniste, sorrette dal permanere di uno stato operaio degenerato, dalla sua vittoria nel secondo conflitto mondiale e dalla costruzione con la guerra fredda di un polo internazionale di stati deformati. Questa condizione è però anche il risultato di una deriva politica delle correnti trotzkiste, un metodo e una tradizione che si sono concentrati sulla crisi della direzione politica, con una scarsa attenzione alle dinamiche della classe e allo sviluppo di un metodo consiliarista, coltivando quindi avanguardismi e degenerazioni leaderistiche. Qui, cioè, non ha contato solo il fatto che siamo in una piccola barca in una corrente tremenda, che comprende spesso elementi intelligenti di cattivo carattere, che non sono mai stati disciplinati, che hanno sempre cercato una tendenza più radicale o più indipendente e hanno trovato la nostra tendenza, ma tutti loro sono più o meno estranei alla corrente generale del movimento operaio, e quindi con un valore che ha inevitabilmente il suo lato negativo: chi nuota controcorrente non è connesso con le masse, sono spesso intellettuali, semi-intellettuali o lavoratori legati agli intellettuali, che sono insoddisfatti delle organizzazioni esistenti [da Lottare contro la corrente, Trotsky, 1939]. In questa deriva ha pesato anche una componente carsica e deteriore della tradizione bolscevica, che tende a focalizzarsi solo sul ruolo dell’avanguardia, che si è a lungo opposta ai Consigli e al protagonismo della classe lavoratrice (uomini dei comitati), che non ha compreso le Tesi di aprile, che ha sostenuto le Tesi di luglio, che non ha colto la centralità del controllo operaio e della democrazia consiliare, che ha incubato la successiva degenerazione burocratica.
- Sviluppare una prassi e una logica di raggruppamento. Il movimento trotzkista si è quindi storicamente frammentato in diversi percorsi, centrati su singole organizzazioni nazionali e internazionali-frazione [cioè, strutture fondate su particolari interpretazioni della fase e delle relative priorità politiche]. Questa frammentazione non è stata superata nel ciclo politico aperto dal crollo dell’URSS, dall’offensiva neoliberista, dal superamento delle egemonie di massa a matrice stalinista o socialdemocratica. La Grande Crisi che si è aperta nel 2008/09 e il precipitare dell’imperialismo di attrito, che da una parte hanno scosso sul piano mondiale l’egemonia delle classi dominanti e dall’altra hanno aperto una fase di acutizzazione dello scontro interimperialista, rendono però sempre più urgente la ricostruzione di una soggettività che da una parte riorganizzi un’avanguardia politica rivoluzionaria, contro le tendenze antagoniste, anticapitaliste, centriste e neoriformiste oggi dominanti nella classe e nei movimenti antisistemici, dall’altra contrasti quelle pressioni nazionaliste che inevitabilmente tenderanno a svilupparsi con il precipitare dei conflitti interimperialisti. Il richiamo alla IV internazionale è allora un sintetico riferimento a questi obbiettivi: un richiamo che, in realtà, comprende oggi diverse impostazioni, ma come ci insegna la storia le eventuali nuove bandiere saranno definite sulla base di eventi discriminanti, non per semplice volontà soggettiva. ControVento si è quindi mossa in questo contesto storico, ritenendo necessario un processo di raggruppamento internazionale a base programmatica: l’individuazione, cioè, di un nucleo di obbiettivi programmatici fondanti (l’opposizione alle classi dominanti e ai loro governi, salvaguardando l’indipendenza di classe; la prospettiva di un governo di lavoratori e lavoratrici, cioè la costruzione di una transizione socialista da questo modo di produzione; il rapporto tra conflitti parziali e prospettiva anticapitalista, cioè l’adozione di un metodo transitorio; un reale centralismo democratico, in cui il perseguimento del programma sia sviluppato attraverso il libero confronto di analisi e proposte politiche, anche organizzate). Questa proposta dovrebbe esser in grado di rivolgersi all’insieme più ampio dell’avanguardia rivoluzionaria, oggi divisa in diverse strutture e organizzazioni, proponendo un percorso di convergenza e unificazione progressiva, a carattere programmatico, anche sviluppato nel tempo: consapevoli che come detto il reale salto di qualità nello sviluppo di una soggettività internazionale sarà prodotto dalle composizioni e ricomposizioni determinate dalla dinamica delle cose, dalla crisi e dall’emersione di nuove esplosioni rivoluzionarie. Proprio di fronte a queste crisi, è infatti utile per le limitatissime avanguardie oggi organizzate raggiungere una massa critica in grado di permettergli di seguire ed incidere sulla dinamica degli eventi.
