Lo scorso 14 e 15 ottobre si è tenuto a Bologna l’annuale incontro nazionale di ControVento, in presenza e on line, per discutere della situazione politica internazionale e di quella italiana, trarre un primo bilancio della vita del collettivo e delineare le sue prospettive. Nei due giorni di discussione (che nel complesso ha coinvolto una trentina di compagni/e) sono stati discusse due tracce, che oggi pubblichiamo: questa sulla situazione ed i nostri rapporti internazionali, ed una sulla situazione nazionale e le prospettive dell’AMR ControVento [Contro il Vento, Stringere una prassi collettiva].
La nuova fase dell’imperialismo di attrito, le divisioni e gli sbandamenti del campo rivoluzionario,
la complessa tessitura di punti di riferimento internazionali
1. La guerra in Ucraina e noi. L’invasione russa del 24 febbraio del 2022 si è dispiegata parallelamente alla nascita e ai primi passi del nostro collettivo. L’uscita dal PCL che ha avviato questo percorso politico, motivata dalla sua generale deriva avanguardista nel quadro del sostanziale fallimento del suo progetto di costruzione e specificamente innescata dalla scelta di riesumare la struttura autocentrata dell’Opposizione Trotzkista Internazionale, si è imprevedibilmente qualificata nello schiarimento su questa guerra e, più in generale, sulla prossima fase internazionale. Il PCL, insieme a diversi settori della sinistra di matrice trotzkista (dalla maggioranza del Segretariato Unificato a LIT, UIT, LIS, ecc), non ha colto la precipitazione della competizione inter-imperialista determinata dalla Grande Crisi: pur registrando (diversamente da molti) la nuova ascesa imperialista cinese, pur vedendo l’acuirsi delle tensioni tra poli capitalisti, non ha razionalizzato l’evidente predominio delle componenti imperialiste nel conflitto e la dinamica di attrito innescata dalla guerra, decidendo di sostenere il diritto ucraino alla resistenza. Così, ha ulteriormente indebolito un campo internazionalista già gracile e diviso. Al contrario, ControVento, si è definita in questo anno complicato proprio a partire dall’analisi della nuova stagione imperialista e dal tentativo di contribuire, con le nostre limitatissime forze, a tessere un polo disfattista: così, abbiamo indirizzato le prime analisi sul conflitto [Un tempo di guerra; Il primo colpo di tuono; Contro la guerra senza se e ma; l’assemblea on line su Ucraina, guerra e classe], partecipato alle prime mobilitazioni; costruito con PuntoCritico iniziative di presentazione del libro di Mandel sulla seconda guerra mondiale con riferimenti alla vicenda ucraina [Bologna, Varese, Livorno, Cosenza]; dedicato alla guerra larga parte della nostra assemblea di settembre e largo spazio sulla rivista; portato questa impostazione nella Conferenza internazionalista di Milano; partecipato all’assemblea dell’11 giugno e promosso il corteo a Ghedi il 21 ottobre.
- Lo sviluppo di un imperialismo di attrito. La guerra in Ucraina, infatti, ha mostrato sin dal suo improvviso e imprevisto esordio la sua preponderante natura imperialista, risultato del lungo decennio di crisi e catalizzatore di una nuova fase di spartizione del mondo. Dai primi giorni e tanto più con il passare dei mesi, abbiamo cioè sottolineato il significativo sostegno NATO (risorse economiche; armamenti; supporto militare) e il disallineamento mondiale sul contrasto alla Russia, che le ha permesso di resistere e proseguire il conflitto. Una componente che, pur non essendo unica, ha segnato da subito la guerra.
