Intervento e appunti di Luca Scacchi, Coordinamento nazionale di Le Radici del Sindacato, area programmatica della CGIL; Milano 25 settembre 2023
Io credo che ci siano alcune questioni, quattro o cinque, che dobbiamo mettere a fuoco.
La prima è l’acuirsi della competizione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. In questi mesi abbiamo visto non solo una progressiva escalation del conflitto [il massacro al fronte, l’uso di armi sempre più micidiali, i bombardamenti in Russia che oramai non sono solo gesti esemplificativi], ma anche inaspettate ridefinizioni delle alleanze internazionali [i disallineamenti sulle sanzioni alla Russia, di fatto condotte solo dall’asse Atlantico e i suoi strettissimi alleati; l’accordo a Pechino tra Arabia Saudita e Iran; l’allargamento dei Brics a paesi del Golfo, Iran, Argentina, Egitto ed Etiopia; il nuovo corridoio indo-israeliano emerso al G20; i colpi di Stato in Sahel e l’uscita dell’esercito francese dal Niger]. La guerra ha, cioè, aperto una fase di attrito, in cui si stanno ridisegnando le aree in cui sino ad oggi era diviso il mondo. Tutto questo precipita sull’economia globale [il calo del commercio mondiale, il forte rallentamento cinese, la recessione tedesca, l’instabilità finanziaria e le paure di nuove crisi all’orizzonte] e su ulteriori importanti ristrutturazioni [le re-internazionalizzazioni delle filiere produttive transcontinentali nelle proprie aree di riferimento]. Così, ad esempio, Confindustria la scorsa primavera, attraverso il rapporto periodico del suo Centro Studi sulla manifattura italiana, ha di fatto candidato questo paese come piattaforma per le filiere a basso valore aggiunto e a bassi salari che per l’asse Atlantico devono esser re-internazionalizzate da Asia e Africa, proponendo di fatto un’azione di supporto a questa nuova divisione internazionale del lavoro, anche con un riassetto del capitale italiano, dei suoi sistemi di accumulazione e sfruttamento].
Secondo, in questo passaggio emerge la contraddizione principale del governo Meloni. Questo governo reazionario allude ad una diversa gestione capitalistica della crisi. Allude, cioè, all’idea di uno Stato forte, che torna ad intervenire nella produzione, acquisisce un’ottica nazionalistica e organizza la società all’interno di questa competizione mondiale, gestisce la riduzione delle esportazioni trans-continentali e una focalizzazione sui mercati delle proprie aree di riferimento, permette un rilancio della domanda effettiva basato sulla crescita della spesa militare [a quel punto molto maggiore a quel 2% a cui si vorrebbe aspirare oggi]. Tutto questo, però, è appunto solo un’allusione. Questa diversa gestione capitalistica della crisi ad oggi è infatti solo una narrazione, forse una prospettiva. Il nucleo portante del Grande Capitale, le grandi corporation industriali [energetiche, IT, automotive], finanziarie e dei servizi hanno infatti ancora strategie di accumulazione basate sugli attuali assetti produttivi e, per quanto logorati, spingono per non cambiarli fino a che sarà possibile. Quindi la gestione concreta della crisi in questo autunno e nella prossima primavera si basa sulla ripresa delle antiche ricette dell’austerità, dopo la parentesi di pandemia e resilienza. La legge di bilancio e la ristrutturazione produttiva sarà condotta nei prossimi mesi sotto l’insegna della compressione del salario globale di classe, sia attraverso il taglio del salario sociale [scuola, sanità, traporti], sia attraverso la riduzione dei salari diretti reali [usando a questo scopo l’inflazione]. Questo, nonostante un po’ di chiacchere e distintivo intorno alla riduzione del cosiddetto cuneo fiscale, le tasse alle banche, la riforma fiscale.
