[Documento dei compagni/e della sezione di Bologna]
E’ oggi importante un congresso del Pcl che apra una riflessione e un dibattito, prendendo atto dei nostri passi politici e organizzativi, dei nostri ritardi e limiti, cosa praticamente impossibile nelle assise precedenti, in particolare in quella del 2017. A nulla serve un congresso vissuto come una conta per ribadire il controllo e l’imprimatur su una struttura politica in evidente difficoltà da tempo; a ciò si aggiungerebbero i danni di una “battaglia”, condotta a colpi di scomuniche, alla ricerca della distruzione del “nemico” interno che sbarra il passo dei giusti sulla via della rivoluzione.
Il primo passo verso il futuro non può non essere il riconoscere nel presente la necessità di rinnovare il marxismo rivoluzionario per affrontare la lotta di classe nel XXI secolo. La storia del marxismo ebbe una svolta decisa, nella teoria come nella prassi, nei primi anni del ‘900 nella rottura con l’economicismo e il riformismo, raggiungendo l’apice della propria forza con la rivoluzione bolscevica e nel primo decennio di vita dell’Internazionale Comunista, fino alla controrivoluzione staliniana. Dagli anni ’30 il movimento trozkista ha dovuto misurarsi con la repressione staliniana da un lato e con quella fascista, per poi pagare con la marginalità nel movimento operaio la forza delle proprie ragioni.
Oggi molto è cambiato. Pur rimanendo immutati i meccanismi economici di sfruttamento del capitalismo, gli scenari internazionali sono diversi, dal venir meno del blocco sovietico e la fine dell’egemonia staliniana su quel che rimane sul terreno comunista e anticapitalista, alla nuova geografia degli imperialismi, ai meccanismi e agli strumenti di dominazione politica del capitale, fino alla riduzione drastica – almeno in Europa – del blocco sociale che si era contrapposto alle forze del capitale nel ‘900.
Il punto di partenza diventa necessariamente la sistematizzazione della lettura dei nuovi scenari, l’adeguamento della propria linea politica ai nuovi terreni dello scontro nazionale e internazionale. Sfuggire a ogni tentazione di un trotskismo che, nel buio della propria crisi si abbandona alla propria depressione, trasforma il proprio isolamento in un vanto e pregio, la propria marginalità nella riprova della propria purezza; una prassi come fuga verso un settarismo religioso e dogmatico, con un linguaggio immobile nel tempo e nello spazio, fermo nella proposta politica a metà del secolo scorso, con un partito i cui dirigenti diventano sacerdoti, unici depositari del verbo.
I nostri ritardi in una ridefinizione teorica, politica e organizzativa – spesso addirittura negati – sono parte fondamentale dell’origine della crisi del Pcl, una situazione, è bene sottolinearlo, che non era un destino inevitabile. Nel corso della nostra esistenza, nonostante tutte le difficoltà soggettive e oggettive, abbiamo avuto anche risultati elettorali non indifferenti per una forza come la nostra: dalle politiche del 2008 alle europee del 2009, dalle regionali liguri fino alle più recenti comunali di Bologna e Genova. Al di là delle vicende elettorali, siamo stati – appena usciti dal Prc – promotori centrali delle manifestazioni antimperialiste contro le missioni militari.
Negli ultimi anni del primo decennio del secolo abbiamo avuto ruoli importanti e riconosciuti nelle lotte in alcuni posti di lavoro: da Genova a Roma, da Bologna alle Marche. Anche la nostra campagna sull’Ottobre ’17 è stata positiva: le presentazioni del libro di Ferrando, il convegno di Bologna, le tre conferenze interregionali hanno coinvolto diverse centinaia di persone. Ma in poco tempo si è perso un patrimonio politico e militante piccolo ma prezioso, fatto di militanti e capacità di azione politica, che riusciva a stare sulla scena elettorale, anche con risultati al di sopra delle aspettative, a cui è corrisposta un’incapacità, e forse anche la mancanza di volontà, di raccoglierne i frutti.
Quasi a voler rinunciare ad aprire processi su cui puntare ad avere l’egemonia, o almeno ad averne l’ambizione. Un partito che non abbia l’obiettivo di poter essere egemone sui processi politici e sociali non farà mai alcuna rivoluzione, non potrà mai radicarsi e svilupparsi nella classe. Il Pcl ha dato l’impressione, forse per alcuni dirigenti corrispondente al vero pensiero – di accontentarsi di essere la prima forza a sinistra del Prc o la prima delle formazioni trozkiste – o sedicenti tali – in Italia. Mentre la sinistra crollava su ogni versante, il Pcl si rinchiudeva in dibatti assurdi e guerre interne da parte di chi, senza criterio se non il proprio smisurato ego, voleva prenderne il controllo: dall’infinito dibattito sul giornale, sul quale si sono formati anche schieramenti congressuali da parte di chi non aveva la capacità politica di formulare un coerente progetto politico (arrivando anche a teorizzare assurdità come un “giornale fatto per chi non legge”); all’”assalto alla diligenza” tentato dal composito fronte della Fir e compagni di viaggio; l’eterno dibattito sull’intervento tra gli studenti, senza accorgersi che nel frattempo i nostri giovani erano invecchiati entrando nel mondo del lavoro e nessuno era arrivato nel partito per prenderne il posto; per giungere alla guerra dichiarata da alcuni dirigenti nazionali contro il sindacalismo di base (in particolare Cub e Sgb) e i compagni del Pcl ad esso aderenti, sperando così di rilegittimare e riaffermare l’impegno nella Cgil.
