I primi due numeri di ControVento hanno sottolineato come questa stagione politica, la stessa dinamica dello scontro di classe, sia oggi fondamentalmente segnata dalla disorganizzazione del lavoro e dalla penetrazione del consenso alle destre reazionarie nelle stesse classi subalterne.
Sul piano mondiale, la gestione capitalistica della Grande Crisi iniziata nel 2006 non è in grado di invertire le tendenze di fondo che l’hanno determinata (la caduta dei saggi di profitto internazionali e nazionali, la sovrapproduzione di capitali e la finanziarizzazione dell’economia). Anzi, in quest’ultimo decennio ha usato la leva della finanza e degli investimenti pubblici (esplosione dei bilanci delle banche centrali, Quantitative Easing e tassi di interesse negativi, piani di intervento e investimento) per tenere a galla la dinamica economica, sospingendo da una parte il capitale a ristrutturare le sue filiere produttive per aumentare lo sfruttamento (estrazione assoluta e relativa di plusvalore), dall’altra i principali poli mondiali a competere sempre più direttamente per definire aree commerciali e monetarie di riferimento. La pandemia covid-19, nell’ambito di un vero e proprio tipping-point nella crisi ambientale globale che si sta dispiegando in questi anni, ha ulteriormente accelerato questi processi. Si delinea, cioè, un’incipiente nuova gestione capitalistica della crisi, strettamente connessa ad una fase di scontro internazionale tra poli imperialisti, oggi di dimensioni continentali (USA, Cina, UE). Il conflitto in Ucraina è il risultato ed a sua volta un ulteriore acceleratore di questa dinamica, con la tessitura di alleanze internazionali, una razionalizzazione del commercio mondiale e la continentalizzazione delle filiere produttive, la statalizzazione delle economie e la militarizzazione delle società.
La doppia recessione del 2009/2012 aveva già prodotto il collasso dell’assetti del capitale nazionale, storicamente fondati su alcuni centri finanziari e industriali concentrati nella pianura padana. Era il cosiddetto salotto buono, in cui agivano alcuni grandi famiglie come gli Agnelli, i Pirelli, i Pesenti, a cui negli ultimi anni si erano aggiunti i Benetton e Berlusconi, storicamente sotto l’egida della Mediobanca di Cuccia e lo scudo delle Generali. L’euro aveva infatti avviato un processo di ristrutturazione continentale intorno al suo cuore mitteleuropeo, accelerato dalla Grande Crisi (come sottolineato da Celi, Ginzburg e colleghi). Così, negli ultimi quindici anni nel capitale italiano si sono imposte diverse traiettorie a seconda di settori, contesti e propensioni, intrecciando processi di concentrazione del capitale e diversificazioni delle strategie di accumulazione. Il grande capitale industriale ha conosciuto importanti razionalizzazioni (l’inglobamento FIAT prima in FCA e poi in Stellantis, quello dell’Italcementi in Heidelberg, l’entrata di Sinochem in Pirelli, il riassetto di ENI, ENEL e Poste) e alcuni isolati sviluppi (Leonardo, Fincantieri, Ferrero, l’ambivalente fusione di Luxottica in Essilor). Le banche si sono sempre più concentrate sui due poli di Intesa e Unicredit. Larga parte dei distretti si sono destrutturati, con il pieno sviluppo di alcune piccole multinazionali: è il cosiddetto quarto capitalismo di Brembo, Tod’s, Mapei, Calzedonia e Lavazza, in maturazione dalla seconda metà degli anni novanta. Alcuni settori hanno stretto i rapporti con filiere continentali (più o meno in relazione di subfornitura), altri rimangono concentrati su mercati locali e nazionali, altri ancora hanno si sono focalizzati sulle esportazioni (nel complesso molto cresciute dopo la Grande Crisi, passando da meno di 350 mld a più di 550 mld di euro, con un crescita di oltre il 50% in automotive, chimico e agroalimentare). Il pubblico impiego ha bloccato i suoi organici (con un congelamento del turn-over), creando un buco di milioni di dipendenti (come illustrato da Barbera, Bianco e colleghi): una dinamica che oltre al degrado dei servizi pubblici ha ulteriormente distorto il mercato del lavoro, aggravato la disoccupazione dei pur scarsissimi laureati del paese (che occupando altre posizioni, demansionandosi, hanno a loro volta gonfiato i Neet), favorendo infine la precarietà e l’ipersfruttamento nel commercio, turismo e servizi.