- La maturazione di un’aperta contrapposizione tra poli capitalisti nel corso della Grande Crisi. La recessione del 2009 ha segnato la fase conclusiva di una lunga onda depressiva, in cui l’accumulazione di capitale è stata garantita da finanziarizzazione, allungamento delle filiere produttive e sviluppo del commercio mondiale, intensificazione dello sfruttamento e compressione dei salari, Washington consensus e crollo dei mercati socialisti. La successiva gestione capitalistica della crisi ha rilanciato gli assetti della precedente stagione (sotto l’ombrello dei bassi tassi di interesse e della liquidità delle Banche centrali), ma dall’altra ha iniziato a tessere diverse aree di riferimento [allargamento NATO; Belt and Road Initiative; scontro commerciale tra USA e Cina; Trans Pacific Partnership intorno ad USA e Regional Comprehensive Economic Partnership intorno a Cina; Aukus e asse indo-pacifico; Organizzazione di Shangai e BRICS]. Euromaidan e la guerra del Donbass hanno aperto un cuneo nella strategia tedesca di sviluppo di una piattaforma euroasiatica (Nordstream e ferrovia sino-europea), spingendo la Russia verso la Cina (accordi del 2014 sui gasdotti) e mettendo sotto tensione la sua struttura capitalista (conglomerati energetici e residui dell’apparato militar industriale). Una volontà di potenza, coagulata nel regime di Putin, che ha creduto di cogliere nella nuova assertività cinese, nelle contraddizioni europee e nelle sconfitte USA (Iraq e fuga da Kabul) l’occasione per ribaltare sul piano militare il suo progressivo confinamento nell’area asiatica. Sbagliando clamorosamente i conti e rilanciando questa tendenza.
- Il ruolo del nuovo imperialismo cinese. La guerra Ucraina è quindi incomprensibile, se non si considera l’emersione nell’ultimo ventennio della potenza cinese. Cioè, l’affermazione di rapporti di produzione capitalisti [maturati nella stagione denghista e divenuti dominanti con l’entrata nel WTO] e quindi con la Grande Crisi il passaggio ad un sistema di accumulazione centrato su grandi campioni nazionali, sfruttamento intensivo del lavoro, investimenti infrastrutturali e sviluppo finanziario. Questo passaggio ha rappresentato la base strutturale di una nuova politica imperialistica, coagulata intorno a Xi Jinping nel quadro della Repubblica Popolare: cioè, senza soluzione di continuità nella gestione burocratica del paese, si è passati da una struttura bonapartista di uno stato operaio a una struttura bonapartista di un imperialismo nascente, conducendo sotto la pressione della dinamica ineguale e combinata dei mercati mondiali una rivoluzione passiva di transizione capitalista, mediando i diversi interessi capitalisti nel paese e mantenendo la subordinazione della classe lavoratrice. Come ricordato nell’ultimo numero di ControVento [Il dragone e la sua ombra], la Cina oggi non è solo uno dei due principali poli capitalisti, ma con lo sviluppo di investimenti esteri e di una nuova forza militare, ha rappresentato l’indispensabile retroterra economico e politico per l’invasione russa dell’Ucraina.
- Il massacro al fronte in una guerra di lunga durata. Questo è il quadro internazionale che ha trasformato un’invasione in una guerra di trincea, con una escalation bilaterale negli armamenti, milioni di profughi ucraini e limitate vittime civili (intorno alle 10/13mila), il massacro di centinaia di migliaia di soldati (forse oltre 500mila tra morti e forti). Si è così esteso il conflitto (dall’esplosione di Nordstream ai bombardamenti in Russia), militarizzato le società e rilanciato la corsa agli armamenti. La guerra ha quindi assunto il ruolo di strumento di definizione delle aree di riferimento, coinvolgendo potenze nucleari e facendo così tornare una guerra mondiale nell’orizzonte degli eventi [non solo una possibilità futura, ma un centro di gravitazione intorno a cui tendono a collassare le dinamiche politiche, economiche e sociali nel mondo].
- Una nuova spartizione del mondo. Negli ultimi mesi si sono quindi stravolti assetti consolidati: i sorprendenti disallineamenti sulle sanzioni (il Sudamerica, compresi Messico e Cile; l’India; l’intero mondo arabo); l’accordo tra Teheran e Arabia Saudita a Pechino; i golpe antifrancesi nel Sahel (Ciad, Mali, Burkina-Fasu, Sudan, Niger), a cui si è aggiunto il Gabon; l’ipotesi di un corridoio India, Arabia Saudita e Israele; l’inaspettato allargamento dei BRICS [Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica] ad Argentina, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto ed Etiopia. Al di là della spaccatura tra un’asse atlantico [USA-UE] ed uno orientale [Russia-Cina], enfatizzato e cristallizzato dalla guerra, si stanno tessendo i fili e scavando linee di frattura tra opposti campi e militarismi che segneranno i prossimi decenni.
