La guerra in Ucraina, l’Europa e noi.
Il primo colpo di cannone della terza guerra mondiale: in questi giorni, qualcuno può aver pensato che la dinamica del conflitto tra Russia e Ucraina imboccasse questo tremendo cammino, dopo il mancato sfondamento russo, la resistenza dell’esercito ucraino, l’afflusso crescente di armi NATO, gli aerei abbattuti dagli stinger, le battaglie per le centrali nucleari (prima Chernobyl e poi Zaporizhzhia, con esplosioni nello stabilimento), la richiesta di una no-fly zone sui cieli ucraini. Certo, nessuno può escludere un’imprevista catena di eventi: con l’incrudirsi della guerra (l’assedio alle città, l’occupazione russa, la resistenza dietro le linee, le fucilazioni dall’una e dall’altra parte che già si intravedono oltre le nebbie della propaganda) si moltiplicano infatti anche i rischi di incidenti oltre il voluto (il collasso di una centrale nucleare, uno sconfinamento aereo, un massivo massacro di civili che chiama ad un intervento internazionale, ecc). D’altra parte, quando una guerra inizia, è sempre difficile preventivarne la fine.
Questa conflitto, però, non è l’inizio di una guerra mondiale. Queste contese sono infatti il risultato di processi di lunga durata, anche quando sono innescate da un colpo di pistola a Sarajevo (Gavilo Princip poté uccidere l’arciduca Ferdinando per un caso, l’errore di guida di un autista), anche quando sono promosse da una politica espansionistica di un dittatore instabile (sul profilo psicologico di Hitler ci sono oggi infinite fonti). La complessità di questi percorsi sono stati sottolineati sul piano delle relazioni tra potenze (vedi il libro di Cristopher Clark, I sonnambuli), sul piano delle dinamiche economiche (vedi Le conseguenze economiche della pace, pamphlet del 1919 di Keynes), sul piano dell’analisi complessiva delle dinamiche del sistema capitalista (vedi La IV internazionale e la guerra, di Trotsky, che già nel 1934 delineava i percorsi di un nuovo conflitto mondiale). Anche se è sempre difficile leggere il presente, la dinamica degli eventi non sembra oggi esser matura per una diretta contrapposizione tra le grandi potenze o per l’estensione senza controllo di un conflitto regionale che coinvolga in tempi brevi i principali poli capitalisti.
Il punto, però, è che oggi siamo proprio immersi in un processo di progressiva maturazione di queste condizioni. La Grande recessione, più di dieci anni fa, è stato il punto di arrivo di un precedente lungo ciclo, segnato dalla globalizzazione (con il crollo dell’URSS e la formazione di un unico mercato mondiale), l’attacco al lavoro e la diminuzione del salario globale nei paesi a capitalismo avanzato, l’accelerata e massiccia espansione di nuovi poli capitalistici e quindi di una nuova classe lavoratrice in oriente (a partire dalla Cina). La recessione innescata dal crollo dei subprime nel 2006/07 ha quindi aperto una crisi generale e di lungo periodo, come nel 1873 o nel 1929. Il processo di accumulazione è oggi ostacolato da una sovrapproduzione di capitali e da margini ristretti di investimenti profittevoli, con il gonfiamento di bolle finanziarie come temporanea valvola di sfogo (soggette a instabilità e crolli). Le classi dominanti hanno allora messo in azione controtendenze volte a gestire capitalisticamente questa crisi: tamponano le instabilità attraverso il sostegno ai mercati (vedi l’azione delle principali banche centrali, che hanno investito risorse pari a un quarto del PIL mondiale prima della pandemia, oggi per oltre un terzo); provano a ricreare le condizioni di una nuova accumulazione attraverso investimenti pubblici diretti (pensiamo ai diversi new deal e recovery plan dell’ultimo decennio); aumentano lo sfruttamento del lavoro (automazione e intensificazione della produzione, riduzione del salario diretti e di quello sociale). Questa gestione della crisi acutizza quindi le contraddizioni sociali e le competizioni capitalistiche, comprese quelle tra le diverse formazioni sociali in cui è gerarchizzato il mercato mondiale.
