In Ungheria si consolida la deriva reazionaria, viene sconfitta l’opzione europeista, mentre continua a mancare una presenza politica del movimento dei lavoratori.
Viktor Orbán ha stravinto in Ungheria le elezioni legislative. Per la quarta volta consecutiva il leader magiaro guiderà una compagine governativa decisamente spostata a destra. Il suo partito Fidesz, conquista la maggioranza dei due terzi del parlamento che gli permetterà di modificare la carta costituzionale. Com’è già avvenuto nel recente passato, tale prerogativa gli consentirà di plasmare ulteriormente l’architettura istituzionale del paese. A Budapest sembra non avere più argini il nazionalismo populista con tinte xenofobe e discriminatorie che da tempo imperversa nel paese danubiano. I sondaggi della vigilia che prevedevano un testa a testa con la coalizione avversa sono stati clamorosamente smentiti. Molti commentatori consideravano che un evento imprevisto della politica internazionale, come la guerra in Ucraina, avrebbe potuto mettere in pericolo la rielezione dell’autocrate di Budapest. Non è andata così. Anzi, non solo il blocco sociale raccolto intorno alle politiche nazional-conservatrici di Orbán ha tenuto, ma l’Unione civica ungherese, superando per voti e seggi i risultati delle elezioni precedenti, ha dimostrato di saper esprimere una capacità espansiva del proprio profilo politico. Fidesz si è confermato un “catch all party”, un partito pigliatutto, tendenzialmente maggioritario, ormai ben radicato nelle più diverse categorie sociali e nelle più distanti regioni del paese. Infatti, non solo conquista una nuova porzione di elettorato, ma migliora sensibilmente il proprio score proprio nei luoghi –come la capitale- dove si concentra il voto dell’opposizione. In parte, questo risultato è anche il frutto del sistema autoritario edificato da Orbán in dodici anni di potere. La legge elettorale, concepita con collegi ridisegnati in modo di favorire il partito di governo, e la concentrazione nelle mani degli uomini del premier dei mezzi di comunicazione, ha sicuramente avuto un impatto, ma la vittoria a mani basse dei nazional conservatori non può essere spiegata solo con il modo in cui funziona il sistema di potere ungherese.
La riconferma di Orbán si inserisce in quel processo di ripresa delle ideologie e delle politiche nazionaliste in corso da almeno un decennio; un fenomeno che attraversa ormai gran parte del pianeta, e che in questa porzione dell’Europa centrale mantiene tutt’ora una rilevanza particolare. In questa parte del vecchio continente si sono saldati alcuni tratti comuni, il più appariscente dei quali è l’aperta ostilità nei confronti dei migranti. A questo aspetto si può aggiungere la difesa dell’interesse nazionale, che assecondando lo schema di una presunta contrapposizione tra le “oligarchie” e il “popolo”, alimenta una narrativa che produce un’onda non solo politica ma anche culturale. Un nazionalismo, quello di Orbán, che sul piano economico si è dimostrato maestro nel tenere a bada i conflitti interni, garantire la pace sociale e i profitti degli investitori esteri.
La pesante sconfitta degli oppositori euroatlantici.
Chi ha tentato di competere sul piano elettorale con Orbán è stato letteralmente asfaltato. La multicolore coalizione guidata da Péter Márki-Zay che teneva insieme un arco di forze che andava da Jobbik (una formazione di estrema destra che solo negli ultimi anni ha annacquato la sua impostazione fascistoide) ai socialisti, dai verdi ai liberali, ai centristi è uscita dalle urne con le ossa rotte. Infatti, quasi venti punti percentuali separano Fidesz da Uniti per l’Ungheria, la coalizione che per la prima volta ha raggruppato i i principali partiti d’opposizione. Non è bastata la figura di Péter Márki-Zay, un conservatore cattolico antiabortista, a disarcionare il premier uscente. L’aspirante primo ministro ha persino perso nel suo collegio, un centro rurale ai confini con la Romania, dove nel 2018 era stato eletto come sindaco. Tanto meno è risultato convincente il programma proposto: l’adesione alla NATO e l’indirizzo fortemente europeista e atlantico, volto a ripristinare uno stato di diritto più consono agli standard di Bruxelles non è riuscito a mobilitare l’insieme degli starti popolari della società. Anche quando il tema della guerra si è imposto all’attenzione generale, e il rapporto con Putin è diventato il cuore del confronto elettorale, Orbán è riuscito a volgere a proprio favore la situazione. Prima con un operazione di equilibrismo politico, non ponendo il veto alle sanzioni contro Mosca, ma opponendosi all’invio di armi agli ucraini; e poi rilanciando con forza il messaggio: “se Márki-Zay vince, l’Ungheria sarà coinvolta nel conflitto bellico! I prezzi del gas saliranno! Io voglio pace e sicurezza economica”. Insomma, Orbán si è presentato come il difensore dell’interesse economico e della sicurezza del paese, come colui che tenendo fuori l’Ungheria dal conflitto, avrebbe consentito di aumentare, a prezzi di favore, le importazioni di gas dalla Russia.
