La complessità della realtà, la costruzione di uno schieramento internazionalista e classista, le contraddizioni di un’interpretazione avanguardista e dottrinale.
L’invasione russa dell’Ucraina e il suo imprevisto impantanamento militare hanno aperto una nuova fase delle vicende mondiali, mentre la pandemia covid19 non ha ancora ritirato la sua cupa ombra dal globo. Al di là del significativo impatto della guerra sull’economia, che ha esacerbato tendenze inflattive e squilibri comunque già avviati dal rimbalzo dell’ultimo anno ed inscritti nelle dinamiche della Grande Crisi, il conflitto ucraino ha reso evidente il precipitare della competizione capitalista, con la strutturazione di aree monetarie, economiche e politiche intorno ai principali poli continentali ed il loro reciproco attrito. Una dinamica esplosa in Europa, dopo il collasso statunitense in Afghanistan, ma che è altrettanto surriscaldata sul fronte del Pacifico, dove si contrappongono direttamente i due principali imperialismi (USA e Cina).
L’evidenza delle tensioni e delle precipitazioni interimperialiste è il dato politico dominante di queste settimane. Lo è nelle cose: in primo luogo nella sua stessa dinamica militare (una guerra aperta tra stati che hanno centrali nucleari; uno scontro diretto tra eserciti moderni; un’invasione incompiuta che si prolunga nel tempo definendo nuovi schieramenti proprio in ragione del conflitto) e nel sostegno NATO all’esercito ucraino contro la seconda potenza nucleare del pianeta, come più in generale nelle inedite e massive sanzioni, nella profonda frattura tra Unione Europea e Russia, nel riarmo tedesco e quindi poi europeo, nel rilancio della NATO (su Svezia e Finlandia, ma anche nell’ipotesi più allargata di un’alleanza globale), nell’avvio di un’economia di guerra e persino nella riapertura ad ipotesi di un rilancio federalista europeo. Questo è il dato politico dominante, in modo altrettanto rilevante, nella coscienza di massa: la guerra è cioè uscita da quella dimensione circoscritta a cui sembrava relegata negli ultimi decenni, con il ripetersi di interventi neocoloniali (in Medioriente, Asia e Nordafrica), spesso di controguerriglia e controterrorismo (vedi Al-Qaeda e ISIS), o il succedersi di conflitti limitati nelle periferie del mondo (Congo, Somalia, Etiopia, Sahel, Yemen). La guerra ha assunto invece nuovamente materialità di una tendenza del presente che coinvolge tutti e tutte, il profilo di un evento che mobilita l’intera società.
La guerra, cioè, torna ad essa una vicenda delle masse. Dopo la Grande Crisi, nel disastro ecologico rivelato da surriscaldamento e pandemia, diventa cioè un fattore che attiva, forma e organizza coscienze e immaginari diffusi. Si spalancano così le porte alla paura di una radicale messa in discussione delle attuali condizioni di sicurezza e di vita, che potrebbe da una parte rilanciare processi di nazionalizzazione di massa (approfondendo e strutturando cioè gli attuali movimenti reazionari e le attuali tendenze bonapartiste), dall’altro riaprire gli spazi ad una prospettiva rivoluzionaria di trasformazione dell’attuale stato di cose presenti (per l’ulteriore perdita di egemonia delle classi dominanti, la cancellazione di ogni illusione sulla regolazione capitalistica dei conflitti, l’evidenza degli stretti rapporti tra modo di produzione, crisi e guerra). La guerra, cioè, come sempre amplifica le tendenze inscritte nel presente, in una direzione o nell’altra: la diffusione delle barbarie attraverso la competizione internazionale e lo sviluppo di nazionalismi contrapposti; il possibile ritorno nelle masse di una prospettiva di superamento di questo modo di produzione, che deve però ritessere la trama di un progetto transitorio, socialista ma oggi anche inevitabilmente ecologista.