Così, la Grande recessione ha sostanzialmente bloccato la globalizzazione, aprendo una stagione di nuovi nazionalismi competitivi. La mancanza di una sufficiente distruzione dei capitali in eccesso, come l’assenza di nuovi spazi di espansione dei mercati, infatti, sospinge i principali poli capitalistici a perimetrare proprie aree di riferimento, in cui da una parte ristrutturare le filiere produttive e dall’altra presidiare mercati di sbocco per le proprie merci. La competizione tra le diverse formazioni sociali, dopo la lunga egemonia americana (un paese di 300 milioni di abitanti e dimensioni macroscopiche), ha assunto sempre più le forme di un confronto tra blocchi continentali, in particolare con l’accelerato sviluppo cinese e indiano (che partono appunto da dimensioni continentali, con oltre 1 miliardo di abitanti ciascuno). Non è un caso che gli ultimi decenni hanno visto la costruzione di aree economiche e monetarie nel Nordamerica (NAFTA) e in Europa (UE), mentre la Cina ha comunque tessuto sui strumenti di proiezione internazionale (come la Banca Asiatica di Investimento o la Regional Comprehensive Economic Partnership). Una dinamica esacerbata da un imperialismo americano declinante, che sempre più mantiene i suoi equilibri e il suo ruolo grazie alla sua influenza politico-militare (pensiamo solo al dollaro ed ai debiti gemelli), come da un imperialismo cinese emergente, sospinto dal suo modello di accumulazione estensivo. In questo quadro, la Grande Crisi (e più ancora la pandemia) ha innescato una ridefinizione della catene globali del valore, che proprio in questi anni si stanno accorciando nel quadro delle proprie aree di riferimento, spingendo così a stringere sempre più blocchi economico-militari contrapposti.
Il surriscaldamento globale e l’emergenza climatica amplificano queste tendenze. L’emersione di una consapevolezza dei limiti dello sviluppo, la scarsità di materie prime e risorse naturali, la necessità di una continua espansione per mantenere l’equilibrio economico dispiegano infatti una competizione stringente per il controllo delle risorse strategiche e lo sviluppo di nuove tecnologie (energetiche, biologiche e alimentari). Inoltre, il superamento di punti di non ritorno nell’accelerazione antropocentrica dei cicli di variazione delle temperature, con l’innescarsi di rapidi cambiamenti climatici in alcune aree del mondo, determina non solo grandi processi di cambiamento geografico ed economico (la trasformazione di condizioni produttive e di vita di interi territori, migrazioni e possibili carestie), ma influenza anche la redistribuzione internazionale del capitale e del lavoro, con nuove gerarchie tra le diverse formazioni sociali. Nonostante ci sia chi ritiene che proprio l’emergenza ambientale e una massiva riconversione verde, nel quadro di una decrescita più o meno infelice, possa esser proprio l’occasione di una distruzione creatrice talmente impattante da riavviare l’accumulazione capitalista, al momento queste dinamiche stanno solo amplificano squilibri e contraddizioni di questa stagione economica, precipitando per l’appunto competizioni e contraddizioni tra i diversi imperialismi.
L’inizio di un tragico cammino. La recente guerra commerciale tra USA e Cina, la formazione di un saliente indopacifico (termine entrato nell’uso comune nell’ultimo decennio per indicare la linea di contenimento USA alla Cina), la corsa al riarmo e l’evidente tensione nel Mar Cinese Meridionale sono allora tutti processi che indicano il recente avvio di una maturazione delle condizioni di un conflitto dispiegato, come possibile esito finale della crisi in corso. Ad oggi, comunque, è solo l’inizio di un cammino, mancando ancora un dispiegamento delle tendenze alla guerra. La Cina, nonostante il suo prorompente sviluppo, nonostante sia oramai consolidata come seconda potenza del pianeta (oltre 13mila mld di dollari di PIL, a fronte dei 20mila degli USA) e possa raggiungere gli USA entro la fine del decennio, ha appena iniziato a dispiegare una sua politica imperialista: sia nel consolidamento di un’area economica di riferimento, sia nello sviluppo di proprie direttrici espansive (vedi la Belt and Road Initiative), sia in campo militare. Gli Stati Uniti, nonostante le sconfitte nelle guerre mediorientali (il disastroso ritiro dall’Afghanistan, l’ambigua configurazione dell’Iraq), mantengono la propria egemonia come superpotenza, a partire da una spesa militare annua di 770 mld di dollari (il 39% di quella mondiale) oltre che con una rete di alleanze politiche, economiche e militari (Unione Europea e NATO; Australia e Regno Unito nel nuovo Aukus; Giappone, Taiwan e India). L’Unione Europea, infine, nonostante i ripetuti tentativi di accelerare il suo processo di integrazione, anche con la Grande crisi e la pandemia (vedi la discussione su Eurobond e bilancio federale), mantiene ancora una molteplicità contradditoria di interessi diversi (come si è visto anche recentemente in Libia o con Nordstream nel Baltico): per questo non ha ancora un impianto istituzionale compiuto, un reale bilancio federale, un unico mercato dei capitali, una politica fiscale integrata e una politica militare unitaria. I tre poli vedono cioè crescere competizioni e tensioni, ma nonostante la trappola di Tucidide che incombe, sono ancora lontani dallo scendere sul terreno dell’aperto scontro tra potenze.