In questo passaggio il capitale italiano si sta ulteriormente frammentando. La crescita della vocazione esportatrice (oggi un terzo del PIL, particolarmente concentrata in Lombardia, Emilia e Veneto), sia per l’inserimento in filiere continentali sia per le propensioni del quarto capitalismo, rende infatti la nostra struttura produttiva particolarmente sensibile alle ristrutturazioni di questa nuova stagione. Come sottolinea l’ultimo rapporto di previsione di Confindustria (primavera 2023), la base produttiva del paese si è ridotta, si è diversificata, si è rafforzata in dimensione e internazionalizzazione. Per il Centro Studi di Confindustria l’accorciamento delle filiere produttive e la divisione delle aree commerciali potrebbero quindi aprire nuovi spazi di mercato, sospingendo nel paese un modello di accumulazione centrato su produzione a basso valore aggiunto, modeste specializzazioni e quindi salari molto bassi. In pratica l’Italia (o una sua parte) potrebbe diventare una piattaforma industriale sostitutiva di paesi esterni all’asse atlantico. Una prospettiva che non è però inevitabile, anche perché la recessione tedesca (e sul piano più strutturale la messa in discussione del suo orizzonte euroasiatico con l’apertura del conflitto ucraino) rischia secondo il CSC di compromettere anche tale opzione ed in ogni caso di determinare profonde conseguenze sulle filiere nel paese. L’industria italiana (con un volume di quasi 400 miliardi di euro, il 20,5% del Pil) è quindi oggi sottoposta ad ulteriori tensioni, con una riduzione della produzione per il quarto trimestre consecutivo (-7,2% su base annua). Questa dinamica non è generalizzata. Colpisce alcuni settori (in particolare quelli energivori come carta, chimica e metallurgia), mentre altri crescono (la farmaceutica). Ancora più nello specifico, alcune imprese stanno marciando a pieno ritmo, tirando la produzione con la saturazione dei turni e straordinari obbligatori (per esempio quelle collegate all’edilizia, ancora trascinate dalle dinamiche nazionali del superbonus), mentre altre avviano cassa integrazione, razionalizzazioni e delocalizzazioni. La spinta all’autonomia differenziata, rinnovata in questi mesi dopo l’assalto referendario del 2017, è in fondo il tentativo di razionalizzare queste tendenze e gestire questa nuova struttura produttiva: alcune (poche) grandi imprese dell’energia e in produzioni ad alto valore aggiunto (ENEL, ENI, Leonardo), alcune realtà inserite nella filiera mitteleuropea, altre centrate su produzioni per l’esportazione, altre sui mercati nazionali, altri ancora che si candidano a sostituire paesi da cui si stanno retraendo le filiere produttive atlantiche. Una struttura, cioè, dove è utile diversificare i sistemi di regolazione sociale (il salario globale di classe), perché la distanza tra Milano e Berlino diventa molto minore di quella tra Milano e Napoli (come ha sottolineato profeticamente qualche anno fa Guido Tabellini sul Foglio: le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli, tra aree avanzate e arretrate del paese).
La classe in questi anni si è stratificata e disorganizzata. Larga parte della riflessione di ControVento (come dei percorsi precedenti, espressi ad esempio in Scintilla) si è avviata proprio a partire dal riconoscimento che la doppia recessione 2009/2012 aveva innescato un profondo arretramento della classe lavoratrice. La sconfitta in FIAT nel 2012 (con la capitolazione a Grugliasco), il rapido arenarsi dell’iniziativa sul jobs-act, l’isolamento del movimento di massa contro la buona scuola, il progressivo destrutturarsi della contrattazione tra settori e professionalità, il ripiegamento in dinamiche e identità di stabilimento della classe operaia centrale (vedi le vicende FIAT/FCA, ILVA, Electrolux, Fincantieri) hanno disfatto la coscienza generale del lavoro. Su questa dinamica si è inserito prima lo sviluppo di un movimento di massa qualunquista (i 5 stelle), poi un’ulteriore deriva reazionaria (consolidatasi dopo il voto del 2018 e il governo gialloverde), che da una parte ha spinto il movimento grillino oramai di governo a riconfigurarsi improbabilmente sul versante progressista, dall’altra ha portato la Lega e poi soprattutto Fratelli di Italia a conquistare consensi anche nelle classi subalterne (anche in aree popolari e territori storicamente rossi, come Piombino, Pisa, l’Umbria o le periferie romane). La pandemia ha amplificato queste dinamiche, con un ulteriore stratificazione delle condizioni della classe, le divisioni sulle vaccinazioni obbligatorie e il Green pass, l’articolazione di diversi cicli di lotta e rivendicazione.