Posizionarsi rispetto a questo conflitto, allora, non è una scelta dottrinaria. Il compito cioè non è geometrico, non è semplicemente quello di applicare una teoria al caso concreto, calare nello specifico principi generali, assumere la posizione corretta secondo un’astratta impostazione marxista rivoluzionaria. Invece, proprio alla luce di un impianto teorico (l’analisi dei rapporti di produzione, la considerazione della dinamica ineguale e combinata, l’indipendenza di classe, la prospettiva rivoluzionaria) è importante comprendere questa fase, capire le complesse relazioni tra le diverse componenti di questa guerra (consapevoli che in ogni guerra corrono diversi conflitti politici e sociali), individuarne i tratti dominanti e le possibili linee di frattura, rapportarsi ad esse per trasformare la realtà, contro la mobilitazione nazionalista. Consapevoli che mentre le barbarie corrono sulle gambe dei movimenti e degli immaginari reazionari cresciuti nell’ultimo decennio, la prospettiva socialista è oggi rattrappita dalla disorganizzazione di classe e dalla marginalizzazione della sinistra (rivoluzionaria, centrista e persino riformista).
Larga parte della sinistra, infatti, è impreparata, confusa e divisa. Certo, in prima luogo, è sbandata la sinistra liberale e riformista europea. Il conflitto ucraino ha infatti travolto quella prospettiva di una regolazione stabile, democratica e multipolare delle relazioni internazionali che era cresciuta con la seconda globalizzazione. La fine della guerra fredda, la nascita dell’Unione Europea, l’indebolimento degli USA e il consolidarsi di strutture internazionali (G20, WTO, FMI) avevano infatti sostenuto l’ipotesi che una moderazione e un controllo delle tendenze alla guerra di questo modo di produzione fossero sospinte dalla stessa crescita delle forze produttive, con la diffusione e la strutturazione del mercato mondiale, la formazione di organismi internazionali e lo sviluppo di un diritto sovranazionale. Una grande illusione (come il libro di Norman Angell del 1909, in cui lo strutturarsi di un commercio mondiale si pensava che avrebbe impedito ogni grande guerra) che era vissuta anche nel movimento per la pace, con gli accordi di Oslo sulla Palestina, le mobilitazioni contro le guerre balcaniche e quelle di Bush: si era cioè creduto che l’attivazione di una società civile, quella che è stata definita una vera e propria potenza mondiale, fosse in grado di sostenere questa nuova configurazione e regolazione delle relazioni internazionali, nell’ambito delle attuali dinamiche produttive. Questa impostazione di governo e di movimento è oggi messa in discussione dagli eventi, dopo esser stata minata dalla Grande Crisi, il ritorno dei nazionalismi, la Brexit, le politiche di Trump e le tensioni con la Cina (proseguite anche con Biden). Sono quindi emerse derive e fratture: il colpo di tuono ucraino, infatti, ha rapidamente arruolato nella mobilitazione continentale larga parte delle componenti politiche e governative, ma in particolare in Italia ha spinto una parte significativa del movimento per la pace a radicalizzare un’impostazione sostanzialmente antimilitarista e disfattista (come nella piattaforma iniziale del 5 marzo: il contrasto all’invasione Russa e all’allargamento della NATO, il rifiuto dell’invio di armi, la solidarietà a lavoratori e lavoratrici russi e ucraini contro la guerra).
La sinistra stalinista e neocampista (quella cioè che ritiene cioè gli USA un superimperialismo dominante e sostiene quindi ogni soggetto, blocco o campo ad essa antagonista, per rompere questa egemonia), invece, non risulta esser messa in discussione dal conflitto ucraino. Certo, come tutti è sorpresa dalla profondità ed aggressività dell’iniziativa russa, in qualche modo in difficoltà a sostenere apertamente l’invasione. Questi settori oggi giocano quindi soprattutto in rimessa, con una contropropaganda sul conflitto e le sue motivazioni, la contestazione della NATO e del clima di mobilitazione nazionale (vedi ad esempio Marco Rizzo). Però proprio la dinamica del conflitto, l’ampio coinvolgimento NATO, il clima internazionale confermano e consolidano la scelta di schieramento di questi soggetti, tanto più in quelli che guardano alla Cina come struttura non ancora completamente capitalista e quindi come possibile campo alternativo agli USA. Al di là di alcuni toni revanscisti a supposte continuità con tradizioni sovietiche (francamente ridicoli e marginali, sebbene caratteristici), queste posizioni confermano la tendenza di larga parte di queste correnti a porsi da un’altra parte rispetto agli interessi di classe: anzi, proprio la dinamica interimperialista che si sta sviluppando li porta a focalizzarsi sulla dimensione geopolitica delle attuali contraddizioni capitaliste, arruolandosi di fatto in uno degli schieramenti in campo (vedi ad esempio il bollettino di Sinistrainrete). Certo, questo non avviene per tutti allo stesso modo: soprattutto, una parte significativa del mondo stalinista (comprese realtà come il KKE greco o il Partito Comunista Sudafricano) si è sostanzialmente smarcato da questa impostazione, riconoscendo la natura imperialista del conflitto sia da parte NATO sia da parte Russa (ancor più netto il Fronte della Gioventù Comunista, nel solco della propensione classista che questa organizzazione ha assunto nella rottura con Rizzo). Certo, in Europa queste componenti sono molto limitate se non marginali (ad eccezione di alcuni paesi, come Portogallo e Grecia): in Italia mantengono una presenza nei settori attivisti e militanti, con qualche limitata proiezione elettorale, ma in una quadro scomposto e diviso (PC di Rizzo, settori PCI e PRC, settori di PaP e USB, FGC).