Astra inclinant, non necessitant. Inoltre, parafrasando il famoso detto di Tommaso d’Aquino, l’evidente tendenza all’acutizzazione del confronto interimperialistico è, appunto, una tendenza e non un destino. I processi sospingono il confronto tra potenze, ma su questa realtà agiscono controtendenze ed eventi storici occasionali: l’esito reale può perciò esser diverso dal conflitto dispiegato. In primo luogo, perché le barbarie all’orizzonte (già parte di questo nostro presente per milioni di esseri umani nei paesi in guerra, devastati dalle carestie o soggetti a sfruttamento bestiale) possono esser evitate dall’imporsi di un diverso ordine sociale, una dinamica rivoluzionaria che potrebbe stravolgere queste tendenze (sia avviando un processo mondiale di transizione ad un diverso modo di produzione, sia semplicemente rompendo l’attuale unità dei mercati, imprimendo una diversa curvatura alla crisi in corso). In secondo luogo, perché le guerre totali tra potenze devono oggi fare i conti con le armi termonucleari. Al momento ci sono al mondo 9 potenze nucleari (USA, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele, Corea del Nord), ma altre 25 hanno a disposizione più di un chilo di materiale fissile e quindi la possibilità di svilupparle (tra cui Argentina, Australia, Belgio, Bielorussia, Giappone, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia, Sudafrica, Svizzera, Kazakhistan, Uzbekistan e forse Iran) ed ancora altri 20 potrebbero arrivarci facilmente (tra cui Armenia, Brasile, Ungheria, Indonesia, Messico, Romania, Sud Corea, Turchia, Taiwan e … Ucraina). L’impatto di una guerra nucleare (complessa da circoscrivere, una volta iniziata), la possibilità di una mutua reciproca distruzione (politico/economica e forse universale) sono un fattore che potrebbero rallentare, se non deviare, la tendenza allo scontro (come ha contribuito a contenere la competizione USA/URSS). Anche se, ovviamente, in un mondo multipolare, la complessità aumenta. In terzo luogo, perché la Grande Crisi potrebbe trovare altre forme di risoluzione: ad esempio una barbarie diffusa e trasversale, con ripetuti crolli finanziari e lunghe depressioni; conflitti circoscritti ma di forte impatto, magari anche nucleari (ad esempio, tra India e Pakistan); la precipitazione di un’emergenza ecologica con impatti catastrofici (in termini di distruzione di uomini e di cose) o magari una nuova pandemia, altrettanto contagiosa di quella covid19 ma con tassi di mortalità più significativi; secondo alcuni, si dovrebbe anche considerare la possibilità di innescare un ciclo espansivo intorno all’esaurimento e alla sostituzione delle energie fossili.
Il tuono che annuncia la possibile tempesta. In ogni caso, la guerra russo-ucraina rappresenta un evidente salto di qualità in questo processo di progressiva acutizzazione delle tensioni internazionali. Nel corso della guerra fredda, nel quadro dell’equilibrio tra potenze, sino ai primi anni 90 è progressivamente aumentato il numero di conflitti armati (guerre di indipendenza e civili, circoscritte anche quando coinvolgevano le grandi potenze). Dal 1991 ai primi anni duemila i conflitti sono invece diminuiti, per numero e impatto sulla popolazione, nonostante le vicende in ex Iugoslavia, il genocidio del Ruanda e la guerra continentale africana in Congo. Un processo parallelo alla drastica riduzione della spesa per armamenti (calata del 50% tra il 1989 ed il 1996, poi stabile). L’attacco alle torri gemelli e poi le guerre di Bush hanno aperto una diversa stagione, che la Grande Crisi ha consolidato: le spese militari sono tornate prima al livello della fine degli anni 80 e poi sono aumentate (oggi sono sui 2mila miliardi di dollari annui, sebbene la percentuale sul PIL sia stabile al 2%, la metà degli anni 80 e un terzo rispetto agli anni 60); le guerre sono cresciute di impatto e intensità, sino a coinvolgere nel 2022 diverse aree del mondo (praticamente l’intero Sahel, il corno d’Africa, lo Yemen e la penisola arabica, l’asia centrale). La guerra in Ucraina, però, si presenta diversa da quelle degli ultimi trent’anni: non è una guerra di spartizione in un’area periferica o semiperiferica (come in Croazia, Bosnia, Armenia), non è una guerra civile intrecciata a scontri internazionale (come in Siria, Libia, Etiopia), non ha l’impronta neocoloniale degli interventi in Afghanistan e Iraq, non è la guerra per bande che caratterizza il Mali o il Burkina Faso, non è uno scontro controllato come quelli alla frontiera tra India e Pakistan. Non è nemmeno il Donbass del 2014, che con gli stessi protagonisti si è comunque circoscritto ad un conflitto di confine, per quanto pesante e sanguinoso. Il suo profilo è diverso, essendo un invasione di un paese di oltre 40 milioni di abitanti, in uno stato con centrali nucleari e da parte di una potenza nucleare, con combattimenti aperti tra eserciti, uno dei quali combatte per rivendicare il proprio diritto di aderire all’Unione Europea e alla NATO, sostenuto da armi e supporti della UE e della NATO. Una guerra che evidentemente non è lampo, probabilmente non sarà breve, in ogni caso ha già determinato rilevanti conseguenze economiche e politiche.
