Attivazioni e fratture: le scuole in piazza tra alternanza, pandemia e disagi.
Venerdì scorso, 18 febbraio, si è tenuta una giornata di mobilitazione di studentesse, studenti e studentu delle scuole superiori. Una giornata chiamata in particolare dai settori più politicizzati e radicali (il cosiddetto movimento della lupa, l’OSA, il Fronte della Gioventù Comunista, i collettivi autonomi o di sinistra), che in qualche modo si proponeva di dare continuità e rilanciare un movimento che aveva iniziato a montare lo scorso autunno e, dopo l’interruzione natalizia e le settimane di picco pandemico, si era riavviato improvvisamente nelle ultime settimane di gennaio.
Nel pomeriggio del 21 gennaio, infatti, è morto in un’officina uno studente in formazione (inserito in un percorso di apprendimento professionale duale), schiacciato da una putrella proprio il suo ultimo giorno in stabilimento. L’incidente, uno dei più di mille che si ripetono ogni anno nei posti di lavoro con esiti mortali, è in sé una denuncia non solo dell’insicurezza nelle aziende, ma anche della condizione di sfruttamento di chi dovrebbe essere a studiare e non a morire al lavoro. Non a caso, per i media come per l’opinione pubblica, Lorenzo Parelli è morto in alternanza scuola-lavoro, cioè nell’ambito di un attività che costringe la scuola a strutturarsi come agenzia professionalizzante, in funzione del mercato del lavoro e delle imprese.
Così, da subito, ci si trovati nelle piazze contro l’alternanza. Domenica 23 gennaio 2/300 studenti, studentesse e studentu del movimento della lupa hanno manifestato a Roma, davanti al Pantheon: quando hanno provato a muoversi in corteo, per andare al Ministero dell’Istruzione, sono stati caricati. Le immagini dei manganelli, il sangue, le voci dei giovani sono subito circolate sui social e sui giornali. Il venerdì successivo si sono moltiplicate le manifestazioni (Torino, Trento, Milano, Roma, Terni, Napoli, Cagliari e Catania): sono stati però cortei e presidi limitati, militanti, con qualche decina o qualche centinaia di partecipanti (nonostante lo sciopero nelle superiori, promosso dal Cobas Scuola, con adesioni molto circoscritte). A Napoli, a Torino la mattina, a Milano nel pomeriggio, si è ripetuta la repressione delle forze dell’ordine: ad attirare l’attenzione è di nuovo il sangue, i manganelli e le giovanissime voci della protesta. Il comportamento della polizia è diventato quindi un caso politico, rilanciando l’impatto delle manifestazioni. Nella settimana successiva, inoltre, il Ministero dell’istruzione ha comunicato la decisione di prevedere per due prove scritte per la maturità, sebbene la seconda definita scuola per scuola: la reazione diffusa è di ansia e protesta. Il 4 febbraio, in reazione, si diffondono le manifestazioni contro l’alternanza e contro questa maturità, a cui partecipano tutte le realtà studentesche (cioè Uds e Rete degli studenti, sia di Lupa, Osa e FGC): a Roma e a Torino sono in piazza in diverse migliaia (3/5mila), anche con qualche tensione tra i diversi soggetti, ma ci sono iniziative anche a Padova, Verona, Firenze, Perugia, Bari, Napoli, Agrigento, Palermo, Genova e Savona, Aosta, Treviso, Perugia, Terni, Messina e altre realtà (anche se, a parte Torino e Roma, gli altri cortei sembrano limitati). In alcuni caso, come a Milano e Bologna, piccoli cortei si ripetono anche l’11 febbraio.
Il 14 febbraio muore sul “lavoro” un altro studente: un 16enne frequentante un altro percorso duale è coinvolto nell’incidente stradale di un mezzo di una ditta termoidraulica, a decine di chilometri dalla sua sede, mentre stava andando a fare un intervento. Due morti diverse ma simili, a poche settimane di distanza, ribadiscono la denuncia dell’alternanza: diviene quindi naturale il rilancio della mobilitazione nelle scuole. L’attenzione si concentra appunto sul 18 febbraio, quando si aprono a Roma gli Stati generali della conoscenza (promossi dal circuito di Uds e Link), e i settori più radicali provano a rilanciare il movimento con una giornata nazionale di lotta.