Ad esser sbandata, in secondo ma non secondario luogo, è allora la sinistra classista, internazionalista e rivoluzionaria. A pesare non è solo la moltiplicazione delle soggettività e dei circuiti, in particolare sul piano internazionale, o la loro debolezza politica e organizzativa nel quadro del generale arretramento della classe lavoratrice. Certo, questi elementi soggettivi pesano: un primo obbiettivo della stagione dovrebbe in ogni caso essere quello della convergenza, costruendo iniziative, appuntamenti e percorsi comuni, sul piano nazionale e su quello internazionale, per cercare di coordinare posizioni e interventi, facendole impattare nella coscienza di massa. Il problema principale, però, è che larga parte di questi soggetti sono stati sorpresi dagli eventi. La Grande Crisi si è innescata quasi quindici anni fa: da allora abbiamo visto l’evidente emersione di una Cina capitalista con propensioni imperialiste (senza le quali la Russia non avrebbe potuto contare sulla profondità economica e strategica per attivare un suo intervento in Siria, in Libia e in Europa), come abbiamo avuto esperienza dei conflitti mediorientali (Siria, Iraq-Isis e Rojava), assistito al crollo afghano, registrato lo sviluppo di politiche nazionaliste con Trump, Modi e Xi Jinping. Nell’ultimo decennio, cioè, erano maturate le condizioni per la precipitazione di queste settimane: eppure, larga parte della sinistra classista e internazionalista non ha sviluppato un’analisi ed un’elaborazione adeguata, tanto meno ha attivato percorsi di rilancio della propria iniziativa internazionale. In questo quadro, la linea di frattura intorno al quale corre un possibile sbandamento è la differenza di valutazione sulla natura prevalente del conflitto, interimperialista o di autodeterminazione. Nel dibattito internazionale è emersa ad esempio la discussione nel Segretariato Unificato (con una risoluzione dell’Ufficio esecutivo approvata per un voto, con larga parte delle organizzazioni europee contrarie, per il sostegno alla resistenza ucraina). Nel dibattito italiano è emersa in queste settimane la posizione assunta dal Partito Comunista dei Lavoratori, con due interviste al suo portavoce su Repubblica e su Radio radicale. In particolare sulla seconda, al di là delle posizioni espresse, ci pare di registrare alcune cadute di stile.