La conclusione della pandemia poteva dare avvio ad una nuova stagione nello scontro di classe, nel quadro di una significativa ripresa economica (pompata da superbonus e interventi pubblici) e della prospettiva di una nuova recessione (segnalata anche dall’Economist): la ripresa dell’inflazione (sospinta dai colli di bottiglia sui mercati mondiali, dai sostegni pubblici e dal mare di liquidità prodotto delle banche centrali), già evidente a fine 2021, avrebbe cioè potuto innescare una nuova conflittualità proprio a difesa del salario, in grado di riunificare vertenze e percezioni di classe. In qualche modo questo è ad esempio avvenuto in Francia negli scorsi mesi, per l’attacco del governo sulle pensioni. Anche se, certo, non ci si aspettava che in Italia fosse possibile una tale esplosione sociale, dopo gli arretramenti dell’ultimo decennio. Senza qui considerare le ambivalenze del movimento francese, su cui sarà necessario tornare, che ha sicuramente mostrato grande resistenza e radicalità, premendo sulla direzione intersindacale per proseguire a lungo la lotta, ma ha nel contempo sviluppato una scarsissima autorganizzazione, che gli ha impedito di sostituire quella direzione. Come tutti sappiamo, in Italia la dinamica è comunque stata diversa. La guerra in Ucraina e l’esplosione dell’inflazione, le loro conseguenze combinate, hanno rilanciato i processi di divisione della classe, portando prima ad una primavera immobile, anche per la responsabilità di una CGIL congelata dalle ambiguità del rapporto con il governo, la perenne tentazione di un patto dei produttori, le paure suscitate dal risultato limitato dello sciopero di dicembre con la UIL. In ogni caso, abbiamo visto il fallimento dello sciopero unitario dei sindacati di base a maggio, l’arenarsi della dinamica di #insorgiamo, la caduta estiva del governo Draghi e la vittoria delle destre alle elezioni di settembre.
L’impronta della disorganizzazione di classe è stata quindi confermata nei mesi successivi e il nuovo passaggio rischia di radicalizzare questa dinamica. La CGIL, l’unica organizzazione di massa rimasta a sinistra nel paese, ha consapevolmente scelto di non diventare subito il perno dell’opposizione sociale al nuovo governo (come abbiamo sottolineato). L’autunno è quindi stato segnato dal fallimento disastroso del disarticolato sciopero generale CGIL e UIL (con adesioni marginali, tra 1 e 3%, piazze desolatamente piccole e vuote), dalla marginalità di quello dei sindacati di base e dalle divisioni al corteo del 3 dicembre, dall’isolamento del percorso #insorgiamo, da una dinamica complessiva che abbiamo definito di convergenze parallele. L’inverno successivo e l’inizio della primavera hanno visto una gelata sociale, a partire da un movimento della pace occasionale (dopo la prima reazione di marzo 2022, il 5 novembre romano, il 24 febbraio nei territori).