3- Sulla base di questo impianto, in questi due anni abbiamo sviluppato percorsi di confronto con diversi soggetti internazionali. In primo luogo, abbiamo sostenuto la proposta dei e delle compagni/e di ControCorrente, raccolta e rilanciata da Lotta Comunista, di costruire Conferenze internazionaliste rivolte al perimetro della sinistra comunista, trotzkista, bordighista e anarchica, luoghi di libero confronto sull’analisi della dinamica imperialista e le prospettive della lotta di classe. Sebbene ritenessimo più utile innescare questo confronto a partire da un analisi condivisa del conflitto interimperialista in Ucraina, per tessere un polo internazionale disfattista e antimilitarista [a tutt’oggi sostanzialmente inesistente], abbiamo accolto e accompagnato l’ipotesi di un forum, proprio come luogo di verifica di possibili convergenze, nel quale fosse possibile condurre liberamente passaggi di eventuale ricomposizione tra soggettività. Si sono così realizzati le due conferenze internazionaliste di Milano (2023 e 2024), a cui seguirà nel 2025 un appuntamento a Parigi, che hanno coinvolto oltre una ventina di soggettività, tra cui alcune delle principali strutture internazionali di tradizione trotzkista. In questo contesto, oltre alla scontate differenze sul ruolo del partito e le sue prassi di azione, si sono registrate notevoli divergenze sull’Ucraina, sul profilo imperialista della Cina e sul conflitto palestinese. In questo contesto, è emersa la tendenza all’isolamento dell’International Marxist Tendency (SCR in Italia), che nell’ultimo anno è arrivata a proclamare su sé stessa la ricostruzione dell’Internazionale e di Partiti Comunisti Rivoluzionari; la progressiva convergenza su Ucraina, Cina e Palestina tra PCL, Lega per la quinta internazionale e ILS (un raggruppamento internazionale che raccoglie, tra gli altri il MST argentino e The Struggle in Pakistan), che hanno avvitato un percorso di unificazione che dovrebbe concludersi nel dicembre 2025; la costruzione da parte del Partito Obrero prima di un tentativo di raggruppamento tattico sulle posizioni disfattiste sull’Ucraina e poi sul sostegno alla resistenza palestinese (oggi racchiude, al di là del PO e alcune organizzazioni sudamericane ad esso legate, la TIR italiana con la sua direzione del SiCobas, il NAR greco e talvolta Okde spartacus, il SAP turco); i circuiti del CWI e del ISA hanno invece rivelato progressivi problemi di direzione e tenuta, con una scarsa partecipazione a questi appuntamenti (insieme ad altre organizzazioni, dalla LIT a Lutte Ouvriére francese, che sono rimaste esterne agli incontri). In questo contesto, come ControVento abbiamo approfondito le relazioni in particolare con tre soggetti.
- Il Nouveau Parti Anticapitaliste – Revolutionnaires [NPA-r]. Il V congresso del NPA (il partito anticapitalista fondato dalla LCR nel 2009, raggruppando intorno al nucleo del Segretariato unificato altre tendenze e correnti della sinistra internazionalista francese), nel dicembre 2022 ha visto l’abbandono del suo nucleo storico (senza una maggioranza nell’assise) e la presa di controllo del partito da parte di diverse correnti della sinistra, a partire dalle due principali (Anticapitalisme e Revolution; Enticelle]. La lunga diatriba sull’eredità del NPA, politica e materiale, ha quindi originato due formazioni politiche: NPA-Anticapitaliste (il nucleo storico, alleata a NUPES e poi al Fronte popolare) e appunto NPA-Revolutionnaires. Come ControVento abbiamo avuto relazioni con entrambe le correnti principali di NPA-r (partecipando ad un campo internazionale della frazione internazionale di AeR; incontrando più volte la tendenza dell’Enticelle), ritenendo positiva e importante la permanenza di un’organizzazione internazionalista e rivoluzionaria indipendente nel contesto francese, dove si è tenuto uno dei principali movimenti di massa del lavoro in questi anni. La nuova direzione del NPA, potendo contare sulla proiezione di massa di quella tradizione politica e sul volano di una ripresa del conflitto sociale, avrebbe potuto giocare un ruolo importante di potenziale riaggregazione su tutto il continente e, potenzialmente, a livello mondiale. Così non è stato, almeno sino ad oggi. La sconfitta del movimento di massa francese e le sue scarse dinamiche di autorganizzazione hanno limitato lo sviluppo del NPA-r, che tra l’altro nelle recenti elezioni politiche si è trovato schiacciato tra le liste di LO e la ripresa del Fronte Popolare. Soprattutto, le incertezze e i