Come abbiamo già osservato, ogni guerra è un conflitto molteplice, in cui si sovrappongo, si intrecciano e talvolta si imbastardiscono linee di frattura diverse (sociali, politiche e geopolitiche). Questa guerra, allora, parte da un’invasione russa decisa da Putin (un dittatore che si regge su un blocco oligarchico composto dal complesso militare-industriale russo, interessi finanziari, società energetiche e minerarie), sospinta da evidenti politiche scioviniste e da una volontà di potenza: in gioco è quindi l’autodeterminazione di una nazione storicamente oppressa. Oppressa cioè secoli fa dall’espansionismo feudale del nuovo impero russo, poi dal suo capitalismo emerso nel seno del regime zarista, poi dalla burocrazia sovietica nel quadro di uno stato operaio degenerato ed infine, oggi, dalla nuova Russia capitalista con il suo imperialismo fiacco e straccione, in quanto sospinto più dalla volontà e dal suo complesso militar-industriale che da una necessità strutturale di esportare i suoi capitali e controllare mercati. Nel contempo, in questo conflitto, c’è il Donbass, il diritto all’autodeterminazione di una regione a prevalenza russa, nel quadro di un regime ucraino nazionalista, reazionario e sostenuto da evidenti componenti fasciste, a partire da Piazza Maidan e dal noto Battaglione Azov (anche se le dinamiche nelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk sono più complesse di quelle che appaiono). Nell’Ucraina e nel Donbass ci sono anche tensioni sociali e di classe, tra una struttura capitalista baronale e selvaggia, focalizzata su oligarchi e economie criminali, ed una classe lavoratrice che mantiene una propria organizzazione e tradizione, in particolare nelle miniere, nelle acciaierie e nei porti che a lungo hanno segnato il panorama economico dell’area. Il dato preponderante, che marca questo conflitto è però un altro: l’allargamento della NATO, il rapporto tra Russia e UE, gli schieramenti internazionali dell’Ucraina, come è risultato palese dallo stessa innesco della guerra (lo schieramento militare russo ai confini, le dichiarazioni dei governi e le trattative diplomatiche più o meno segrete degli ultimi due mesi). È cioè soprattutto una guerra di attrito tra aree e blocchi, un conflitto regionale con risvolti sul pianto continentale e macro-continentale (Eurasia), che segna un salto di qualità nella contesa mondiale.