La primavera ha quindi evidenziato uno scontro di classe ancorato a dinamiche settoriali. È indicativo, a questo proposito, la dinamica contrattuale a cui stiamo assistendo, nel sostanziale silenzio della sinistra politica e sociale. La fine della pandemia, infatti, ha comportato la conseguente conclusione di quella stagione di incertezza nelle relazioni industriali. L’unità delle principali confederazioni è stata di fatto archiviata, per la scelta CISL di ricollocarsi su un versante conservatore (denunciato persino da alcuni settori storici dell’organizzazione). La CGIL ha rimandato ogni riflessione sul sistema contrattuale al prossimo settembre (in un’assemblea intercategoriale di delegati/e a metà mese), dopo aver tenuto un primo seminario a metà giugno, perché in realtà è divisa tra i diversi atteggiamenti delle sue categorie (come emerso nella sua Assemblea generale, tra chi vede prioritario la costruzione di un largo fronte contro la destra, in grado di coinvolgere anche settori di padronato, e chi vede prioritario sviluppare una mobilitazione generale ponendo con forza il tema del salario e quindi della riduzione dei profitti). Il sindacalismo di base ha oramai perso una riflessione e una capacità di azione confederale, con organizzazioni oramai sostanzialmente ripiegate in specifici settori di classe. Però, nella primavera, la dinamica contrattuale non è comunque stata ferma. È corsa su binari paralleli. In alcuni settori, come il pubblico impiego, è al palo: dopo un rinnovo scomposto, con aumenti molto differenziati tra settori (tra il 4 ed il 10%), il CCNL 2022/24 non vede ancora stanziata nessuna risorsa (a fronte di un recupero salariale che avrebbe bisogno di oltre 16 miliardi di euro per i dipendenti statali, di oltre 24 per l’insieme dei pubblici). In altri, come la vigilanza privata (guardie giurate e servizi fiduciari) ha visto rinnovi che non hanno fatto uscire lavoratori e lavoratrici dalla loro condizione di iper-sfruttamento, e neanche sono in grado di recuperare l’inflazione maturata nei lunghi anni di mancato rinnovo. In settori più forti, dove il capitale sta macinando profitti e il lavoro può contare su un maggior potere contrattuale, la dinamica è stata diversa: nel legno, ad esempio, settore inserito nel boom dei materiali di costruzione, il rinnovo ha conquistato un aumento di oltre l’8% (comprensivo di una tantum), con adeguamenti annuali automatici all’IPCA. Un accordo raggiunto grazie allo sciopero generale di aprile e al blocco degli straordinari, criticato esplicitamente da Confindustria. Nei metalmeccanici, inoltre, è stata fatta valere una clausola del disastroso CCNL 2016 proprio sull’adeguamento a posteriori all’inflazione, sinora rimasta silente, la cui concreta applicazione non era scontata e che ha permesso di ottenere dal 30 giugno un aumento di quasi 124 euro (recuperando l’IPCA depurata, con un meccanismo che sarà esigibile anche i prossimi anni). Anche solo da questo quadro parziale, risulta evidente come i diversi settori del lavoro si ritrovino oggi con difese molto diverse dall’inflazione, differenziando così ancora di più le loro condizioni.
La destra al governo si è quindi consolidata, nell’assenza di una reazione politica (in stile 25 aprile 1994) o di una reattività sociale (con un reale sciopero generale contro la legge di bilancio, se non proprio con una risposta in stile 23 marzo 2002). Sul piano elettorale, i diversi appuntamenti di questi mesi hanno confermato la sua forza, nel quadro comunque di un’astensione dilagante (Lombardia, Lazio, comunali di maggio, Molise). L’astensione diffusa, cioè, è un segnale della disorganizzazione della classe e del profondo arretramento della coscienza politica, più che una presa di distanza dall’attuale gestione del potere. La destra riesce comunque a raccogliere consensi oltre il suo classico blocco sociale (ceti professionali e classi intermedie), anche nelle classi subalterne (non solo a Catania o Latina, ma ad esempio anche a Terni, Siena, Pisa o Massa). Un segnale colto subito dal governo, che proprio nella primavera ha stretto il suo controllo sugli apparati dello stato (commissariamento INPS e INAIL, occupazione della RAI, confronto con la Corte dei Conti) e delineato i passi successivi della sua presa del potere (autonomia differenziata, revisione costituzionale su premierato o presidenzialismo, costruzione di un blocco conservatore e popolare in grado di conquistare la UE con le elezioni dell’anno prossimo). Nonostante le evidenti contraddizioni in questo percorso (la tensione con Salvini; i conflitti con Giorgetti e il fronte europeista sul MES; la morte di Berlusconi ed i rischi di sfaldamento parlamentare; i contrasti con il fronte di Visegrad sull’immigrazione), cioè, la Destra esce oggi più salda nella conduzione delle sue politiche, proprio perché non ha reali alternative né nelle aule parlamentari (dove l’opposizione è divisa), né nelle piazze (dove è ancora assente una mobilitazione di massa).