- Imperialismo di attrito. Sebbene un nuovo conflitto generalizzato sia entrato prepotentemente nell’orizzonte degli eventi, non siamo alla vigilia della Terza Guerra mondiale. Nemmeno a tappe. A rallentare questa precipitazione non è solo la profonda interconnessione dei mercati mondiali (che ostacola, ma non è in grado di impedire l’esplosione delle contraddizioni interimperialiste, come insegna l’esperienza della Grande Guerra). La dinamica dello scontro tra grandi potenze, infatti, ha bisogno di tempo per strutturare una diversa gestione capitalistica della crisi, ridefinire filiere produttive continentali, avviare un significativo riarmo (tornando almeno a quel 6/7% del PIL della prima fase della guerra fredda), organizzare le società nella logica e nell’economia di guerra. Un tempo che non esclude possibili precipitazioni, ma che tende nell’immediato a confinare gli scontri diretti e, in qualche modo, a moltiplicare teatri ed occasioni di conflitto, sussumendo dinamiche e conflitti locali nel quadro delle contrapposizioni tra blocchi nascenti.
- Lo sviluppo di destre di massa. La Grande Crisi, l’acutizzazione della competizione e il logoramento delle classi dominanti (sia nei paesi a tardo capitalismo, sia in periferie e semiperiferie in cui collassano gli equilibri), ha visto crescere nuovi soggetti reazionari. I ceti intermedi (minacciati da crolli finanziari, recessioni e ristrutturazioni) hanno dato vita a movimenti che hanno confusamente amalgamato pulsioni contro le élite, nostalgie di un tempo mai vissuto, tentazioni comunitarie, ricerca di sicurezza, reazioni xenofobe e rifiuto di nuove norme sociali. Sono le basi storiche del fascismo, oggi però senza il suo precipuo uso della violenza [ieri in funzione antioperaia, oggi inessenziale], ma con una nuova capacità di penetrazione nelle classi subalterne, persino in settori di classe operaia organizzata. Una nuova destra come il PIS polacco (al potere dal 2015), Orban in Ungheria (2010), il BJP di Modi in India (2014), Trump negli USA (2012), Bolsonaro in Brasile (2019), Erdogan in Turchia (2003), Netanyahu in Israele (2009), Bukele in Salvador (2019), Khan in Pakistan (2018), Shinzo Abe in Giappone (2012) o i 5 Stelle e Salvini in Italia (governo 2018), ma anche Le Pen in Francia, il Vlaams Belang in Belgio, l’Ukip in GB, l’AFD tedesca, ecc. Movimenti che spesso hanno alluso ad una nuova gestione capitalistica della crisi nazionalista e statalista, senza la capacità di costruirla, e che oggi possono contare sull’imperialismo di attrito per un loro rilancio, funzionale all’inquadramento e alla militarizzazione a cui tende la nuova fase. È la nuova stagione di Fratelli di Italia, VOX, i Democratici Svedesi e i Veri Finlandesi, il rilancio dell’AFD tedesca, Milei in Argentina, la destra religiosa in Israele. Negli ultimi anni si è anche vista una certa reattività di ampie coalizioni di contenimento, che comunque non sembrano bloccarne la deriva (Biden in USA, Sanchez in Spagna, Lula in Brasile).
- In queste destre ha un ruolo nuovo l’integralismo. Alla base di questa nuova matrice reazionaria spesso c’è un nucleo religioso, capace di plasmare identità comunitarie e sviluppare radicamento sociale attraverso propri apparati (chiese, scuole, associazioni di volontariato, reti di welfare e protezione per i fedeli). Pensiamo ad esempio al crescente ruolo politico degli evangelici in Nord e Sudamerica. Questi movimenti politici integralisti e reazionari, in particolare in alcune formazioni sociali della periferia e della semiperiferia, sono non solo veicolo di organizzazione dei ceti intermedi e masse giovanili (spesso istruite ma senza aspettative), ma anche di una borghesia nazionale compressa dalla competizione e dalle gerarchie del mercato mondiale. Si pensi allo sviluppo dello stato teocratico sciita nella rivoluzione iraniana, Hezbollah in Libano, Da’wa e al-Sadr in Iraq, i Fratelli Musulmani e Hamas, il movimento talebano, la nuova destra religiosa ebraica, il BJP in India, i buddisti Bodu Bala Sena dello Sri Lanka o il Ma Ba Tha birmano.