Ad esempio, in entrambe ci si sofferma sul rossobrunismo. Ora, indubbiamente nell’ultimo ventennio sono vissuti esponenti e piccole correnti di questo tipo, che in parte si sono qualificate proprio intorno alla politiche di potenza della Russia. Le posizioni rossubrune, infatti, sono quelle che intrecciano un impianto anticapitalista, ed in particolare antimperialista, con impostazioni nazionaliste e comunitariste che originano da alcune tradizioni dell’estrema destra (come Julius Evola e Jean Thriart). Così, in Russia negli anni novanta si è rinnovata una tradizione nazionalbolscevica (vedi Ernst Niekisch) intorno a Eduard Limonov e soprattutto Alexander Dugin (che ha poi sviluppato concezioni euroasiatiste). Questa impronta in Italia è stata ripresa in particolare da alcune riviste e circuiti dell’estrema destra (Eurasia di Claudio Mutti, Orion, Rinascita nazionale, Italia Sociale e anche alcuni settori di Casapound), che hanno incrociato alcune individualità a sinistra (pensiamo alle evoluzioni comunitarie di Costanzo Preve, al suo allievo Diego Fusaro, alle interlocuzioni di Giulietto Chiesa, ad Alberto Bagnai e la sua entrata nella Lega, ad Ugo Boghetta e il suo passaggio dal PRC ad Italexit di Paragone) o su un altro versante nei primi anni duemila le trasformazioni di Voce operaia, gruppo di matrice trotskista, in Direzione 17 e poi in uno dei nuclei promotori del campo interimperialista, circuito che in nome del contrasto all’imperialismo americano sviluppò legami con settori islamici e appunto comunitaristi. Discorso a parte deve esser fatto per il piccolo gruppo, sostanzialmente romano ma non solo, di Patria socialista (una formazione saldamente antifascista, ma che insegue il nazionalismo estremo con venature arditiste nei toni e nei richiami iconografici). Se tutto questo, nelle sue diverse articolazioni, può esser oggi identificato come un composito e differenziato campo rossobruno, la sua dimensione a sinistra è ultramarginale, senza nessuna capacità di sviluppare una qualche influenza (di massa o di avanguardia), proprio per questa sua contiguità con l’estrema destra. Le posizioni staliniste, nazionaliste e retrograde del PC e di Rizzo, ad esempio, ci pare abbiano altre radici e, sebbene personalmente le ritengo terribili, mantengono ancora una certa distinzione dal rossobrunismo (come in qualche modo evidenzia lo stesso Alessandro Pascale). Accreditare oggi questa corrente come limitata, quando in realtà si tratta di individualità a sinistra e soggettività di destra, rischia semplicemente di prestare il fianco al tentativo (in corso nei media italiani) di schiacciare chi si oppone alla guerra su posizioni filorusse e duginiste, con il doppio effetto di contribuire a screditare le posizioni disfattiste e accreditare posizioni oggi in realtà discreditate nella sinistra.
Ci pare una forzatura anche l’attacco all’ANPI, nell’intervista su Radio Radicale, accusato di non aver avuto il coraggio denunciare apertamente la corsa atlantista al riarmo, per la sua sostanziale contiguità al PD. Questa osservazione, infatti, ci sembra sostanzialmente falsa. Proprio nella spaccatura della sinistra liberale e riformista che abbiamo prima richiamato, l’ANPI ha sostenuto con nettezza una posizione contraria alla NATO e all’invio delle armi in Ucraina, anche al suo recente congresso nazionale. Proprio per questo è stata soggetta sin dai primi giorni ad attacchi diretti, anche da parte di Renzi o di esponenti del PD: oltretutto proprio sul riarmo si è schierata contro il PD e contro il governo Draghi, prima dell’inizio del conflitto ucraino e anche dopo, ribadendo tale posizione al congresso. Si può ovviamente criticare, da sinistra e con diverse motivazioni, i barcanamenti dell’ANPI, le impostazioni pacifiste basate sull’illusione di una regolazione internazionale della guerra, i richiami feticistici ad una Costituzione in realtà contradditoria su diversi aspetti (a partire dalla stessa guerra): ci pare però sostanzialmente sbagliato metterla oggi sotto accusa, su un media interventista, per supposte ambiguità che non ha avuto, perché nuovamente si presta il fianco a chi vuole screditare i soggetti con una proiezione di massa che propongono posizioni disfattiste. Come, infine, ci è parso francamente insostenibile, nei toni e negli argomenti, quel passaggio sul grosso delle truppe di occupazione russe, truppe da macelleria, che verrebbero dalla Siberia, asiatici e altre nazionalità. Le truppe russe stanno sicuramente macellando la popolazione ucraina, come l’esercito ucraino sta infierendo sui prigionieri, anche uccidendoli, come su presunti saccheggiatori. Le barbarie della guerra si dispiegano in questo come in tutti i conflitti. Non sarei però così sicuro che la caratteristica determinante di questa macelleria sia la diversa appartenenza etnica, stereotipo della propaganda di guerra usato in ogni tempo e ad ogni latitudine. Anche quando si basa elementi di verità (e proprio non so se questo è il caso), è esclusivamente diretto a innescare reazioni emotive sull’irrecuperabile barbarietà del nemico, proprio per renderlo a sua volta inumano e quindi giustificare un suo possibile annichilimento.