La primavera, però, ha portato qualche controtendenza. Il 27 maggio, ad esempio, si sono tenute diverse iniziative nel paese. A Torino un ampio corteo regionale (7/8mila i partecipanti reali) in difesa della sanità pubblica, promosso dalla CGIL ma anche da decine di associazioni e comitati, che ha visto in piazza anche sindacati di base (come la CUB). A Bologna una partecipata assemblea popolare in piazza (oltre i mille, quasi 2mila i presenti), che ha visto un’ampia convergenza contro la crisi climatica e il modello emiliano di gestione territorio (a partire dal patto per il lavoro e il clima, sottoscritto anche dalla CGIL): associazioni ambientaliste, centri sociali, organizzazioni della sinistra e dell’estrema sinistra, con un appello per una manifestazione nazionale. Nelle stesse ore, a Roma si è tenuta una manifestazione per il reddito, promossa da associazioni, centri sociali, movimenti, circuiti autorganizzati, strutture CGIL, con la partecipazione anche di sindacati di base, che ha visto in piazza 2/4mila persone. Quella mattina, sempre a Roma, la CGIL ha tenuto al centro Frentani un’assemblea con diverse associazioni, comitati e coordinamenti, che ha prodotto un appello per due cortei il 24 giugno (per la sanità pubblica) e il 30 settembre (contro l’autonomia differenziata): cioè, per la prima volta da diverso tempo la CGIL ha avviato un percorso nazionale aperto, una coalizione sociale di fatto, e soprattutto ha voluto farlo sulla questione dell’autonomia differenziata, arrivando a costruire quella manifestazione nazionale che da tempo chiedevano i Comitati contro ogni autonomia differenziata.
Questi diversi appuntamenti, cioè, si sono qualificati in modo diversi e con protagonisti diversi sul terreno della convergenza, segnando anche una piccola ripresa della partecipazione. Oltre le piazze separate, oltre le convergenze parallele, oltre gli scioperi separati e contrapposti degli ultimi anni. Pur nella loro parzialità, nella dimensione limitata che li ha caratterizzati, nella loro contemporaneità (e quindi nel parallelismo di quei diversi percorsi), ha iniziato a mostrare un’assunzione di responsabilità collettiva: su sanità, crisi climatica, reddito di cittadinanza (cioè contrasto a povertà e iper-sfruttamento), autonomia differenziata ha visto muoversi nelle stesse piazze settori sociali, politici e associativi diversi, strutture CGIL e sindacati di base, in una reale dinamica di fronte unico (seppur ancora incapace di generalizzarsi e, soprattutto, di assumere reali dimensioni di massa). Comunque un passo in avanti, intrecciato in questo mese all’onda dei Pride (da Roma a Milano), che pur collocandosi su un piano molto più generale e generico, evidenzia una disponibilità di massa alla mobilitazione per riaffermare diritti e identità, anche in contrapposizione alla cultura e all’azione del blocco reazionario (che inizia ad agire contro carriere alias, pillola gratuita e diritti lgbtq). Questi segnali sono anche indicativi del malessere che comunque si muove sotto il pelo dell’acqua dell’attenzione mediatica, non solo sul piano dell’immaginario e dell’evocazione politica, come mostrato delle accampate degli studenti universitari, con un ampio consenso ma una scarsa partecipazione (ed un’evidente competizione fra le diverse organizzazioni che le promuovevano).
Alle spalle di questa ripresa di convergenza, ci sono tenui segnali di conflittualità di classe. Non sono solo gli aspri scioperi della logistica (come quelli sul rinnovo Fedit in SDA, BRT e GLS o di Mondo Convenienza), non solo la continua resistenza GKN e di altre fabbriche occupate, non solo gli scioperi a ripetizione dei macchinisti cargo, ma come abbiamo visto la vertenza vittoriosa del CCNL del legno, quella delle TLC o di Trenitalia. A maggio abbiamo visto ranche riprendere la lotta alla FIAT/FCA/STELLANTIS di Pomigliano d’Arco: il 10, 11 e 12 maggio si è tenuto uno sciopero prolungato nei reparti contro gli elevatissimi ritmi di produzione imposti dall’azienda. Dopo le elezioni RLS di aprile, un segnale di riattivazione in uno degli stabilimenti storici della classe operaia italiana, confermato dallo sciopero degli straordinari di sabato 27 maggio (colpisce, in fondo, che la FIOM riprenda a fare gli scioperi in FIAT, dopo che proprio su queste iniziative si consumò lo scontro con i delegati/e del Sindacatounaltracosa nel 2016), e da piccoli segnali di risveglio a Termoli ed Atessa. In questo quadro, il 7 e 10 luglio si terrà lo sciopero generale di 4 ore dei metalmeccanici (il 7 al nord, il 10 al centro sud): uno sciopero di avvertimento, al piede di partenza del nuovo rinnovo del contratto e nel quadro delle ristrutturazioni industriali in corso, che appunto segnala la ripresa di un possibile protagonismo operaio.