2. La guerra israelo-palestinese. Questo è il contesto storico e politico nel quale si colloca l’improvviso e sorprendente attacco di Hamas del 7 ottobre: sotto l’ombrello di un esteso lancio di missili, un’azione in profondità è stata capace tra l’altro di distruggere il compound del Comando Israeliano meridionale (che sovraintende tutta l’area di Gaza) e di uccidere un inedito numero militari [tra cui, dal Jerusalem Post, almeno 1 generale, 3 colonnelli, 7 maggiori, 5 capitani e una decina di tenenti, un centinaio di soldati tra cui molto sottoufficiali, una quarantina di poliziotti tra cui molti di reparti speciali e tre officer dello Shin Bet]. Insieme a questo, però, si è sviluppato l’attacco ad un rave party e oltre 20 tra kibbutz, città e paesi, catturando oltre duecento israeliani e facendo oltre 1300 vittime [il numero di gran lunga più alto che si ricordi], con diversi massacri di civili indifesi [Sderot, Kfar Aza, Be’eri, Nir Oz, Nova Festival]. Un attacco che, al di là dello shock nella società israeliana (le cui conseguenze saranno da valutare nel lungo periodo), ha prodotto un’immediata reazione di bombardamenti indiscriminati, anche con bombe al fosforo (oltre 1200 civili morti al 12 ottobre, tra cui 50 ad un mercato, 11 componenti staff ONU e 30 allievi Unrwa, quasi 80 bambini), l’attacco agli aeroporti di Damasco e Aleppo e una probabile prossima invasione di Gaza. Lungi da sostenere ricostruzioni complottiste vicine al ridicolo [dal ruolo del gruppo Wagner alla diretta regia iraniana sulle azioni palestinesi, sino al non potevano non sapere riferiti ai servizi israeliani, a cui quindi si attribuisce un ruolo da registi per favorire l’invasione di Gaza], non possiamo che riaffermare anche in questa occasione che in ogni guerra sono contenuti molteplici conflitti. Lo scontro di oggi ha quindi un’evidente componente relativa all’autodeterminazione nazionale palestinese, ma anche altre di carattere religioso, relative agli assetti tra potenze regionali (Israele, Turchia, Arabia, Iran) e a dinamiche imperialiste dirette (il tentativo della Cina di costruire un nuovo equilibrio tra Iran e Arabia, l’ipotesi USA di un corridoio indo-mediterraneo attraverso Arabia e Israele, ecc). Il punto è capire quali sono, allo stato e nella dinamica, i pesi delle diverse componenti e quindi le tendenze che si impongono nel conflitto. In questo quadro, è utile tenere in considerazione diversi elementi.
- Lo stato sionista e la resistenza palestinese. La costruzione di Israele come stato ebraico nel 1948, pur in un quadro costituzionale irrisolto e con spazi di ambiguità, ha aperto la questione palestinese nel processo di decolonizzazione dell’area araba e mediorientale [come, in un quadro diverso e parallelo, è avvenuto per kurdi e berberi]. Il rapido sviluppo capitalista israeliano sostenuto dalla diaspora, dall’Hok ha-shvūt [il diritto al ritorno] e dall’ombrello imperialista (prima francese e poi USA) ha esacerbato questa oppressione nazionale in una realtà periferica, organizzata nella cittadinanza di secondo livello e nell’indefinito status dei Territori Occupati. Il consolidamento del paese nel circuito capitalista internazionale sul versante della sicurezza e dell’IT, il progressivo passaggio in secondo piano dell’impostazione politico-ideologica laburista, la nuova e significativa immigrazione dai paesi ex-sovietici, la crescita della destra nazionalista e del fondamentalismo religioso, il differenziarsi dei tassi demografici tra i gruppi ebraici e palestinesi (anche per il diverso gradiente socioeconomico) hanno radicalizzato negli ultimi decenni quell’impostazione, rendendo ancor più significative le gerarchie etniche del paese e imponendo dinamiche autoritarie anche nella stessa società ebraica.
- La deriva reazionaria israeliana e le sue fratture sociali. Infatti, proprio il progressivo polarizzarsi delle gerarchie nazionali che attraversano questa composita formazione sociale, nel quadro delle ambiguità fondative di Israele e dei Territori, ha prima prodotto il crollo della sinistra antisionista [come ad esempio Matzpen, piccola ma con una certa influenza politico-culturale] e poi determinato il rapido tramonto di un movimento pacifista che non ha mai affrontato fino in fondo i nodi etnici del paese. Dagli anni Novanta ha quindi aperto fratture nella stessa società ebraica, ben oltre i gruppi mitteleuropei (ashkenazita), africani e mediorientali (sefardita) o particolari (drusi, falascià etiopi, ecc): si è così imposta una divergenza sempre più profonda negli stili di vita e nelle identità collettive tra i settori progressisti, la nuova emigrazione conservatrice, i coloni nazionalisti, gli integralisti, nel quadro di una crescente militarizzazione neocoloniale e di una deriva politica reazionaria sotto l’egida neo clientelare di Netanyahu.