Terzo, il nostro principale problema è la divisione della classe. Innanzitutto, nelle condizioni di lavoro e quindi nei conflitti che si determinano nei rapporti di produzione. Questa dinamica dello scontro di classe è stata instrada dalla moltiplicazione, anche territoriale, di diversi modelli di accumulazione nel capitale italiano negli ultimi vent’anni ed è stata rilanciata dalla pandemia, con le sue divergenze tra settori e realtà economiche. Così, per far solo un esempio, i metalmeccanici [come hanno ricordato qui molti interventi] hanno avuto in questi mesi aumenti salariali intorno al 6%, che hanno ripreso per tutti solo metà dell’inflazione reale [con il problema dell’assorbimento dei superminimi in alcune imprese], in modo quasi automatico [senza vertenze o iniziative di lotta]; altri, come i pubblici, non hanno visto e a lungo non vedranno nessun aumento [dopo aver ottenuto solo nei mesi scorsi quelli 2019/21, molto diversi tra i settori, da meno del 5% di scuola ed enti locali ad oltre il 10% nella ricerca, nel terzo tempo del contratto istruzione]; altri ancora, come la Vigilanza, hanno avuto aumenti che mantengono quei salari sotto livelli dignitosi, sotto i 7 euro all’ora (ben lontani dai 9 di cui tanto si parla ora), sotto gli stessi livelli Costituzionali, come stanno continuando a dichiarare i Tribunali chiamati su questo ad esprimersi. Questa diversa condizione salariale divide. Come divide il trovarsi in un’azienda che oggi sta vivendo una fase di alta produzione, con turni saturi e straordinari, o in una realtà in crisi, con cassa-integrazione e dismissione dei reparti. Tutto questo, come ricordava nella relazione Eliana [Como, portavoce dell’area], è precipitato nell’assemblea nazionale di delegati e delegate CGIL che il 12 settembre scorso ha discussione le linee contrattuali: si è, cioè, visto un comportamento sindacale schizofrenico, perché ogni categoria individua punti di tenuta e caduta differenti, indebolendo nel complesso il lavoro. Allargando lo sguardo oltre la CGIL, questa è in fondo la dinamica di tutto il campo sindacale, anche purtroppo delle realtà classiste e conflittuali: il sindacalismo di base è infatti oramai segnato da strategie di radicamento e costruzione settoriali, che di fatto faticano a porsi su un terreno confederale, con scioperi generali contrapposti (nella scorsa primavera come nel prossimo autunno) basati su settori di classi differenti, senza capacità di darsi un terreno generale di ricomposizione degli interessi e delle dinamiche di lotta.
Quarto, abbiamo un nuovo autunno di convergenze parallele. Cioè, ognuno chiama alla convergenza, alla costruzione di un fronte unico, a partire da sé e dalle proprie iniziative di lotta. Una dinamica generale, anche della CGIL. Guardate, il problema principale che io vedo nella manifestazione del prossimo 7 ottobre è proprio questo. Certo, rimane la moderazione o l’errore di alcune proposte [tra tutte, e qui molti l’hanno sottolineato, quella regressiva della defiscalizzazione]. Il problema principale però è che persino la CGIL, un’organizzazione di massa di 5 milioni di iscritti ed iscritte, costruisce una manifestazione programmatica, in cui ribadisce l’insieme delle proprie proposte per la fase [La via maestra: salario, fisco, stato sociale, pensioni, ambiente, diritti, salario minimo, ecc], in cui di fatto riafferma solo il proprio posizionamento [tra l’altro nella confusione di aver costruito questo percorso con altre associazioni e movimenti]. Così ci si muove in un’ottica identitaria, come spesso il sindacalismo di base, senza costruire percorsi rivendicativi, fronti unici reali e quindi una mobilitazione di massa. Così è questo autunno: il 6 ottobre il Global Strike, il 7 il corteo CGIL, il 20 lo sciopero di CUB-SGB-SiCobas, il 21 le manifestazioni contro la guerra, il 17 novembre le mobilitazioni degli studenti e lo sciopero del pubblico impiego USB, da qualche parte lo sciopero CGIL e UIL. Da qui a dicembre, si dispiegano praticamente ogni settimana, ogni weekend, iniziative diverse. In una situazione di difficoltà, chiusura, sbandamento della capacità di reazione della classe nel suo complesso. Abbiamo visto le assemblee congressuali e le difficoltà dello sciopero metalmeccanico del 7 luglio. Stiamo vedendo queste prime assemblee della Via Maestre, non particolarmente partecipate e complesse, in cui si coglie la passività di massa di questi mesi.
A me ha colpito in particolare la reazione a Brandizzo: non tanto la strage sul lavoro, determinata da una prassi di subappalti e sfruttamento che ha oramai travolto ogni sicurezza, quanto la reazione della classe. Non è stata una sorpresa quella della CGIL: come sempre negli ultimi anni è stata diretta ad evitare di trasformare la paura (o lo sgomento) in rabbia, come disse Landini quando ci furono gli scioperi per la sicurezza al tempo del covid, nel marzo 2020. La reazione peggiore che possa attivare un sindacalista, che dovrebbe fare esattamente l’inverso [cioè, trasformare le emozioni di massa negative e passivizzanti in energia per trasformare le cose, a partire proprio dalla rabbia]. A colpirmi è stato soprattutto che in una delle aree più sindacalizzate del paese, il Piemonte e la cintura torinese, quel tessuto di delegati ed attivisti non sia stato capace di innescare una reazione di massa. Se prendiamo, quindici anni fa, la strage alla Thyssen, che pure è stata richiamata in questi giorni, ci fu allora un grande sciopero torinese (lunedì mi pare, essendoci il weekend) e una diffusione di mobilitazioni che intrecciarono iniziative di categoria di quei giorni. Qualcosa di molto diverso dal corteo testimoniale a Vercelli, dagli scioperi regionali di categoria (FILT E FILLEA), dai pochi scioperi diffusi condotti da noi (penso a Same o Electrolux) o nella logistica padana dal Sicobas. Un segnale tremendo, che in qualche modo avvia l’autunno.