Le manifestazioni del 18 febbraio non hanno però confermato queste aspettative, per certi versi quel bisogno di mobilitazione che pure sembrava diffuso. Nonostante l’ampia copertura politica e mediatica, nei giorni precedenti e dopo (con la ripresa dei comunicati e dei numeri proposti dagli organizzatori), la partecipazione è stata limitata. Lo sciopero indetto da USB per l’occasione ha avuto ancor meno adesione di quello del 28 gennaio. Uds e Rete degli studenti si sono sfilate e non hanno sostenuto l’iniziativa, nonostante l’oggettiva attenzione sulla giornata. Di fatto si è segnato uno stallo, in alcuni casi un arretramento, rispetto alle dinamiche delle precedenti settimane. A Torino si è tenuto il corteo principale, con alcune migliaia di manifestanti, ma a Roma (dove forse era atteso l’appuntamento principale) sono solo diverse centinaia, con iniziative (con simili dimensioni) a Milano, Pisa, Livorno e Firenze, Trento, Bologna, Napoli, Salerno, Bari, Palermo, Catania, Cosenza (dove si chiude l’occupazione dopo 15 giorni sulle molestie al Valentini-Majorana), Aosta e in Veneto, oltre che probabilmente in altre città che non si è riusciti qui a censire. Nonostante la determinazione e i comunicati, la partecipazione complessiva però probabilmente si aggira su alcune decine di migliaia di manifestanti, forse più sui ventimila che altro (in molte realtà i manifestanti non superano le centinaia, in alcune occasioni le decine).
Le difficoltà a generalizzare le lotte, ad estenderle nei territori e a sviluppare dimensioni di massa, è un dato del presente. È il risultato di una frammentazione che ha radici profonde (nel tempo e nella struttura del paese), con un arretramento della coscienza e dell’organizzazione di classe, una de(s)composizione del popolo di sinistra, una marginalizzazione della sinistra. Per ricomporre le soggettività e sviluppare i movimenti è importante non occultare questa difficoltà, confinandosi in una dimensione di avanguardia o puntando ad una rappresentazione virtuale della protesta, in cui numeri e impatti vengono trionfalmente lievitati sino a moltiplicarsi oltre ogni limite. Perché così, appunto, si rischia di perimetrarsi nei propri immaginari, perdendo di vista proprio la dinamica reale che si sta sviluppando.
La ripresa di una mobilitazione studentesca nel corso dell’ultimo anno, dopo la lunga interruzione dovuta alla pandemia, è comunque significativa, non era scontata, ha dovuto superare le solitudini dentro istituti e in città in cui i rapporti politici e sociali sono stati a lungo rallentati o congelati. Queste dinamiche relazionali hanno impattato con forza nelle scuole superiori, dove la rete di attivisti strutturalmente si rinnova molto velocemente. Negli ultimi anni, inoltre, le mobilitazioni delle giovanissime generazioni si sono sviluppate in forme fluide e occasionali, spesso legate ad eventi (Friday for Future, pride, nonunadimeno, ecc), facendo quindi fatica a strutturare forme e percorsi in grado di svilupparsi nel tempo. Eppure, sin dallo scorso autunno, studenti, studentesse e studentu erano tornati ad esser protagonisti di mobilitazioni, cortei e occupazioni.
Il movimento della lupa, infatti, non nasce ora, ma emerge già lo scorso anno. A Roma si era sviluppata in autunno un ondata di occupazioni che è arrivata ad interessare una cinquantina di istituti: partite sin dai primi di ottobre al Rossellini, focalizzate contro la DaD e la gestione della pandemia, si sono progressivamente estese ad altri istituti (Pilo Albertelli, Ripetta, Manara, Visconti) e quindi nei diversi quartieri. Queste agitazioni hanno raggiunto la massima estensione a metà dicembre, sfociando in un corteo di diverse migliaia di partecipanti. Le occupazioni non si sono limitate a Roma: sono segnalate infatti anche a Pisa, in più occasioni, Catania, Firenze (Rondolico e Calamandrei), Latina, Viterbo, Caserta e altre realtà. Il 19 novembre, si è poi tenuta una giornata di mobilitazione nazionale (questa volta chiamata da Uds e Rete studenti medi), con una partecipazione estesa anche se senza manifestazioni significative: a Roma (qualche centinaio di manifestanti), ma anche a Torino, Milano, Como, Verona, Firenze, Lucca, Pescara, Pomezia, Salerno, Cagliari e ovviamente altre città.