cambiamenti di posizione sulla vicenda Ucraina (anche per l’evidente differenza di propensioni tra le sue due principali componenti) gli hanno impedito di svolgere un ruolo di polarizzazione e ricomposizione della sinistra internazionalista nel continente, mentre la scelta apparentemente incomprensibile di aprire la campagna elettorale alle europee con Lotta Comunista, soggetto che propone un astensionismo strategico, non l’ha portata a coprire un ruolo di aggregazione contro le logiche dell’Unione europea e la sua nuova politica di austerità. La positiva scelta di impegnarsi nell’organizzazione della conferenza internazionalista a Parigi non sostituisce le incertezze rivelate in queste dinamiche, mentre la proposizione del proprio campo estivo come unico sostanziale momento di confronto, senza successivi percorsi comuni negli avvenimenti e nelle pratiche politiche, riduce sostanzialmente la possibilità di verificare concretamente possibili convergenze. Al di là di questo, comunque, confermiamo l’importanza politica di questa forza e ci auguriamo un suo sviluppo nel contesto francese, che la porti anche a svolgere un ruolo di fluidificazione e riaggregazione della sinistra internazionalista europea.
- Il Partito Obrero argentino. Il PO ha costruito nell’ultimo ventennio, a partire dalla crisi del 2001 (Argentinazo), una proiezione di massa e al contempo una capacità di aggregazione politica, costruendo con il PTS (Fracción Trotskista) e Izquierda Socialista (UIT) prima il Frente de Izquierda y de los Trabajadores (FIT) e poi il FIT-Unitad (dal 2019, con il MST, organizzazione della ISL). Questa coalizione politica elettorale è oramai diventato il principale soggetto della sinistra argentina, con risultati tra il 2 ed il 5% e una costante rappresentanza parlamentare dal 2013. Al di là di differenze politiche e talvolta settarismi che sembrano comunque segnare le relazioni all’interno del Fronte, al di là della difficoltà a sviluppare percorsi di unificazione strategica (che potrebbero giocare un ruolo rilevante nella ricomposizione mondiale della sinistra rivoluzionaria), il Fronte oggi è una delle poche soggettività politiche rivoluzionarie che ha dimensioni di massa, giocando oggi un ruolo centrale nella costruzione di un’opposizione al governo reazionario di Milei. Tutto questo rende oggettivamente questo fronte uno dei principali soggetti del panorama internazionale. Il PO, sotto la direzione di Altamira, aveva partecipato con il PCL al lungo percorso di raggruppamento del MRQI e poi del CRQI (1997-2015): in quel cammino, aveva evidenziato non solo posizioni politiche discutibili (come, ad esempio, sulla Cina o su letture catastrofiste della crisi), ma anche pratiche di gestione del CRQI verticiste e poco democratiche. Il passaggio in minoranza di Altamira e poi l’uscita di Politica obrera nel 2019, portando di fatto allo scioglimento del CRQI, non ha modificato l’impostazione politica del Partito Obrero, anche se la nuova direzione ha sviluppato prassi e atteggiamenti più rispettosi nelle relazioni. In particolare, negli ultimi anni il PO ha provato a sviluppare una nuova proiezione internazionale, decidendo di partire da aggregazioni tattiche parziali, a partire dai principali avvenimenti di politica internazionale. In questo quadro, nell’ambito della prima conferenza di Milano (2023), abbiamo verificato una significativa convergenza con il PO sulla guerra in Ucraina e la necessità di sviluppare una polarizzazione disfattista internazionale, arrivando ad incontrare la sua Commissione internazionale e verificando convergenze anche sul piano dell’intervento, partecipando alle assemblee e alle mobilitazioni italiane con TIR, Brescia anticapitalista e altri soggetti (assemblea di Milano e corteo di Aviano). L’attacco del 7 ottobre, il massacro di Gaza e lo sviluppo di un movimento internazionale di solidarietà palestinese (più vasto e significativo di quello disfattista sull’Ucraina) ha portato il PO a focalizzare la costruzione della propria proiezione internazionale su questo tema, registrando su questo una divergenza evidente con le nostre posizioni (parallelamente a quello avvenuto con TIR e SiCobas sul terreno italiano). Lo sviluppo delle relazioni si è quindi interrotto, anche se da una parte rimane il nostro interesse per uno dei principali soggetti dell’attuale sinistra rivoluzionaria (concretizzata anche in interviste e articoli sulla nostra rivista), dall’altra rimane un rispetto e una sostanziale correttezza nel confronto.