E, infine, arriviamo a noi. Questo contesto difficile, questo avvio d’autunno, questa divisione della classe lavoratrice, è tutta sulle nostre spalle. Affatica tutto il nostro percorso, perché da una parte impedisce di trovare slancio nelle prassi sociali, dall’altra sospinge le inerzie di un apparato burocratico sempre più connesso a pratiche individuali. Lo abbiamo già notato al congresso e nei suoi risultati. Pesa ancor di più oggi, quando dobbiamo sviluppare e far vivere la nostra impostazione alternativa non solo nel dibattito dell’organizzazione, ma anche sui territori e nei posti di lavoro, in una nostra iniziativa come area sindacale programmatica. Io credo allora che noi dobbiamo assumerci maggior responsabilità collettiva. Dobbiamo, cioè, esser consapevoli della difficoltà della fase, della necessità di uno scarto e quindi della necessità di condurre collettivamente un’azione controcorrente. In direzione ostinata e contraria, come abbiamo detto tante volte. Per farlo, abbiamo bisogno di una discussione aperta e franca. Senza timidezze: perché solo così si superano collettivamente i momenti di difficoltà. Impariamolo proprio dalla CGIL, che in questa stagione reagisce negando contraddizioni, errori e difficoltà [il caso Gibelli, in fondo, parla proprio di questo].
Lo dico anche ad Achille, Franco e i compagni che hanno presentato il loro testo a questa riunione [Opposizione: alternativa all’astensione], come già hanno fatto all’assemblea nazionale a Milano dello scorso 27 aprile o quella all’inizio del percorso congressuale, lo scorso anno a Firenze. La discussione tra noi è importante ed è giusta condurla francamente: infatti qui avete non solo distribuito il vostro testo, ma intervenite a presentare le vostre posizioni, nonostante non siate nel coordinamento dell’area. Però, se accetto senza problema di esser definito democratico [cioè, nel linguaggio politico della tradizione classista, uno che sta dalla parte della borghesia, dalla parte del padrone], come avete fatto nella vostra dichiarazione di voto lo scorso anno a Milano; se accetto che oggi ci definiate dei divi [le consuete passerelle di réclame per la sponsorizzazione di tutti gli interventi dei nostri principali “divi” Como, Scacchi, eccetera, come testualmente scrivete], anche se ritengo questo modo di condurre il confronto sopra le righe e personalistico [lo fate ogni volta, evidentemente vi piace]; non accetto invece che usiate strumentalmente la GKN come occasione di polemica con il gruppo dirigente di questa area. Guardate, lo avete già fatto un anno fa a Firenze e siamo stati zitti, proprio per evitare polemiche, quando avete strumentalmente candidato i compagni del Collettivo di Fabbrica contro il gruppo dirigente di RT [nel documento, quando avete scritto che bisogna creare una rottura radicale nei confronti degli assetti organizzativi della maggioranza, che dobbiamo mettere in pratica anche seguendo il principio della rotazione degli incarichi nella gestione dell’area valorizzando il ruolo dei delegati in produzione, a partire dal ruolo svolto dei delegati della GKN, punta più alta in Italia del conflitto di classe, dalla gestione delle assemblee, dall’esposizione delle relazioni introduttive e delle conclusioni]. Questa ipotesi avrebbe chiuso nella rappresentanza della nostra soggettività questa vertenza del movimento operaio, che è stata l’unica negli ultimi due anni ad aver avuto la capacità di svolgere una funzione generale e ricompositiva. Oggi, di nuovo e sempre strumentalmente, alludete a presunte distanze da quella vertenza [scomparse dal radar le lotte e il loro coordinamento, a cominciare dalla GKN di Campi Bisenzio, prima elogiata fino alla nausea e ora quasi nemmeno nominate]: proprio in un suo momento complesso, proprio quando abbiamo deciso che all’assemblea nazionale dei delegati/e della CGIL lo scorso 12 settembre il nostro intervento fosse quello di un delegato GKN (per darle rilevanza ancora una volta, oggi che tende a scomparire dall’attenzione mediatica], oggi che proprio in questo Coordinamento si porta la proposta di sostenere l’azionariato popolare della Gff, la nuova strategia di autogestione che punta a gestire un piano di produzione di cargo-bike e pannelli solari di nuova generazione. Davvero, evitiamo polemiche inutili, strumentali e sbagliate.