Le stesse mobilitazioni di gennaio e febbraio si sono rette su un nuovo ciclo di occupazioni e autogestioni, in modo particolare a Torino, dove sono coinvolti più di una trentina di istituti (non a caso il 18 febbraio lì c’è il corteo più significativo), ma anche a Milano (dove risultano occupati Bottoni, Parini, Carducci, Manzoni, Tito Livio, Volta, Severi, Russel, Vittorio Veneto, Beccaria e altri), a Livorno e a Napoli. Anzi, a Milano due istituti (il Cremona-Zappa e il Boccioni) sono stati occupati dopo il corteo del 18 febbraio. A dimostrazione che i percorsi e i radicamenti di questo ciclo di mobilitazioni sono comunque al di là della semplice partecipazione ai cortei.
Il quadro delle mobilitazioni e la loro dinamica, quindi, sembra delineare i primi passi di un movimento, certo ancora limitato ma che in qualche modo capace di una persistenza, di sviluppare un filo dalle prime iniziative dell’autunno a quelle di questo febbraio. Una capacità che colpisce, a fronte dell’assenza di ogni sussulto nelle università (dove pure non mancherebbero le ragioni di un’attivazione, per la radicalizzazione dell’autonomia con pandemia e PNRR o per il rilancio del precariato con il recente disegno di legge sul pre ruolo), come delle difficoltà delle iniziative più generali di mobilitazione e protesta (la marginalità e le divisioni dello sciopero dell’11 ottobre, l’esiguità del corteo contro il G20 a Roma, l’occasionalità dello sciopero CGIL del 10/16 dicembre, la perimetrazione di molti percorsi dispiegati in questi mesi). Certo, questo inizio di movimento appare fratturato, nei diversi territori (con una mancata sincronia nei cicli di occupazione tra Roma, Torino e Milano, una relativa calma nel triveneto, a Napoli e a Bari), e tra diverse componenti (con tensioni tra quelle più moderate di Uds e Rete e quelle più radicali di OSA e FGC). In ogni caso, proprio la persistenza delle mobilitazioni stanno tessendo una prima trama, su cui forse si potrà sviluppare un tessuto.
A contribuire a questa impressione, anche la capacità di tenuta di fronte alla repressione. L’intransigenza della polizia in piazza, a fronte di dinamiche limitate negli eventi e nelle dimensioni, non è stata un caso. Come in altri contesti, si è provato a soffocare sul nascere le contestazioni, usando discrezionalmente e con durezza le norme di controllo sanitario: proprio perché le mobilitazioni non sono immediatamente esplose in una dimensione di massa, si cioè è usata senza scrupoli la forza (al Pantheon, a Milano e a Torino, come nei ripetuti sgomberi nelle scuole, in diverse città). Un tentativo di controllo che si è esplicitato anche con l’appello ai dirigenti scolastici nella prevenzione del 18 febbraio. La reazione di studenti, studentesse e studentu nelle manifestazioni non era scontata e ha dimostrato una capacità di tenere anche quel livello di scontro, senza disperdersi e senza esser messi a tacere, ma anche senza cadere nel gioco delle provocazioni e di un’inutile escalation militarizzante (limitante in una fase di crescita).
In questo quadro, a colpire sono anche temi e rivendicazioni che emergono dal percorso di questi mesi.