Il punto fondante di questa posizione del PCL, però, è sostanzialmente espresso in un lungo e argomentato articolo sul sito del partito, con un titolo forse un filo roboante (In difesa del marxismo). In questo articolo, infatti, si presenta e si difende la posizione per cui l’elemento determinante del conflitto sarebbe l’indipendenza nazionale contro l’invasione russa e quindi il sostegno alla resistenza ucraina, compreso il suo diritto ad armarsi. Riteniamo questa posizione un errore. Lungi da ogni sua caricatura o esagerazione (non è il sostegno alla NATO, tantomeno una supposta disponibilità a votare crediti di guerra) è un errore proprio per quello che è: una lettura basata sull’applicazione astratta di principi teorici, che non legge le dinamiche della realtà e, soprattutto, che pone la demarcazione politica come alfa ed omega del proprio intervento di massa. Abbiamo a lungo partecipato alla vita ed alla discussione di questo partito, abbiamo per anni equilibrato le sue tendenze avanguardiste da sempre presenti: oggi che queste si esprimono senza apparenti freni, riteniamo necessario allora segnare le differenze oramai evidenti tra noi.
Come abbiamo sottolineato ogni guerra è molteplice, ogni situazione concreta è fatta di tendenze e controtendenze. Davanti ad una situazione complessa bisogna sicuramente riconoscerne la complessità e le contraddizioni, ma in qualche modo bisogna anche saper definire qual è la sua impronta dominante e quindi scegliere. In questa analisi, inevitabilmente, si commettono errori, non si colgono compiutamente tutti gli aspetti o le dinamiche in corso, alcune delle quali emergono a posteriori non per cambiamenti di scenario (sempre possibili) ma anche ad una diversa comprensione della situazione. Lo abbiamo materialmente visto in Siria, in Rojava, in Afghanistan. Anche per questo ci sembra sbagliato legare così strettamente una specifica posizione politica ad un impianto teorico (in difesa del marxismo: cioè, chi oggi non sostiene il sostegno alla resistenza ucraina non è marxista? O leninista? O comunista rivoluzionario? Forse, quando si conduce una discussione sulle letture della realtà, spesso complessa e contraddittoria, è necessaria meno enfasi, cercando di guardare al metodo delle diverse argomentazioni). Individuare oggi l’autodeterminazione dell’Ucraina come la componente dominante della guerra in corso, per quanto non riteniamo che sia un attacco al marxismo, una posizione insostenibile o filoimperialista, pensiamo sia un errore perché da una parte rischia di prestare il fianco al clima di mobilitazione nazionale per Kiev (come, in qualche modo, nelle interviste sopra richiamate), dall’altra e soprattutto non sostiene lo sviluppo di una coscienza di massa contro la guerra imperialista.
Per argomentare questa posizione in difesa del marxismo, sorprendentemente, si parte da una confusione concettuale: si schiaccia cioè il concetto di guerra imperialista su quello di guerra mondiale. Nel testo infatti si usano espressamente i termini prima guerra imperialista o seconda guerra imperialista al posto di primo e secondo conflitto mondiale. Non è un lapsus (anche se come lapsus sarebbe significativo): è l’idea, come sostenuto nello stesso articolo, che la risultante di contraddizioni interimperialiste su scala mondiale significa perciò stesso…guerra mondiale imperialista, cioè l’inizio della terza guerra mondiale. Non è esattamente così (già una volta, nella storia della Quarta Internazionale, si commise un errore simile: non è il caso di articolarlo oggi in forma diversa). In ogni caso, se ogni guerra mondiale è stata una guerra interimperialista, non tutte le guerre interimperialiste sono state guerre mondiali. Non è questo il luogo per aprire la discussione su quando si è sviluppata la prima guerra imperialista, cioè il primo conflitto per l’affermazione di un’espansione capitalista (alcuni, ad esempio, la collocano nel quadro delle guerre anglo-olandesi, nel corso della rivoluzione industriale e del trasferimento del primo nucleo capitalista dalle Provincie Unite al Regno Unito). In ogni caso, ci furono guerre interimperialiste prima della prima guerra mondiale. Ad esempio, la guerra tra Stati Uniti e Spagna del 1898 fu un conflitto che portò alla creazione dei protettorati a Cuba e nelle Filippine (la prima guerra di espansione USA, come ricordato nei libri di Gore Vidal): è stato lo scippo di un imperialismo nascente su un colonialismo straccione e capitalisticamente marginale, ma sarebbe difficile qualificare la Spagna come nazione oppressa o la sua resistenza come autodeterminazione nazionale. Anche considerando che l’intervento americano fu appoggiato dai movimenti indipendentisti cubani e