- La burocratizzazione capitalista dell’ANP. Parallelamente, negli anni Ottanta l’indipendentismo dell’OLP e di Al-Fatah ha conosciuto una sconfitta nella guerra civile libanese, seguita dall’etnicizzazione di quel conflitto su un versante religioso, l’emersione del saliente sciita sulla spinta della Rivoluzione Iraniana e lo sviluppo di Hezbollah come principale forza antisionista. Il ceto politico dell’emigrazione, sull’onda di un Intifada popolare nei territori Occupati largamente autorganizzata ma politicamente poco strutturata, ha colto l’occasione della sconfitta sovietica e dei nuovi scenari della prima guerra irakena per riciclarsi come borghesia compradora e collaborazionista nella logica della pace di Oslo. I due Stati non sono quindi mai potuti nascere, perché l’Autorità Palestinese è stata concepita sin dall’inizio come struttura frammentata, subordinata ad Israele ed agli indispensabili sostegni USA, UE e soprattutto delle monarchie del Golfo (nell’emergente logica di contrapposizione sul saliente sciita/sunnita del mondo islamico).
- La strategia di Hamas. Così, mentre l’ANP si è atrofizzata in logiche affaristiche deteriori, guidata da una gerontocrazia distante da una delle popolazioni più giovani del pianeta, anche nella plurale società palestinese si è sviluppato un movimento islamista, sostenuto nei suoi primi passi dai servizi israeliani e poi soprattutto dalle petromonarchie, per tagliare le gambe ai settori autorganizzati, popolari e progressisti cresciuti nell’Intifada. Questo movimento reazionario e in fondo fascista [a partire dall’uso delle sue strutture paramilitari], centrato sulla piccola borghesia commerciale, professionale e dei servizi [su cui si è imbastita la prima struttura politica e la prima dirigenza di Hamas], ha sviluppato una sua presa in una società destrutturata, giovane e ad alta disoccupazione come quella palestinese. Hamas ha sviluppato un’azione antisionista concorrente a quella sciita di Hezbollah [arrivando ad un’aperta contrapposizione nella guerra civile siriana], con una strategia politica e militare integralista e ultranazionalista, volta a scavare un solco invalicabile con Israele, che militarizza e inquadra l’intera società palestinese dietro la sua direzione borghese. In questo quadro si colloca l’uso degli attentati terroristi verso la popolazione, importato nella regione con lo stesso scopo (e opposto campo) dall’Irgun e dalla Banda Stern negli anni Quaranta, poi assunta anche dall’Haganah per sospingere l’esodo palestinese [vedi le ricostruzioni di Morris e Pappe sul 1947/48]: sia la logica degli attentati, sia la strategia dei massacri messi in campo il 7 ottobre sono funzionali a dividere irrimediabilmente le popolazioni secondo linee nazionali e non di classe, da una parte creando la mitologia del gruppo militare feroce ed efficiente (come appunto fu per Irgun, Stern e Haganah), dall’altra sottolineando le fragilità e le paure della popolazione avversaria.