In primo luogo, il contrasto alle politiche di gestione dell’emergenza nella scuola, che l’hanno subordinata alle esigenze della produzione e alla tenuta sociale nel corso della pandemia: mai come in questi anni sono stati investite risorse pubbliche nell’economia reale (oltre 180 miliardi di euro dal 2020 al 2022, oltre 200 miliardi per il PNRR), però questi fondi sono stati usati in minima parte per tenere aperte le scuole durante l’emergenza o per affrontare gli storici squilibri del sistema formativo italiano. I fondi sono stati concentrati nei bonus, nei sussidi, nel finanziamento delle imprese, nella funzionalizzazione dei servizi pubblici alle esigenze dell’apparato produttivo (come evidente nell’impianto del PNRR e della Legge di Bilancio). Così, non si sono visti interventi straordinari per le aule, l’areazione degli ambienti, le mascherine FFP2 o i tracciamenti, ma non si è neanche programmato una diminuzione del numero di studenti per classe (evidente soprattutto nelle scuole superiori), una stabilizzazione degli organici (con oltre 150mila precari, un docente su 5), il rilancio della scuola. La diffusione della Didattica a Distanza, i problemi e le diseguaglianze per l’uso di questo strumento, sono stati quindi il filo con cui le mobilitazioni di questi mesi hanno posto il tema di una diversa politica economica e sociale nel paese. Le specifiche rivendicazioni che oggi si definiscono nella scuola, a partire dalle immediate condizioni di chi la vive, possono cioè velocemente assumere una valenza generale di contestazione alle politiche di Draghi, che nel quadro di una logica ordoliberale relegano oggi i servizi universali (come scuola e sanità) in secondo piano rispetto a quelli che più direttamente possono sostenere la competitività e la produttività totale dei fattori (al centro della sua impostazione del PNRR).
In secondo luogo, dopo la morte di Lorenzo Parelli, la questione dell’alternanza. La BuonaScuola di Renzi, una controriforma che ponendo al centro le esigenze dell’apparato produttivo ridisegnava organicamente il sistema formativo secondo una logica aziendale (new public management), pervade ancora la scuola italiana, nonostante la forte opposizione incontrata nel 2015 (il più grande sciopero dal dopoguerra), nonostante lo smantellamento o il contenimento di alcuni suoi cardini negli anni successivi (dalla chiamata diretta al bonus docente). Lo si vede con la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, istituita dalla Legge 53/2003 e disciplinata dal DL 77/2005, ma introdotta obbligatoriamente in tutte le superiori appunto dalla Legge 107/2015, con 400 ore nei tecnici e professionali, 200 nei licei. Nel 2019 ha cambiato nome (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento), ha diminuito le ore (90 nei licei, 150 nei tecnici e 210 nei professionali), ma la sostanza è la stessa: l’inserimento nel tempo scuola di percorsi professionalizzanti che prevedono di alternare attività in aula e in azienda (o altra struttura ospitante). La buonascuola ha inoltre inglobato nel sistema scolastico i centri di formazione professionale (CFP), regionali e spesso privati, dove c’è il sistema duale (quello dove sono morti i due studenti), con esperienze pratiche non inferiori a 400 ore annue, dai 14 anni, e l’apprendistato di primo livello. L’alternanza (il PCTO come il sistema duale) pone soprattutto una questione: l’interiorizzazione del concetto di occupabilità (tale per cui il lavoro non è più un diritto, ma una funzione delle personali capacità e abilità, che ognuno si deve coltivare nella logica del capitale umano), il trasferimento della responsabilità di una specifica formazione professionale dalle imprese al servizio pubblico. In questo modo si scaricano i costi di impresa e si preseleziona la forza lavoro. In questo quadro, il lavoro gratuito (come in stage o tirocini) o la concreta configurazione di queste attività (la presenza di un’impostazione didattica, il controllo dell’impresa, ecc) sono per certi versi il problema minore: come per la didattica per competenze (in fondo parallela al modello delle competenze di gestione delle risorse umane), il nodo è la funzionalizzazione dell’istruzione alle esigenze del sistema produttivo. In questo quadro, oggi, la rivendicazione centrale è da una parte quella di far saltare l’obbligatorietà (introdotta dalla Legge 107, su cui non a caso si concentrò il referendum proposto da FLC, Cobas scuola e movimenti, contro cui si schierò di fatto la CGIL), dall’altra l’introduzione dell’obbligo a 18 anni nel quadro di un sistema scolastico pubblico (abbattendo l’attuale sistema regionale e privato dei CFP). La contestazione oggi del sistema dell’alternanza (proprio nella sua genericità e astrattezza) colloca queste mobilitazioni proprio contro questa funzionalizzazione generale del sistema formativo, pur nel quadro di una dialettica in cui l’ala moderata si focalizza soprattutto su una sua possibile riforma (il sistema integrato proposto da UdS).