filippini, che poi però proseguirono contro il nuovo dominatore americano, nelle Filippine con una tragica resistenza di guerriglia che innescò tra l’altro anche il primo movimento americano contro l’imperialismo, con un protagonismo di Mark Twain. Qualche anno dopo la guerra russo-giapponese del 1904/05, lo scontro tra il nascente imperialismo giapponese e la zarismo capitalista, fu un conflitto che non solo ebbe un ruolo determinante nell’innescare la prima rivoluzione russa, ma sull’analisi del quale si avviò la collaborazione tra Trotsky e Parvus attraverso cui fu elaborata la prima ipotesi di sviluppo ineguale e combinato del capitalismo, il primo abbozzo di teoria della rivoluzione permanente. Fu indubitabilmente una guerra interimperialista. Anche i conflitti anglo boeri, in quel periodo, ebbero profili interimperialisti: quelle infatti non furono una semplice guerra di indipendenza nazionale tra i colonialisti boeri e l’imperialismo inglese, non coinvolgendo solo agricoltori e pastori (come può sembrare) ma la Repubblica del Transvaal (che controllava il 50% delle riserve di oro del mondo), con evidenti legami con l’emergente imperialismo tedesco. Così, le competizioni interimperialiste dopo la seconda guerra mondiale furono contenute prima nell’ambito della guerra fredda, poi dalla supremazia militare americana (e in tutto questo periodo dalla deterrenza nucleare). Il punto, però, è che non sempre una guerra interimperialista implica l’immediata dimensione mondiale dello scontro (anche se è non solo possibile, ma persino facile la sua estensione, proprio per l’intreccio di interessi nei mercati mondiali).
Questa confusione è però utile, nell’articolo, per rendere netta la distinzione tra due tipologie di conflitto: da una parte la guerra interimperialista, inevitabilmente mondiale in quanto portato di un modo di produzione mondiale, dall’altra parte una guerra tra una potenza imperialista ed una subordinata, un conflitto limitato ad una guerra di autodeterminazione nazionale. L’errore concettuale è utile cioè a sostenere che, non essendo di fronte allo scoppio della Terza guerra mondiale, lo scontro tra Ucraina e Russia rimane una semplice invasione imperialista contro una nazione oppressa. Così, questa guerra diventa esattamente identica alle altre guerre degli ultimi decenni (e non solo) tra una potenza imperialista (o più) e una subordinata: Turchia 1922, Etiopia 1935, Cina 1937, Argentina 1982, Iraq 1991 e 2003, Serbia 1999, eccetera eccetera.
Non è esattamente così. In primo luogo, ad esempio, ci sarebbe da notare che la guerra del 1999 in Serbia si sviluppa nel quadro di una lunga stagione di guerre di secessione in ex-Jugoslavia (sostenute da diversi imperialismi, in primo luogo tedesco e americano) e fu innescata dalla lotta per l’autodeterminazione del Kosovo. Alla base di quel conflitto, infatti, ci fu quel movimento indipendentista, prima nonviolento e guidato dal LDK di Ibrahim Rugova, poi armato guidato dal UCK. Tant’è che diverse forze della sinistra (rivoluzionaria, centrista e riformista) difesero giustamente il diritto all’autodeterminazione kosovaro (anche se in alcuni casi non colsero il ruolo di borghesia compradora e criminale dell’UCK) e cambiarono posizione, appunto, solo quando la NATO sussunse quella lotta di indipendenza nel quadro delle sue politiche espansioniste. Al di là di quella particolare dinamica, che ha reso evidente come in alcuni casi i movimenti di autodeterminazione possono assumere valenze regressive, il punto che si vuole qui sottolineare è che queste guerre hanno una differenza con l’invasione dell’Ucraina nel 2022: non coinvolgono nel conflitto, in qualche modo, imperialismi contrapposti. La guerra di indipendenza turca fu combattuta sulle spoglie dell’Impero ottomano, tra il 1919 ed il 1923, in primo luogo contro la Grecia (che voleva acquisire Smirne e la Tracia, con popolazioni miste e reciproche pulizie etniche) e quindi il Regno Unito, la Francia e l’Italia (le ultime due, ad un certo punto, si sganciarono, a dimostrazione che le cose son sempre più complesse di quello che appaiono). La guerra di Etiopia del 1935 fu un’invasione coloniale dell’Italia Fascista. La guerra in Cina nel 1937 fu un’invasione espansionista del Giappone. L’Argentina del 1982 fu un conflitto minore per le isole Falkland. L’Iraq fu una doppia invasione americana (la prima volta bloccata, la seconda condotta a fondo). Tutte queste guerre, cioè, hanno visto una potenza (o un gruppo di potenze) imperialiste aggredire una nazione indipendente ed isolata, per espandere la loro sfera di influenza in aree da loro ritenute importanti, ma che non erano sotto controllo o nella sfera di influenza di un altro imperialismo.