In questo quadro complesso, allora, la componente religiosa e quella interimperialista non sono secondarie nell’attuale conflitto: la prima non solo in relazione alle identità nazionali in gioco, ma anche alle contrapposizioni interne al mondo islamico; la seconda, in parte intrecciata alla prima, emerge nella lunga tessitura di diverse aree di influenza nella regione, in cui sono presenti importanti distaccamenti militari atlantici e russi, ma anche evidenti proiezioni cinesi (sottolineati dal recente tentativo di definire un nuovo equilibrio tra Teheran e Riyad). Non sono secondarie, ma non sono dominanti. La consolidata gerarchia etnica nella formazione sociale di Israele e dei Territori, la costruzione nell’ultimo ventennio di una gabbia a cielo aperto a Gaza [37 km di lunghezza per 2 di larghezza, con 2 milioni di abitanti], sono la determinante essenziale che non solo forgia le derive ultranazionaliste dell’attuale conflitto, ma innesca la rabbia e la disperazione delle tattiche da guerra totale. Il sostengo alla resistenza palestinese, quindi, è convinto, proprio perché origina da una condizione consolidata di oppressione sociale. Questo sostegno, però, si deve combinare ad una esplicita contrapposizione ad Hamas, il suo progetto e la sua strategia militare. Si ribadisce, cioè, anche in questo specifico contesto non solo l’insegnamento che Marx e Engels traggono dalla propria esperienza rivoluzionaria sull’importanza dell’indipendenza della classe lavoratrice da ogni strategia nazionalista [Indirizzo del CC alla Lega dei comunisti, 1850], ma anche l’importanza di non derogare dalla strategia della rivoluzione permanente. L’obbiettivo politico contingente delle forze rivoluzionare non può infatti limitarsi, neanche transitoriamente, a quello democratico dell’indipendenza nazionale: proprio le fragilità della borghesia di queste formazioni sociali, le sue inevitabili tendenze compradore e autoritarie, determinano la necessità di sviluppare non solo l’indipendenza, ma anche la demarcazione e la contrapposizione rispetto alle strategie nazionaliste, sia sul piano politico sia su quello militare (evitando accuratamente ogni dinamica, ogni logica, ogni tentazione di fronte o coalizione unitaria).
3. La tessitura di un campo internazionalista, la ricerca di un punto di raggruppamento. ControVento è solo un laboratorio politico, un luogo plurale e transitorio di raggruppamento in cui ridefinire collettivamente una proposta politica e organizzativa. Però, anche nella sua Carta fondativa riconosce la necessità di un’azione internazionalista e un’organizzazione internazionale: un’azione internazionalista, perché ritiene fondamentale metter al centro di ogni conflitto sociale la prospettiva del lavoro e il suo antagonismo con il capitale, sostenendo quindi l’unità della classe e contrastando, nel rispetto del diritto alla difesa e all’autodeterminazione dei popoli oppressi, ogni tentazione nazionalista, campista e sovranista; un’organizzazione internazionale, in quanto proprio per evitare il prevalere di punti di vista ed interessi nazionali, ritiene necessaria la ricostruzione di un’internazionale rivoluzionaria. Perseguiamo allora questi obbiettivi, consapevoli delle esperienze e delle derive del movimento trotzkista: coscienti dell’importanza della sua definizione programmatica, ma anche delle degenerazioni movimentiste o settarie, con dinamiche avanguardiste, internazionali-frazioni o centrature su partiti nazionali. Una prassi spesso derivata da un’esclusiva attenzione alla direzione, al partito, e non al rapporto con l’insieme della classe e la sua necessaria autorganizzazione [Classe, Partito e Consigli], In questo composito quadro, pur nell’ambito delle nostre limitatissime forze ed energie, abbiamo provato ad affacciarsi sul proscenio delle relazioni internazionali.
- Il rapporto con TIR e Etincelle. Dall’esperienza del PCL e dalla sua tendenza di minoranza (Anticapitalismo e Rivoluzione) abbiamo ereditato un confronto con la Tendenza Internazionale Rivoluzionaria del Segretariato Unificato della Quarta Internazionale: una sinistra coagulatasi intorno ad Anticapitalisme et Revolution (Francia), OKDE-Spartacus (Grecia) ed IZAR (Spagna), con l’obbiettivo di contrastare la deriva movimentista e soprattutto lo sviluppo di partiti ampi e politiche di fronte popolare. Ci è parso, politicamente e metodologicamente, un elemento di novità rilevante. Abbiamo cercato di sviluppare con questa realtà un rapporto e soprattutto di innescare un percorso comune. Con questo intento abbiamo partecipato lo scorso anno al campo della TIR in Spagna. Etincelle, un’altra corrente di sinistra del NPA francese originata da una scissione di Lutte Ouvrière, ha parallelamente cercato con noi un confronto, sviluppando alcuni appuntamenti di discussione (on line). Con entrambi, però, non siamo riusciti a costruire effettive occasioni di iniziativa comune, anzi abbiamo avuto l’impressione che la nostra impostazione suscitasse in loro reazioni di diffidenza.