Questo profilo è risultato evidente nella reazione dell’Unione Europea. Il salto di qualità in corso è stato recepito da tutti i governi del vecchio continente. Diversamente dalla Bosnia, dalle guerre di Bush, dalla guerra civile in Libia, l’Unione Europea non ha avuto sbandamenti, defezioni, pluralità di opinioni o di azione. Con l’invasione, cioè quando si è dispiegato il salto di qualità di questo conflitto, si sono subito superate le molteplici linee di frattura dell’Unione (gli interessi tedeschi e Nordstream, le vicinanze di Orban a Putin, la focalizzazione francese sul mediterraneo, le proiezioni italiane ad oriente e in Africa, ecc): sulle sanzioni e il muro economico verso la Russia, sui profughi e la loro immediata accoglienza nei confini dell’Unione, sugli aiuti militari all’Ucraina. La svolta è stata particolarmente evidente a Berlino, dove si è subito chiuso un gasdotto che ha a lungo segnato la sua ostpolitik, inviato inusualmente armi per sostenere la guerra di un altro paese e soprattutto lanciato un piano straordinario di riarmo per 100 miliardi di euro. Si riarma la Germania e si riarma l’Europa. Una dinamica che avrà conseguenze generali: come ha ricordato Draghi nel suo discorso in Parlamento, non solo il riarmo, ma anche le sanzioni e la mobilitazione del paese intorno a questa dinamica segneranno le scelte economiche e sociali dei prossimi anni. Dopo la Grande recessione e dopo la pandemia, questa guerra archivia infatti ogni ipotesi radicalmente liberista e ripone con forza il ruolo e l’azione dello Stato, come coordinatore, organizzatore e gestore collettivo degli interessi dominanti nei contesti di emergenza. Sostiene e accelera, cioè, quel profilo bonapartista che già in Italia aveva assunto il governo Draghi, spingendo in Europa politiche e strutture federali, per stare nel quadro di una competizione mondiale in cui la guerra è semplicemente la continuazione dell’economia, oltre che della politica, con altri mezzi. Al di là dell’immediata reazione unitaria, comunque, sarà da verificare se questa nuova dinamica svilupperà concretamente un rilancio dell’integrazione europea (come si intravede, ad esempio, nella possibile rapida scelta di emettere degli eurobond, dopo anni di infinite discussioni, per finanziare strutture energetiche, oltre che una stagione di riarmo, a livello continentale). O se, al contrario, allargherà le sue crepe contribuendo a produrre nuove fratture, dopo quella con la Gran Bretagna. In questo quadro c’è anche chi accarezza l’ipotesi, nel quadro di un rilancio dell’integrazione europea, che si possa costruire un’Europa sociale nella competizione internazionale, attraverso gli eurobond, un PNRR dalla parte del lavoro, un economia sociale di guerra per aumentare la coesione del continente: in questa svolta, cioè, si pongono anche le basi per lo sviluppo di una sinistra, magari anche laburista, dal profilo esplicitamente imperialista.
Questo profilo è risultato evidente anche nella mobilitazione di guerra in corso in Europa. Con l’invasione russa, la percezione di un salto di qualità è rapidamente penetrata in questo paese e nella UE. L’Italia politica e istituzionale, cioè, si è rapidamente coinvolta nel conflitto e si è sentita entrata in guerra con la Russia: i discorsi di Draghi in Parlamento, l’invio delle armi all’Ucraina, lo schieramento di stampa e tv, le dichiarazioni e i commenti che chiamano inequivocabilmente e imperiosamente al sostegno della resistenza Ucraina. Nel giro di pochissimi giorni tutti i partiti si sono allineati a questo sentimento, anche quelli che avevano evidenti legami con Putin, come la Lega. Questo clima ha rapidamente superato le mura del Palazzo, tracimando nei territori, negli apparati dello stato e nelle istituzioni diffuse, raggiungendo livelli francamente inaspettati, con episodi al contempo emblematici, gravi e ridicoli: pensiamo all’iniziale cancellazione di 4 lezioni su Dostoevskij dello scrittore Paolo Nori all’università Bicocca di Milano (e alle sue assurde motivazioni); la reprimenda pubblica di un docente della LUISS, esperto di politiche internazionali, per aver sostenuto posizioni eterodosse sull’invasione; le dichiarazioni di alcuni sindaci, come Gori o Orlando, che paragonano Putin a Hitler; la sospensione di ogni rapporto di ricerca con la Russia da parte del CNR; la cancellazione dei concerti di Gergiev alla Scala o al Macerata Opera Festival. Un clima, certo, non solo limitato all’Italia: pensiamo alla spostamento della finale di Champions da San Pietroburgo, la rapida esclusione degli atleti russi dalle competizioni olimpiche, la sospensione dall’Eurolega di Basket delle squadre russe, la cancellazione del Gran premio di Formula uno, dei campionati di scacchi e persino dalle competizioni della… Federazione internazionale dei Felini. Certo, una mobilitazione empatica verso le popolazioni che subiscono invasioni e bombardamenti è comprensibile: però oggi si esprime sull’Ucraina con forza e intensità, mentre non si è neanche accennata qualche mese fa per l’invasione Eritrea nella regione tigrina dell’Etiopia (appoggiata dal governo di Adis Abeba) o per la lunga guerra in Yemen. Il punto, appunto, è un altro: lo schieramento nello scontro, una nuova stagione di guerra che coinvolge l’Europa. Un sentimento che sta penetrando anche nella popolazione, la sollecita e la mobilita: pensiamo alle grandi manifestazioni di Berlino e Praga, i monumenti colorati con la bandiera Ucraina, gli interventi dei migranti ucraini alle manifestazioni, le reazione diffuse agli orrori e alla resistenza popolare. È la formazione di un sentimento di massa: l’annuncio che quel sostrato reazionario gonfiatosi nell’ultimo decennio può esser rapidamente inscritto e solidificato in un blocco nazionale, mobilitato nella nuova dinamica dello scontro internazionale.