Allora, cosa dobbiamo fare? Io credo che dobbiamo articolare la nostra impostazione sindacale nelle categorie e nei territori. Il documento Le Radici del Sindacato ha tracciato le coordinate di un sindacato conflittuale e classista, alternativo a quello proposto da questa segretaria confederale. Dobbiamo ora provare a sviluppare queste coordinate nell’azione sindacale. Non è semplice, particolarmente in questo contesto. Lo abbiamo fatto in FLC e lo abbiamo fatto in FP in queste settimane, opponendoci alla firma del contratto Istruzione e ricerca e ad un’impostazione vaga e indeterminata sulla prossima mobilitazione. Lo abbiamo fatto anche nella FIOM, sostenendo la proclamazione degli scioperi quando ci sono, evitando contrapposizioni a prescindere, anche quando l’organizzazione sceglie di provare ad avviare conflittualità sociale. Lo abbiamo fatto sostenendo l’iniziativa referendaria sul salario minimo e facendo il seminario su salario e busta paga, proprio per dotarci collettivamente di una cassetta degli attrezzi per intervenire sulle questioni contrattuali con un’impostazione alternativa.
Dobbiamo farlo sostenendo le manifestazioni contro la guerra del prossimo 21 ottobre. Quel sabato sono previste manifestazioni a Ghedi (base nucleare attiva), Coltano (nuovo snodo dei reparti speciali dei Carabinieri) e in Sicilia (sede del MOUS e altre realtà logistiche). Sono manifestazioni diverse, nelle piattaforme e nelle dinamiche che le hanno convocate. Personalmente, io condivido e ho promosso l’impostazione internazionalista, classista e disfattista che è stata data a Ghedi, proprio perché io credo necessario sviluppare questo punto di riferimento, capace di contrapporsi a tutti gli imperialismi sottesi a quel conflitto ed agli opposti campismi che cercano di arruolare nelle loro fila anche il movimento contro la guerra. Per questo io sarà a quella manifestazione. In ogni caso, ritengo che come Area programmatica noi dobbiamo esser in tutte queste manifestazioni, con le nostre posizioni [dal documento Le Radici del Sindacato, presentato al XIX congresso CGIL: La guerra in Ucraina…è uno spartiacque, che ridisegna aree economiche, alleanze politiche e blocchi militari contrapposti intorno ai principali poli imperialisti del mondo. Una dinamica che accelera i nazionalismi, il riarmo generalizzato e politiche economiche di guerra. Le conseguenze della guerra sono pagate amaramente dalle popolazioni, a cominciare da quella ucraina, colpita direttamente. La ferma condanna dell’invasione russa è imprescindibile, ma non basta. Bisogna individuare e rimuovere le diverse cause che l’hanno determinata e opporsi a tutti coloro che hanno interesse nel proseguire la guerra, a partire dalla NATO e dalla sua strategia di espansione e di riarmo che ha alimentato la tensione. La guerra e le sanzioni, nel quadro della competizione mondiale e delle speculazioni sui mercati, hanno finito per colpire la popolazione, accentuando in Russia, in Europa e nel mondo disoccupazione, diseguaglianze e l’impoverimento dei salari…La Cgil deve promuovere un movimento generale contro la guerra, in relazione e in supporto alle organizzazioni sindacali di ogni paese che lottano contro i nazionalismi e le logiche di questo conflitto. Dobbiamo mobilitarci per l’uscita dell’Italia dalla Nato, contro l’invio di armi, il riarmo e la politica bellicista del governo… Dobbiamo continuare e aumentare il nostro impegno nella raccolta di aiuti umanitari alle popolazioni coinvolte nella guerra, nel sostegno all’accoglienza degli uomini e delle donne profughe e dei disertori].
Chiudo: io credo però che tutto questo non può esser condotto semplicemente da chi è dietro questo tavolo. Ha ragione chi ha detto ci vuole una maggior responsabilizzazione collettiva, ci vuole una nostra maggior strutturazione organizzativa. Passata l’estate, dobbiamo costruire concretamente le strutture collettive dell’area nei territori e nelle categorie, che ci possano permettere di discutere apertamente e di condurre un’iniziativa sul fronte della sicurezza, del salario minimo, dell’iniziativa contrattuale, della partecipazione e del rafforzamento di lotte e mobilitazioni. Dobbiamo, cioè, esser capaci di articolare la nostra opposizione a specifiche scelte sindacali e contrattuali, costruendo una linea complessiva alternativa in sedi collettive di riflessione e di azione.
Questo il nostro difficile compito immediato per l’autunno.
Luca Scacchi