- Internationalist Standpoint è un piccolo raggruppamento internazionale, a partire dall’organizzazione greca Xekinima [Inizio, Organizzazione Socialista Internazionale, con 2/300 militanti] e altre realtà, tra cui in Turchia (Sosyalist Alternatif), Cipro (Neda, Nuova sinistra internazionale), Romania (GAS, Gruppo di azione socialista), Nigeria (Revolutionary Socialist Movement), Taiwan (International Socialist Forward), Iran (Iranian Revolutionary Marxist Tendency), oltre che singoli militanti in altri paesi. ISp si è formata scindendosi da International Socialist Alternative, un’organizzazione internazionale formatasi a sua volta dalla scissione della maggioranza del coordinamento del CWI (Comitato internazionale dei lavoratori, nato nel 1974 dal gruppo Militant, da cui nel 1991, quando questa tendenza uscì dal Labour e formò organizzazioni indipendenti, si staccò Ted Grant e la IMT). Questo raggruppamento ha relazione storiche con ControCorrente, sebbene questa non aderisce collettivamente ad ISp, non conducendo un’attività politica continuativa. Abbiamo incontrato ISp alle conferenze di Milano e abbiamo verificato una profonda convergenza di analisi e posizioni intorno alle tre principali questioni che hanno animato quelle conferenze e che, in qualche modo, segnano i tempi presenti: le valutazioni sulla trasformazione capitalistica cinese e lo sviluppo di un suo imperialismo; la caratterizzazione interimperialista del conflitto ucraino e l’assunzione di una posizione disfattista bilaterale; la lettura dell’attacco del 7 ottobre, il diritto di resistenza palestinese ma il contrasto della sua direzione reazionaria, la prospettiva della desionizzazione di Israele e la trasformazione di quella formazione sociale attraverso l’unità della classe lavoratrice palestinese e israeliana. Non era scontato: anzi, proprio su queste questioni registriamo le maggiori difficoltà a confrontarci con gli altri soggetti, come abbiamo visto con NPA-r e PO. Con ISp condividiamo anche altri aspetti programmatici e di proposta politica, dalla lettura sulle condizioni dell’avanguardia internazionale alla prospettiva di avviare una sua ricomposizione attraverso il metodo del raggruppamento (elemento molto importante), sino all’attenzione sull’importanza di sviluppare un libero dibattito in seno all’avanguardia, anche tra posizioni ed esperienze organizzate nel partito. In questi mesi, abbiamo partecipato come ospiti alla conferenza internazionale di ISp ad Atene (marzo 2024) e siamo stati invitati alle riunioni on line del suo coordinamento, oltre ad organizzare un dibattito sulle elezioni europee (giugno 2024). Una nostra piccola delegazione ha partecipato all’Antinazi Zone/Youth Against Racism in Europe (YRE), un campeggio nel sud del Peloponneso a fine luglio/primi di agosto, dove abbiamo portato un contributo sulla militarizzazione delle scuole e coordinato un dibattito sulla destra in Italia. In questi percorsi ed esperienze, oltre alla generale correttezza di relazioni, abbiamo potuto verificare e anche produrre ulteriori convergenze, a partire dall’analisi della destra reazionaria nel mondo.