In terzo luogo, il disagio di una generazione. L’impatto dell’uso prolungato delle misure di contenimento del covid19 sul benessere di giovani, adolescenti e bambini è stato molto significativo. Diversi studi, in Italia e nel mondo, hanno evidenziato un aumento di depressione e ansia: una meta-analisi su 29 ricerche (con più di 80.000 soggetti) ha mostrato addirittura un raddoppio dei sintomi, con tassi di prevalenza rispettivamente del 20 e del 25%. Un impatto visibile sin dalla prima ondata (con il lungo lockdown), che secondo alcuni servizi è esploso in modo particolare dopo il successivo autunno, associato anche ad irritabilità e rabbia, ma che in ogni caso si è protratto nel tempo sino ad oggi. Alcuni studi, anche in Italia, hanno sottolineato il ruolo della scuola, della sua interruzione e della Didattica a Distanza, nello sviluppo di questo disagio. La Dad, usata spesso nelle superiori anche dopo il lockdown, limita infatti gli apprendimenti (distrazioni dell’ambiente di ascolto, assenza di un rapporto diretto e di segnali non verbali), facilitando la diffusione di ansie e insicurezze (tenendo anche conto che nei ridotti momenti in presenza si concentrano verifiche e compiti in classe). Inoltre, la compressione del tempo scuola e l’isolamento determinato dal distanziamento ostacola l’acquisizione di prassi e identità sociali, strettamente connesse all’osservazione ed all’interazione con le altre persone (vedi ad esempio quanto sottolinea in merito Vittorio Gallese). In questo quadro la denuncia del disagio, la richiesta di riconoscimento, la rivendicazione delle proprie differenze e fragilità è diventato in questi mesi uno dei temi ricorrenti di occupazioni e mobilitazioni. Una questione da non sottovalutare.
In primo luogo, solleva il tema del diritto alla felicità, al benessere, all’individuazione: cioè di un’autonomia delle persone (carne, sangue e sogni) dalle esigenze della produzione e della formazione per quella produzione. In una fase storica cioè dove la scuola pubblica è spinta ad interpretare pienamente il suo ruolo di apparato ideologico di stato, che non solo socializza alle norme dominanti ma si funzionalizza a sviluppare competenze (rafforzando gli strumenti competitivi come portfolio, test Invalsi e attività extrascolastica sulla maturità), la rivendicazione del benessere può esser il canale per contrapporvi un’altra interpretazione di scuola, il cui obbiettivo è lo sviluppo di autonomia e autodeterminazione, l’inclusione e la valorizzazione del diverso, la promozione sociale delle persone. La rivendicazione del benessere cioè può esser strumento per sottolineare il costo psicologico della scuola delle competenze, che elicita ansia e depressione nel momento in cui sottolinea la responsabilità individuale nella costruzione dell’occupabilità e del capitale umano.
In secondo luogo, solleva il tema del degrado progressivo che la sanità pubblica ha conosciuto in questo paese, con lo smantellamento dei servizi scolastici e territoriali, come di tutte le strutture consultoriali, psichiatriche e psicologiche negli ultimi anni. L’assunzione politica e collettiva del disagio vissuto dalle giovani generazioni pone cioè il tema di quale sanità pubblica vogliamo e quindi, nuovamente, quale politica economica-sociale è portata avanti oggi dal governo. Certo, esiste un’altra possibilità: a questa domanda sociale si può dare una risposta di controllo e contenimento, che si sviluppa sul piano dei servizi secondo la logica del bonus psicologo (cioè di voucher individuali invece che dello sviluppo di strutture pubbliche territoriali), sul piano degli interventi con approcci patologizzanti e medicalizzanti, ancora dominanti in diversi ambiti sociosanitari. La curvatura che questa problematica assumerà concretamente nelle rivendicazioni e nell’azione di questo movimento non è quindi scontata, ma è appunto determinata da quanto si sarà in grado di assumerla come questione politica e sociale complessiva, nel quadro della contestazione di questo modo di produzione, dei suoi meccanismi di sfruttamento e della subordinazione dei servizi pubblici universali allo sviluppo della produttività, tipica di questa fase di Grande Crisi.