La guerra in Ucraina ha un profilo diverso, molto diverso. Il suo territorio corre sul limes dell’Europa, al confine tra due diversi poli imperialisti (quello multiplo dell’Europa e quello Russo, segnato da un capitalismo di rendita, un apparato industrial-militare e una proiezione erede dell’URSS), nell’area di espansione di una NATO a guida statunitense, competitiva con lo stesso consolidamento europeo e diretta a spezzare possibili alleanze euroasiatiche per contenere il suo principale avversario, la Cina. L’intera vicenda Ucraina subisce quindi queste dinamiche e la precipitazione del conflitto oggi è fondamentalmente determinata dalle vicende e dari rapporti fra questi poli imperialisti (le divisioni europee, le sconfitte USA in Medioriente, la crescita cinese e l’alleanza con la Russia, ecc). L’invasione è stata profonda e aggressiva, ma condotta con truppe limitate (180mila uomini per un paese più grande della Francia con oltre 40 milioni di abitanti): al di là della propaganda putiniana, come notato da più di un analista, è evidente che questa non è e non può strutturalmente essere una guerra di annessione (al limite un tentativo fallito di cambio di regime, mantenendo l’indipendenza e l’autonomia del paese). D’altronde i colloqui internazionali prima del conflitto, le recenti trattative di pace in Bielorussia e Turchia, l’intera dinamica militare e politica della guerra hanno al centro l’allargamento della NATO ai confini della Russia o l’esistenza di uno spazio di interposizione, neutrale o influenzato dalla Russia, che mantenga distanti i due blocchi. Il coinvolgimento militare della NATO non è diretto, come sottolineato più volte, proprio per evitare incontrollabili escalation nucleari e il precipitare di un conflitto mondiale che entra oggi negli orizzonti degli eventi, ma è ancora lontano dal suo concreto dispiegarsi. Un conflitto interimperialista cioè non solo non è sempre mondiale, ma proprio nel quadro delle attuali tendenze e della deterrenza nucleare, non può che innescarsi in forma indiretta e bastarda. Nondimeno, le sue dinamiche sono oggi dominanti e sussumono nel loro quadro la lotta per l’autodeterminazione del popolo ucraino (pur in presenza di un’invasione, brutale e schifosa), come quella del Donbass. Perché non si sta difendendo l’indipendenza di un paese, ma l’espansione di un blocco politico-militare (anzi, di due sovrapposti: la UE e la NATO), non a caso proiettando poi questa espansione sulla Georgia e quindi sull’asse centroasiatico.
Lo stesso PCL lo riconosce. Tracciata, in difesa del marxismo, la linea di distinzione tra guerre mondiali e locali, si riconosce infatti che il fine immediato di questa guerra è preservare il … controllo imperialista sull’Ucraina e impedire che essa ritorni sotto il controllo dell’imperialismo rivale. Il suo obiettivo strategico è ampliare il proprio bottino nella spartizione delle zone d’influenza e degli equilibri mondiali contro il blocco imperialista russo-cinese. Si vedono bene cioè tutti gli interessi imperialistici che si affacciano e si intrecciano nello scenario di guerra (cioè si inquadrano le esatte ragioni per cui questa guerra non è, appunto, una semplice guerra di indipendenza ma anzi la sua dinamica è direttamente sovradeterminata dal conflitto tra potenze). La distinzione tra guerre mondiali interimperialiste e guerre locali di autodeterminazione diventa quindi la leva concettuale per affermare che sino a quando non si allargherà il conflitto, fino a quando la NATO non interverrà direttamente con il suo esercito, questa rimane comunque una guerra di indipendenza nazionale contro l’invasione dell’imperialismo russo, solo una guerra specifica tra una grande potenza imperialista e un paese dipendente. Questa miopia porta a sottovalutare quello che pure, poche righe prima, si è visto.