- Nouveau Parti anticapitaliste. Il V congresso del NPA [dicembre 2022] ha visto l’abbandono della sua direzione storica e di una maggioranza relativa dei delegati/e, per convergere con la NUPES di Mélenchon. Diverse correnti di sinistra (tra cui AeR, l’Etincelle, Démocratie Révolutionnaire) hanno rivendicato continuità, aprendo un’aspra battaglia per mantenere il NPA e la sua indipendenza. Abbiamo ritenuto questo impegno importante. La Francia, infatti, è uno dei principali paesi imperialisti e nell’ultimo decennio ha sviluppato in controtendenza grandi movimenti di massa, in cui la classe lavoratrice ha avuto un ruolo, anche con un livello di organizzazione significativo [da Nuit debut alla scorsa primavera contro le pensioni]. Sul piano generale, allora, un soggetto classista indipendente e una politica rivoluzionaria in questo paese potrebbe svolgere un ruolo per l’intero continente. Sul piano particolare, l’esperienza del NPA potrebbe rilanciare una prassi di raggruppamento per l’insieme della sinistra rivoluzionaria. La nuova direzione collettiva del NPA non ha dovuto affrontare solo la prova della tenuta del partito e un grande movimento di massa, ma si è dovuta confrontare anche con la guerra in Ucraina e il nuovo imperialismo di attrito. Su questo versante, in una delle prime prove su un possibile ruolo continentale del NPA, abbiamo registrato un passo indietro. AeR e TIR, la scorsa estate, avevano inquadrato il conflitto come dominato da una dinamica interimperialista e sviluppato posizioni disfattiste; la nuova direzione NPA ha assunto invece un profilo neutro, riservandosi di valutare gli eventi nel loro fluire. In questi mesi non ha quindi portato avanti alcuna polemica nei confronti del sostegno alla resistenza ucraina e, soprattutto, non ha svolto un’azione per coagulare un polo disfattista sul continente. In queste settimane il NPA ha annunciato la sua presentazione alle prossime elezioni europee: un passo positivo e importante, vedremo se sul versante del contrasto all’imperialismo europeo saprà svolgere un ruolo non solo nazionale.
- La conferenza internazionalista di Milano. Nell’ambito del rapporto di confronto che abbiamo sviluppato con ControCorrente, abbiamo partecipato al comitato organizzativo di questo incontro di luglio, insieme a Lotta Comunista, PCL, SA e RC. Un appuntamento che rappresenta un primo passo di confronto internazionale, che ha però segnato una novità, in qualche modo per noi rappresentato un’occasione di razionalizzare le nostre valutazioni e di affacciarci, in modo più evidente e strutturato, nel panorama politico internazionale (pur nelle nostre limitate dimensioni).
- Il Partito Obrero e Internationalist Standpoint. In questo contesto, abbiamo avuto occasione di confrontarci con due realtà. Il Partito Obrero argentino, pur rivendicando una continuità con la sua impostazione storica, ha sviluppato una direzione collettiva assai diversa da quella altamirista. Nel corso della Conferenza di Milano ha presentato posizioni convergenti con le nostre non solo sulla guerra ucraina, ma anche sulla necessità di sviluppare un polo disfattista internazionale. Con la differenza cruciale che, diversamente da noi, il PO ha ruolo e dimensioni per poter innescare un’effettiva aggregazione internazionale. Pur nel quadro di alcune divergenze (per esempio sull’imperialismo cinese, anche se il PO riconosce oramai il suo comportamento da grande potenza e lo sviluppo di politiche neocoloniali nell’ambito dei BRICS), la sua azione può quindi sviluppare percorsi importanti, su cui abbiamo mostrato interesse. A Milano abbiamo anche potuto apprezzare le posizioni e le prospettive di raggruppamento proposte da Internationalist Standpoint, circuito fuoriuscito qualche anno fa dal CWI: non solo questo soggetto ha letture convergenti sulla questione ucraina, ma soprattutto sembra aprire un discorso sulla costruzione internazionale, un suo bilancio critico e la necessità di cambiare metodo, che incrocia la linea di riflessione che abbiamo iniziato a sviluppare come ControVento.
In questo quadro, nei prossimi mesi diventa opportuno approfondire questi confronti e questi rapporti, su un piano pubblico, cercando di capire se nel contrasto all’imperialismo europeo, nello sviluppo di un polo disfattista e sul raggruppamento internazionale dei rivoluzionari si potranno effettivamente sviluppare momenti di convergenza e percorsi comuni.
14 ottobre 2023