Le dinamiche della mobilitazione, i temi che la tessono, credo delineino alcune complessità che questo movimento deve affrontare per svilupparsi. Ogni movimento, per sua natura, si muove: cioè evolve nel tempo. In questo quadro si pone inevitabilmente l’obbiettivo di una sua progressiva estensione, politicizzazione e radicalizzazione, proprio per evitare il suo contenimento e quindi il suo possibile riflusso.
Il primo passaggio, allora, è quello del suo stesso sviluppo, della capacità di crescere e raggiungere dimensioni di massa, superando isolamenti e marginalizzazioni. Si pone quindi la necessità di evitare forzature, sia in rapporto a rivendicazioni e parole d’ordine (evitando estremizzazioni identitarie e programmatiche, ben oltre una spanna sopra la consapevolezza diffusa), sia rispetto alle tentazioni di misurare la radicalizzazione della lotta nel comportamento di piazza (anche con modalità competitive tra componenti e territori, come spesso avvenuto negli ultimi decenni). L’estensione, la politicizzazione e la radicalizzazione del movimento può invece svilupparsi proprio a partire dagli stessi temi su cui queste mobilitazioni si sono innescate (politiche economiche e sociali, alternanza e funzione della scuola, salute e benessere degli individui), declinando nell’ambito rivendicativo una progressiva assunzione di un orizzonte di trasformazione della società (partendo, da questo punto di vista, da un terreno favorevole, proprio perché tutti e tre le questioni principali poste dalle mobilitazioni mettono a fuoco il nodo dello politiche di gestione della crisi e lo sfruttamento determinato da questo modo di produzione).
Il secondo passaggio, allora, è quello di strutturare il movimento, darsi forme e modalità per sviluppare nel tempo le mobilitazioni, ma soprattutto per assumere la complessità e l’articolazione che le fanno vivere. Nella parte che costituisce il movimento (chi si attiva e contesta l’attuale stato di cose) sono infatti presenti diverse parti (dinamiche territoriali differenti, molteplici indirizzi scolastici con propri punti di vista e composizioni sociali, più tendenze e progettualità politiche tra loro anche contrapposte): negli ultimi anni la fluidità delle mobilitazioni ha spesso semplicemente portato a giustapporre le diverse identità e componenti, ognuna delle quali si è auto-affermata e in qualche modo ha semplicemente tentato di spiccare sulle altre. Porsi il problema della continuità e dello sviluppo del movimento vuol dire porsi anche il problema della capacità di tener insieme le sue diverse parti, strutturando spazi e modalità di confronto. Vuol dire cioè porsi il tema di costruire forum e coordinamenti, territoriali e nazionali, in cui dal riconoscimento reciproco delle diverse polarità si passa a sviluppare forme di confronto politico, trovando regole e rappresentanze. Nei movimenti studenteschi degli anni ottanta e novanta (medi e universitari) si erano iniziate a definire alcune modalità, oltre il semplice intergruppi (forma oggi comunque). A questo proposito sarebbe importante superare alcune abitudini del movimentismo italiano, guardando ad esempio alle forme democratiche per delegati/e che si ritrovano spesso nell’esperienza francese.
Il terzo passaggio, infine, è quello della convergenza, cioè della capacità delle soggettività studentesche di relazionarsi e intrecciarsi con movimenti più generali, nella stessa scuola (a partire dalle mobilitazioni del personale e dalle ragioni dei recenti scioperi, come anche Friday For Future: a questo proposito sarà interessante capire come si configurerà la partecipazione alla prossima giornata internazionale del 25 marzo) e a livello generale (anche qui, sarà importante impegnarsi e valutare la partecipazione all’appuntamento del 26 marzo a Firenze, #insorgiamo, lanciato dal Collettivo di fabbrica GKN).
LucaS