In questo quadro, infine, si definisce allora una posizione contraddittoria. Si afferma infatti che non [bisogna] sostenere l’invio delle armi, denunciando la sua finalità politica, e al tempo stesso [bisogna] rivendicare il diritto dell’Ucraina a usarle, indipendentemente dalla loro provenienza, non boicottando questo diritto. È questa una contraddizione? Si, lo è. Lo sanno, in qualche modo lo rivendicano: è contradditorio caratterizzare il conflitto come guerra di indipendenza nonostante l’evidente scontro tra imperialismi. Siccome però si afferma che la contraddizione è nelle cose, si decide di non scioglierla e la si assume anche nella posizione politica. Da questa analisi discende infatti il sostegno al diritto di difesa e l’alleanza militare con l’Ucraina, nell’opposizione politica a Zelensky (sostegno militare e opposizione politica: una posizione classica del comunismo rivoluzionario rispetto ogni resistenza nazionale ad un’invasione imperialista). Qui, però, si nota qualche sbandamento: se infatti il conflitto ucraino fosse come tutte le altre guerre di autodeterminazione, come si afferma (citando Trotsky su Etiopia o Cina), dovremmo allora fare tutto il possibile per facilitare l’invio di armamenti all’Etiopia [cioè all’Ucraina] nel modo migliore e dovremmo partecipare alla lotta militare sotto il comando di Chiang Kai-shek [cioè di Zelensky], sino a quando sfortunatamente egli dirige la guerra di indipendenza, per prepararne politicamente il rovesciamento. Queste argomentazioni, cioè, dovrebbero portare ad un pieno sostegno militare alla resistenza, pieno (a livello militare e non politico) e quindi con le armi di chiunque. Però, siccome il PCL non mette affatto in discussione l’elemento interimperialista della guerra in Ucraina, non sostiene l’invio delle armi imperialiste (diversamente dall’Etiopia o dalla Cina), anche se in qualche modo (confusamente) non vi si oppone in modo intransigente: nelle discussioni abbiamo infatti visto sostenere pubblicamente che gli ucraini si devono trovare da soli le armi (dove sugli alberi?) o devono strapparle al nemico (cioè devono passare da un confronto tra eserciti ad una guerra di guerriglia?), mentre in altri casi (anche in alcuni passaggi del testo) si fa riferimento ad un improbabile distinzione tra armi di difesa e di offesa. Qui bisogna decidersi: o è una guerra in cui la componente prevalente è interimperialista (e allora, con una posizione disfattista, non si sostiene tout court l’invio delle armi), o è l’autodeterminazione, ed allora non si vede perché opporsi all’invio di armi che sostengano la resistenza (semmai il punto dovrebbe essere quello che sviluppare politiche e formazioni militari autonome dal governo Zelensky). La contraddizione in questo passaggio cioè inciampa, diventa approssimativa e nelle sue affermazioni forse un po’ cialtrona.
Una chiusura: ci si potrebbe chiedere che senso ha l’assunzione di una posizione contradditoria, che (al di là dell’arroganza con cui ogni tanto è dispensata, con gli inviti alla meditazione sul vero leninismo) solleva evidenti perplessità nella sua concreta articolazione (anche al di là delle discutibili interviste sopra richiamate). Credo fondamentalmente uno: demarcarsi su una posizione rivoluzionaria come unica strategia politica di costruzione. La propensione dottrinaria non è cioè solo una postura personale: è rivendicazione di un ruolo di partito, che deve guidare le masse contrapponendosi tanto ai putiniani quanto ai pacifisti. Ora, proprio quando il campo pacifista italiano si spacca e si colloca in parte su una posizione disfattista (piattaforma iniziale del 5 marzo), l’operazione che gioca il PCL non è quella di polarizzare queste dinamiche, ma quella di distinguersi ulteriormente sul lato propagandistico (chi vuole la pace prepara la rivoluzione) e sulle armi (con la resistenza Ucraina per il diritto all’autodeterminazione, perché non siamo pacifisti). Tutto questo è semplicemente la conseguenza di quelle tendenze avanguardiste e autoreferenziali che abbiamo sottolineato da tempo. L’ennesima deriva del PCL che rischia non solo di isolarsi, ma anche di dividere le mobilitazioni contro la guerra e confondere la rivendicazione, il più possibile intransigente e radicale, di una politica disfattista e antimilitarista. Quella necessaria oggi, per rafforzare un’indipendenza di classe nel quadro del progressivo precipitare della conflittualità tra imperialismi in competizione