Il pacifismo è un ostacolo a questa mobilitazione di guerra, ma è anche allo sbando. Negli ultimi trent’anni, a fronte di guerre neocoloniali, civili e di spartizione, il movimento per la pace è cresciuto nel mondo e, in particolare, nei paesi a tardo capitalismo (Nordamerica, Europa, Giappone, ecc). Le guerre in ex-Jugoslavia, la permanenza del conflitto israelo-palestinese, gli interventi in Libano e nella striscia di Gaza, il genocidio in Ruanda e le guerre in Congo, l’invasione americana dell’Afghanistan e nell’Iraq, le guerre civili in Siria, Libia e Iraq hanno strutturato una rete diffusa di associazioni, comitati e realtà territoriali. Una rete che, in alcune occasioni, è stata capace di mobilitazioni rilevanti, come nel 2003 (we are many, la cosiddetta seconda superpotenza). Questa rete è tornata ad attivarsi in queste settimane con l’invasione dell’Ucraina, lo ha fatto per la pace e quindi riproponendo il suo impianto neutralista e nonviolento, che è suonato fuori dal coro e contrastante il clima di crescente mobilitazione per la guerra. Non a caso in questi giorni è sotto attacco: pensiamo a Landini in piazza il primo sabato, all’ANPI, alla manifestazione dello scorso sabato. Nel contempo, proprio il movimento per la pace e il pacifismo che si è sviluppato negli ultimi trent’anni è oggi allo sbando. Riprendendo infatti un impianto nonviolento e, in fondo, liberal socialista (vedi Aldo Capitini e le marce per la pace), consolidatosi contro gli euromissili negli anni 80 (nel quadro del contrasto tra potenze), il pacifismo si è in questi anni focalizzato sulla premessa secondo cui è possibile assicurare la pace con dei mezzi speciali: le relazioni diplomatiche, le mediazioni tra belligeranti, lo sviluppo di strutture sovranazionali attraverso cui risolvere i conflitti (a partire dall’ONU e, se necessario, anche da un suo intervento attivo di interposizione armata). L’idea fondamentale è cioè che attraverso una mobilitazione popolare di massa, senza mettere in discussione questo modo di produzione e neanche gli assetti istituzionali, si possa combattere la guerra e imporre politiche di risoluzione dei conflitti armati. In realtà, l’esperienza storica sia degli anni 80 (la corsa agli armamenti), sia della guerre di Bush, ha mostrato l’illusione di questa strategia, anche se in più occasioni le sue mobilitazioni hanno segnato il panorama politico e soprattutto le sue reti hanno offerto reali canali di solidarietà internazionale (pensiamo ad esempio alla Bosnia, alla Palestina, ad alcune realtà dell’Africa e alle conseguenti migrazioni di massa). Quella strategia era quindi già fallimentare, ma nel quadro dell’equilibrio di potenze, nelle guerre neocoloniali, civili e di spartizione, definiva una prospettiva che appariva realista. La guerra di oggi, in cui è evidente la tessitura di blocchi continentali e la precipitazione di conflitti tra una molteplicità di potenze, rende le organizzazioni sovranazionali imbelli e le prospettive pacifiste di mediazione impraticabili. Di più: l’Unione Europea, vissuta dal movimento pacifista come esempio di integrazione pacifica [occultando la sua funzione capitalista e imperialista], diviene oggi evidente strumento di guerra, nella formazione di un blocco continentale. In questo quadro, allora, il pacifismo ha davanti a sé due strade: quella di diventare strumento di mobilitazione nazionale o quella di radicalizzarsi e diventare strumento di una politica disfattista, contro entrambi gli imperialismi.