Un ruolo e una postura che, in realtà, per l’autocrate di Budapest non rappresentano una novità. Infatti, fin dal suo esordio come leader di Fidesz, Orbán si è sempre presentato come l’uomo forte dell’Ungheria, come l’unico politico in grado di difendere la sovranità nazionale minacciata dalla globalizzazione. In molte occasioni si è scagliato contro l’Unione europea stando ben attento, però, a non rompere i rapporti con essa, perché è consapevole che il suo paese dipende dai contributi erogati dalla U.E. Il leader danubiano, sul piano economico, si è dimostrato maestro nel tenere a bada i conflitti interni, garantire la pace sociale e i profitti degli investitori esteri; il suo partito rappresenta da sempre gli interessi della media ed alta borghesia, quel terzo del paese che negli ultimi dieci anni ha conosciuto una relativa crescita economica grazie ai fondi di coesione stanziati dalla U.E. Sul piano internazionale, invece, Orbán è riuscito a recitare una parte di primo piano; uscito l’anno scorso del PPE è diventato sempre più uno dei principali punti di riferimento dei sovranisti; soprattutto si è reso protagonista del rilancio di un asse politico comune con i paesi dell’Europa centrale. La vicenda della guerra in Ucraina ha per il momento congelato l’intesa politica del quartetto di Visegrad, che per un certo periodo di tempo aveva permesso ai leader nazional populisti di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislavia di superare i particolarismi, parlando con un’unica voce. Infatti, a differenza di quello ungherese, gli altri governi hanno maturato una posizione del tutto diversa rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti di Putin. Il ripristino o la fine di quest’asse politico dipenderà molto dal prosieguo della guerra e dalla sue ricadute economiche e geopolitiche.
A destra della destra.
L’impronta autoritaria, nazionalista e conservatrice ha permeato sinora ogni singolo atto politico e legislativo del sistema Orbániano: ha modificato il codice del lavoro, piegandolo a favore delle imprese, ha respinto la ratifica della Convenzione di Instanbul sulla violenza di genere ed ha emanato norme che impongono il lavoro obbligatorio ai rom disoccupati, vietando categoricamente il vagabondaggio. Assieme alla stretta sui diritti civili, e al razzismo strisciante e apertamente rivendicato l’insieme di queste misure simboleggiano bene la traiettoria di un paese che continua a virare pericolosamente a destra. Accanto alla riconferma dell’immarcescibile autocrate magiaro va segnalato l’ingresso in parlamento di Mi Hazánk Mozgalom (Movimento della Nostra Patria), che con il 6,15% raddoppia i voti ottenuti alle scorse europee. La formazione di estrema destra è nata quattro anni fa, quando alcuni esponenti di Jobbik hanno abbandonato il partito contestando alla sua leadership l’allontanamento dalle sue tradizionali posizioni radicali. Il leader, Laszlo Torockai, già in passato protagonista di spedizioni violente contro gay e migranti, ha contrassegnato la sua campagna elettorale in un senso apertamente reazionario: l’ha aperta commemorando a 65 anni dalla morte, l’ammiraglio Horthy, l’aiutante di campo dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo e ultimo Comandante in capo della Marina austro-ungarica, un militare divenuto prima dittatore e poi alleato della Germania nazista; e l’ha chiusa scagliandosi contro la presunta “dittatura sanitaria” imposta dalle élite sovranazionali. L’affermazione di questa nuova formazione di estrema destra, dai tratti fascistoidi, conferma che all’ombra di Orbán crescono e si diffondono movimenti politici che si contraddistinguono per le marcate venature razziste, xenofobe, antisemite e omofobe. Nel segno del “nazionalismo cristiano”, nonostante la defezione di Jobbik, le destre magiare sembrano destinate a mantenere un rapporto di collaborazione e di competizione. Mentre Orbán tutela gli interessi degli strati alti della società, alla sua destra si affermano formazioni politiche come il Movimento della Nostra Patria che si rivolgono ai ceti impoveriti dalla crisi economica offrendogli di volta in volta un comodo capro espiatorio su cui indirizzare la propria frustrazione: i rom, i profughi, gli ebrei, le istituzioni politiche e finanziarie dell’Unione europea.
Ripartire dalle Lotte.
In questo quadro così fosco, contrassegnato da una deriva reazionaria sempre più accentuata, in Ungheria è del tutto assente una rappresentanza politica del movimento dei lavoratori. Il ciclo di mobilitazioni contro una legge antioperaia varata dal governo alla fine del 2018 (la cosiddetta “legge schiavitù”, che aumentava a 400 ore annuali il tetto degli straordinari consentendo ritardi, anche di tre anni, nei pagamenti), che aveva visto la parziale saldatura con la lotta degli studenti a difesa della libertà accademica, non ha purtroppo sedimentato una coscienza classista diffusa, tale da consentire il germogliare di una nuova istanza politica anticapitalista. Oltre che alla disorganizzazione della classe, fenomeno generale che investe l’insieme del movimento operaio, in Ungheria pesa anche il retaggio del passato. Infatti, dopo la stagnazione del periodo staliniano, alla caduta del muro di Berlino per quasi vent’anni, la scena politica è stata dominata in gran parte dagli ex burocrati, allevati da Kádár, e prontamente riciclatisi in socialdemocratici e convinti sostenitori del libero mercato e della comunità euroatlantica. La metamorfosi della burocrazia, in alleanza con i liberali, non solo ha spianato la strada al nazionalismo reazionario, ma ha anche contribuito a screditare ulteriormente, agli occhi dei lavoratori, qualsiasi espressione potesse richiamarsi al movimento operaio e al socialismo. Per quanto sia difficile, sia in Ungheria che in Europa, occorre ripartire dalle lotte concrete che periodicamente si riaffacciano, per farle convergere in un unico fronte d’opposizione alle politiche dominanti. In un Europa, mai così segnata dalle disuguaglianze, dove cresce la malapianta del razzismo, e tornano a riaffacciarsi gli scenari di guerra, solo un nuova stagione di mobilitazione anticapitalista delle classi subalterne può rovesciare il processo regressivo che da tempo si è avviato.