Questi segnali devono però esser colti, coltivati e generalizzati. Sia quelli che mostrano un incipiente nuova partecipazione e conflittualità, sia quelli che mostrano possibili convergenze, lo sviluppo di vero e proprio fronte unico di massa e di classe. Appunto perché ad oggi sono solo segnali, indicatori di possibili controtendenze, che possono facilmente esser travolti dalla dinamica dominante. La manifestazione a Bologna dei 10mila stivali contro crisi climatica, tenutasi il 27 giugno, ha visto una partecipazione di circa 1.500 persone, praticamente quella dell’assemblea, non riuscendo quindi ad innescare un percorso di massa. Il primo corteo deciso dalla CGIL e dalla sua nuova coalizione sociale, quella del 24 giugno sulla sanità, ha portato a Roma intorno alle 10mila persone (in sostanza, tutte della CGIL), mostrando una difficoltà sia da allargare il campo della mobilitazione, sia a estendere la partecipazione alle iniziative di piazza. Il 24 giugno Roma ha visto anche un corteo dell’opposizione politica e sociale contro il governo Meloni, animato in particolare da Unione popolare e USB, che ha comunque visto in piazza altre 5/6mila persone. Le iniziative contro l’autonomia differenziata si moltiplicano nel paese, spesso per iniziativa o con il contributo della CGIL (in particolare al sud, come a Bari a febbraio e a marzo, a Caltanisetta o Cosenza), ma al nord l’attivazione fatica ad innescarsi, anche dove c’è la convinzione (ad esempio nella FLC di Torino, che ha organizzato assemblee e partecipato al percorso di mobilitazione con comitati, associazioni e altri sindacati, con una partecipazione ancora limitata, 100/200 manifestanti). O ancora, se la CGIL Piemonte è stata capace di costruire un ampio fronte sociale sulla salute, ha nel contempo portato quel percorso a sfociare su un tavolo con la Regione insieme a CISL e UIL, sostanzialmente esterno a quel percorso ed allo sviluppo stesso della mobilitazione. Così, si conferma la tendenza a costruire convergenze prettamente funzionali ai propri percorsi di organizzazione, come l’abitudine del gruppo dirigente CGIL a piegare la dinamica di mobilitazione alla trattiva concertativa, anche quando questa sia oltre le reali possibilità.
Siamo di fronte ad una lunga estate. Probabilmente molto calda e socialmente vuota. Il rischio che queste piccole controtendenze ne siano sostanzialmente soffocate è quindi evidente. In ogni caso, il prossimo autunno sembra che non sarà immobile. Alcuni sindacati di base hanno programmato uno sciopero della logistica a metà settembre ed uno generale a metà ottobre. La CGIL probabilmente porterà le iniziative di questi mesi a sfociare in uno sciopero generale, forse insieme alla UIL all’inizio di autunno. Non si può neanche escludere ulteriori sviluppi, con altri scioperi a ridosso della legge di bilancio. Mentre la dinamica dei rinnovi contrattuali, a partire da pubblici e metalmeccanici, potrà estendere lo scontro sociale. Così come potrà esser che le iniziative primaverili degli studenti sulla questione degli affitti e delle tasse sviluppino una mobilitazione più partecipata. Il rischio però di riprodurre le convergenze parallele, la dispersione e la contrapposizione dei percorsi di lotta, rimane alto. A partire dalle divisioni sulle date degli scioperi generali (che potrebbero esser più efficaci nello sviluppare la lotta, se condotti nella stessa occasione anche su piattaforme e iniziative differenti).
Per questo, le fiammelle che abbiamo visto brillare in questa fine primavera devono esser protette, coltivate, alimentate, diffuse. La campagna sul salario minimo (sostenuta dalla legge di iniziativa popolare partita in queste settimane, come dalla dinamica politica del confronto parlamentare), la rivendicazione della difesa del salario di fronte all’inflazione e della difesa del salario globale di classe (contro l’autonomia differenziata, ma anche per la sanità pubblica, l’accesso libero e gratuito alle università, una scuola superiore non focalizzata sugli immediati bisogni di impresa), saranno quindi i terreni su cui impostare, salvaguardare, sviluppare un reale fronte unico, di massa e di classe. Perché è l’esperienza concreta di lotta, la pratica unitaria a partire da questioni parziali e immediate, che può permettere di sviluppare la coscienza e l’organizzazione di classe necessaria a radicalizzazione l’iniziativa: solo la prassi concreta del conflitto, cioè, permette di collegare autorganizzazione di classe e progetto politico di trasformazione della società.