Lo abbiamo visto nella discussione di questi giorni della rete pace e disarmo, per la manifestazione nazionale del 5 marzo. La piattaforma di quel corteo, in questo contesto, doveva in qualche modo definirsi su quel crinale: nella prima impostazione lo ha fatto su tre punti precisi (il rifiuto dell’invio di armi all’Ucraina, il contrasto all’allargamento della NATO, il sostegno a chi in Russia e in Ucraina si batte contro la guerra). Proprio questa posizione ha determinato la levata di scudi di chi era inscritto nella logica della mobilitazione di guerra (il PD, la CISL e la UIL in primo luogo). Questa dialettica ha posto in imbarazzo la CGIL (preda delle sue inconcludenze e ambiguità), annacquato sostanzialmente la piattaforma (proprio su quei tre punti) e, alla fine, determinato l’esplicita defezione della CISL (contrastato ogni ipotesi di neutralità). Nonostante la piattaforma, l’esito tutto sommato è stato positivo, perché ha eliminato da quella piazza le componenti più inserite in una logica di mobilitazione di guerra (presenti, sotto i colori ucraini, in tante iniziative nei territori). Quella discussione ha cioè iniziato a tracciare un solco, portando il movimento pacifista a contrastare la logica della mobilitazione nazionale. Lo abbiamo visto nel corteo e in piazza San Giovanni nelle rivendicazioni, nelle bandiere e nella composizione di quella manifestazione: una partecipazione non oceanica ma significativa (probabilmente intorno ai 20mila), in particolare di settori CGIL (Camere del lavoro, FIOM, FILCAMS, FLC), ma anche giovani, studenti, oltre che da quel che rimane della sinistra politica e sociale (ARCI, ANPI e le varie realtà politiche). A lato del corteo e poi in Piazza anche un piccolo spezzone neocampista (intorno alle bandiere di USB e OSA), focalizzati contro NATO e USA (anche se non apertamente a sostegno della Russia), incapaci di leggere il presente perché legati a faglie politiche ed identità di un tempo passato.
La sinistra internazionalista, classista e rivoluzionaria è però debole, divisa e comunque confusa, forse tanto quanto il movimento pacifista. È indebolita nei paesi a tardo capitalismo dalla disorganizzazione di classe, in quella a recente sviluppo dalla giovinezza e l’immaturità politica del lavoro. In Italia, in particolare, è frammentata nelle sue soggettività e sospinta su avanguardismi identitari dalla complessiva marginalizzazione della sinistra politica. Il fronte unico di classe e di massa, in questo quadro, è difficile da sviluppare per le ambiguità e le inconcludenze della CGIL (dimostrati proprio in queste settimane), ma anche per i limiti e le perimetrazioni della sinistra classista (evidente l’assenza del sindacalismo di base e di diverse soggettività dalla piazza del 5 marzo). Oggi anche solo l’ipotesi di uno sciopero internazionale contro la guerra è oltre l’orizzonte degli eventi: quello sciopero generale che è mancato nel 1914 (quando era possibile) ed era un’illusione pacifista negli anni trenta (nel quadro di una sinistra classista organizzata e di massa, con processi rivoluzionari incipienti in realtà importanti come la Germania, la Francia e la Spagna). Questa sinistra è anche confusa da una precipitazione di eventi che in larga parte, in realtà, non si aspettava. Così, di fronte agli sbandamenti del campo pacifista, mostra anch’essa dubbi e incertezze. Se quasi sempre coglie la dimensione mondiale dello scontro (anche per il ruolo della NATO), dall’altra parte si trova di fronte ad un’invasione di un paese oppresso ed è tentata di sostenerne la resistenza. In realtà, negli ultimi decenni abbiamo già visto queste incertezze: pensiamo all’atteggiamento verso il diritto di autodeterminazione del Kosovo e l’UCK (che aveva radici marxiste leniniste), alla discussione sulla configurazione della resistenza siriana, al Rojava. Emblematiche sono oggi le dichiarazioni di aperto sostegno alla resistenza Ucraina contro l’invasione dell’imperialismo russo (come se fosse la resistenza irachena contro le forze americane di occupazione, sebbene poi ci si schieri contro la NATO e contro il suo sostegno alla guerra) o la divisione del Segretariato unificato, che per un voto ha assunto sostanzialmente la stessa posizione, compreso però anche la consegna di armi all’Ucraina, proprio in quanto nazione oppressa invasa da una potenza imperialista.
Allora la guerra in Ucraina è un colpo di tuono che suona la sveglia. Diversamente dal colpo di tuono, però, non sarà breve e, soprattutto, non sarà indolore. Non sarà breve, probabilmente nel suo stesso svolgimento (almeno, a vedere le operazioni militari che si sono susseguite in queste poche settimane, dall’inizio delle operazioni militari lo scorso 24 febbraio), sicuramente nelle sue conseguenze. Questo primo tuono, infatti, è un segnale dei tempi cupi che seguiranno, in cui assume piena attualità la competizione internazionale, la definizione delle aree continentali, il loro possibile scontro diretto. Questo primo colpo di tuono apre quindi una partita il cui esito non è determinato e in cui vissuti, schieramenti, immaginari e prospettive politiche sono in qualche modo ancora aperte.