4- Ripensare al raggruppamento nella stagione dell’imperialismo di attrito, verificare un primo passaggio di raggruppamento con Internationalist Standpoint. In questi anni, nell’esperienza delle conferenze internazionaliste di Milano e nelle relazioni con i diversi soggetti, abbiamo provato a verificare e perseguire percorsi di raggruppamento, sulla base delle analisi e delle indicazioni che abbiamo prima riportato, a partire dalla condivisione di alcuni principi programmatici generali e dalla necessità di superare le frammentazioni dell’avanguardia rivoluzionaria, che la indeboliscono come punto di riferimento internazionale per una classe lavoratrice già divisa e disorganizzata. La precipitazione della stagione dell’imperialismo di attrito e la verifica della portata delle divisioni che attraversano oggi il confronto internazionale, oltre all’utilità di mantenere spazi ampi di forum, ci suggerisce l’opportunità di aprire una riflessione sullo stesso metodo di raggruppamento in questa nuova stagione. L’obbiettivo di ricomporre una frammentazione frazionistica e settaria permane, il punto è che di fronte all’orizzonte degli eventi di un nuovo conflitto globale, i percorsi di ricomposizione non possono solo collocarsi su un terreno programmatico generale, ma forse devono anche tener conto dell’importanza di alcune fratture analitiche oggi centrali, che portano a sviluppare schieramenti e propensioni diverse proprio nel tumultuoso sviluppo degli eventi di questi anni: in primo luogo, la consapevolezza della propensione imperialistica cinese e della sua centralità nelle nuove conflittualità interimperialistiche, il disfattismo e l’antimilitarismo nei confronti dei conflitti in corso (a partire da quello ucraino), la difesa del diritto alle liberazione ma il rigoroso ed esplicito contrasto di ogni logica di fronte nazionale (a partire dalla Palestina), l’importanza del fronte unico di massa e di classa nello sviluppo dell’iniziativa di classe. Come abbiamo già ricordato, siamo consapevoli che la ricomposizione reale di un’avanguardia rivoluzionaria internazionale non sarà un processo lineare e difficilmente si svilupperà da un suo unico nucleo portante, ma sarà determinata dagli eventi reali (le guerre, i processi rivoluzionari, i suoi fallimenti e le sue possibili vittore) e dai conseguenti schieramenti, scomponendo e ricomponendo le attuali soggettività, anche oltre gli attuali perimetri programmatici o delle tradizioni trotzkiste. Oggi, però, di fronte alla polverizzazione delle soggettività internazionali e alla debolezza della classe lavoratrice, dobbiamo compiere ogni sforzo possibile per invertire la direzione e far emergere punti di riferimento teorici e politici nel panorama internazionale, per evitare che a prevalere sia lo sconforto e soprattutto il rischio del prevalere di derive nazionaliste e neocampiste. Per questo, pur consapevoli delle limitatissime dimensioni di ControVento e anche degli evidenti limiti di azione che ci caratterizzano, riteniamo importante non sottrarci all’obbiettivo di sviluppare relazioni internazionaliste ed internazionali. Per questo, riteniamo importante decidere collettivamente a questa assemblea di diventare un soggetto osservatore in Internationalist Standpoint, verificando questo percorso di progressiva convergenza alla loro prossima conferenza internazionale (primavera 2025). La partecipazione ed il pieno coinvolgimento nella discussione di ISp ci permetterà quindi di verificare concretamente i rispettivi approcci e metodologie politiche, tenendo conto le differenti tradizioni e appartenenze del passato, oltre che approfondire alcuni elementi rilevanti di concezioni e prassi di azione. In particolare, riteniamo importante affrontare nei prossimi mesi e nel dibattito di ISp quattro elementi:
- La concezione del partito, cioè la valutazione sul ruolo dell’avanguardia, del programma, della sua indipendenza politica e organizzativa, in relazione alle tradizioni dei partiti di massa e alle pratiche dei partiti larghi, tenendo comunque conto dei limiti e delle condizioni delle specifiche situazioni di contesto (a partire da quella stessa che viviamo come CV).
- Il centralismo democratico, cioè il complesso bilanciamento tra costruzione di una linea politica nel libero dibattito nel partito, l’utilità e i rischi del confronto pubblico tra le diverse posizioni, la necessità di prendere decisioni e sviluppare quindi azioni coerenti e consistenti.
- La riattualizzazione di una politica di Fronte popolare e persino di Fronte democratico, che ha trovato in particolare nella recente esperienza francese una nuova vita e un nuovo impatto di massa, rispetto al quale l’avanguardia rivoluzionaria in generale, ma anche ISp in particolare, ci sembra aver avuto difficoltà a reagire.
- La resistenza e il contrasto ai governi reazionari, anche con la direzione di movimenti di massa da parte di forze rivoluzionarie, che trova oggi in Argentina un suo primo terreno di verifica concreta, anche con differenze e forse conflittualità tra le diverse soggettività del FIT-U: una dinamica anche questa che ci pare sottovalutata e su cui ci sembra necessaria maggior riflessione
Nel confronto dei prossimi mesi, anche in relazione alla conferenza di Parigi, ci auguriamo anche che nel quadro del metodo e delle riflessioni critiche sui percorsi di raggruppamento, il percorso che avviamo con ISp possa ulteriormente allargarsi, sviluppando collettivamente questi elementi di riflessione ma anche proseguendo esperienze di raggruppamento con altri soggetti ed esperienze dell’avanguardia rivoluzionaria internazionale.
Contro la corrente, su piccole barche, proseguiamo quindi in direzione ostinata e contraria la nostra navigazione.