Prima che la barbarie si dispieghi. Una vittoria (politica o militare) dell’imperialismo russo in Ucraina determinerebbe la subordinazione violenta di una nazione oppressa, il rafforzamento dell’autocrazia oligarchica putiniana (probabilmente anche nel quadro di un blocco continentale con la Cina), la probabile formazione di una nuova Federazione con Bielorussia ed Ucraina, una rinnovata pressione russa sulla Georgia e le altre repubbliche asiatiche, un’ulteriore ma più decisiva sconfitta dell’egemonia USA (accelerando il suo declino politico-economico), una moltiplicazione della pressione all’integrazione e alla militarizzazione europea, una probabile accelerazione della dinamica di scontro mondiale tra blocchi contrapposti. La vittoria della resistenza Ucraina, sostenuta dalle armi Nato ed europee, determinerebbe l’espansione della NATO a oriente, un decisivo logoramento se non un crollo del regime putiniano, la possibile messa in discusso del nuovo legame tra Cina e Russia (aprendo una pressione sulle repubbliche centroasiatiche a schierarsi tra le due potenze asiatiche), l’affermazione di un prospettiva nazionalista e reazionaria in Europa orientale che potrebbe rilanciare i revanscismi di altri paesi del continente, la possibile amplificazione di alcune spinte entropiche nella UE e al contempo il consolidamento delle spinte a una proiezione internazionale e militare dell’Europa (forse rilanciando ipotesi di noccioli duri dell’Unione, a lungo accarezzati dalla CDU tedesca e archiviati negli ultimi anni). Una situazione di stallo, con una lunga guerra o possibili divisioni dell’Ucraina, consoliderebbe nel tempo una trincea tra Russia ed Europa, amplificando da una parte e dall’altra le tendenze a sviluppare politiche di blocco (stringendo l’Unione Europea agli Stati Uniti in una rinnovata politica atlantica, la Russia alla Cina in un blocco alternativo). Tutti questi possibili scenari si svilupperebbero nella devastazione dei territori e della popolazione dell’Ucraina, nel quadro di una militarizzazione sociale in Russia e una mobilitazione di guerra in Europa, con il probabile dispiegarsi di tendenze alla nazionalizzazione di massa, repressione delle soggettività internazionaliste e classiste nel quadro di una progressiva precipitazione della competizione mondiale. Per questo, oggi, è fondamentale assumere, diffondere, strutturare una posizione neutralista radicale, disfattista, diserzionista, contro ognuno degli schieramenti in campo. È importante cioè contribuire a organizzare un movimento di massa contro la guerra e per la pace, proprio per ostacolare e cercare di far deragliare qualunque di queste barbarie.
Un movimento per la pace. Perché come ricordava Trotsky nel 1934, la rivendicazione della pace non è pacifismo (cioè non è l’aspettativa o l’immaginario di una soluzione socialmente neutrale, esterna alle contraddizioni di classe della società capitalista), non è affatto in contraddizione con la formula strategica del “disfattismo”: al contrario, essa sviluppa una tremenda forza rivoluzionaria, soprattutto nel caso di una guerra prolungata, ma anche nella prospettiva di una precipitazione mondiale della conflittualità interimperialista. Questa rivendicazione non ha niente in comune con il pacifismo perché proviene direttamente dalla vita quotidiana delle masse popolari e della classe lavoratrice, che subiscono in prima persone, con la loro carne e il loro sangue, la guerra e le sue conseguenze economiche. La sviluppo oggi, mentre maturano le condizioni di un possibile conflitto mondiale, di un ampio movimento contro la guerra, disfattista, antimilitarista, contro il riarmo e contro le economie di guerra, è allora oggi lo strumento migliore da una parte per ostacolare la precipitazione della guerra, dall’altra per portare questo fronte di massa a trasformare l’eventuale guerra imperialista in guerra civile. Il compito principale, allora, forse oggi non è quello di una diretta propaganda rivoluzionaria di massa (la rivoluzione come unica politica di pace), in sé corretta ma che rischia di esser sganciata dalle stesse dinamiche di massa, apparentemente priva di ogni aggancio con la realtà (in quanto non transitoria). Il compito dell’oggi è quello di accompagnare e radicalizzare un movimento per la pace sbandato ma persistente, nel rifiuto di ogni logica di blocco nazionale o continentale, contro ogni guerra e ogni economica di guerra. Nel momento in cui una guerra mondiale entra nell’orizzonte degli eventi possibili, è forse necessario preparare il terreno di un rifiuto di massa delle barbarie, in cui e su cui innestare e far crescere il progetto politico di un’altra società, la necessità di una rivoluzione.