Ed è così che si arriva all’oggi, il punto più basso del PCL, si sono persi circa il 60% degli iscritti in pochi anni, la capacità di iniziativa politica è ridottissima; i risultati elettorali insignificanti numericamente del 2018 non hanno portato né nuovi militanti né simpatizzanti; la marginalità nei confronti di quel che resta a sinistra è quasi totale. Tutto ciò viene vissuto come un momento di passaggio di una politica comunque sempre giusta, che oggi vuole il Pcl settario al limite del tribalismo, in attesa di un nuovo avvento della coscienza politica trozkista tra le masse proletarie.
Riattualizzare il nostro “discorso politico” , partendo dalla teoria e dai linguaggi, per giungere in tempi medi a un rilancio, è la nostra prima necessità in questa fase. Il marxismo rivoluzionario, così come si è determinato nei primi decenni del secolo scorso, dentro successi, sconfitte, grandi vittorie e immani tragedie, non è mai stato caratterizzato da una politica statica, ma sempre alla ricerca di una teoria adatta al tempo e alla fase, capace di trasformare le politiche secondo le necessità mantenendo saldi principi e obiettivi, con rotture ma anche convergenze. A titolo di esempio si possono citare le rotture dei rivoluzionari russi con il vecchio marxismo, con gli economicisti e i menscevichi, per poi saltare avanti di qualche anno e ritrovare a cavallo delle rivoluzioni del 1917 la ricomposizione dei bolscevichi con Trotski e i suoi seguici, con altri internazionalisti.
Nella storia il marxismo rivoluzionario dovrebbe avere un posto di primo piano per l’importanza ricoperta nella lotta di classe del proletariato, purtroppo l’avvento dello stalinismo e le sconfitte successive hanno relegato in secondo piano questa filone politico. Ma, non di meno, i marxisti rivoluzionari hanno segnato i tempi, e anche quando sconfitti le loro ragioni non sono venute meno e le analisi sono state in larga parte confermate dagli eventi. Dall’inizio dei processi rivoluzionari in Russia nel 1905 fino all’Ottobre; dalla guerra civile fino alla lotta contro l’affermarsi del termidoro staliniano; la resistenza allo stalinismo ormai affermato alla lotta contro nazismo e fascismo, mentre altri (tanti altri) nel movimento operaio e comunista sceglievano le alleanze con le forze politiche borghesi portando al disastro; la coerenza di portare nei decenni del lungo secondo dopoguerra l’eredità del migliore marxismo e delle rivoluzioni proletarie.
La fine dell’Urss, con tutto il suo portato nell’Europa orientale e non solo, la trasformazione in senso ultramoderato e liberale di buona parte della sinistra occidentale, invece che portare nuove forze verso i rivoluzionari, ha avviato un percorso verso destra a livello mondiale e una forza del capitale inedita.
Alla presunta “fine della storia” (della lotta di classe) si sono via via sostituite le guerre umanitarie e le operazioni di polizia internazionale, corrispondenti alla nuova fase del capitalismo. Mentre una nuova geografia dell’imperialismo si andava componendo, con una decisa accelerazione negli ultimi 15/20 anni, con nuovi ruoli da protagonisti di Cina e Russia.
E’ ineludibile il problema del rapporto guerra/coscienza di classe/rivoluzione. La guerra è stata elemento centrale e portante della maturazione della coscienza di classe e delle spinte rivoluzionarie per oltre un secolo. Dal 1848 alla Comune di Parigi, dal 1905 al 1917, dal primo dopoguerra europeo al secondo, fino alla rivoluzione dei garofani in Portogallo, il rifiuto di combattere e morire per il capitale da parte del proletariato in divisa e in armi e stato determinante nei vari scenari. Diventa però oggi difficile pensare di trasformare “la guerra imperialista in guerra civile”. Non esistono più conflitti della durata di vari anni che coinvolgono decine di milioni di proletari, trincee e milioni di morti in battaglia. Sono cambiati gli eserciti dell’imperialismo, fatti sempre più di professionisti, sono cambiati tempi e modi della guerra. Mentre per gli abitanti del ricco occidente la guerra appare quasi come un videogame giocato da altri, lontani e sconosciuti, per chi la subisce il nemico ha spesso volti diversi, mentre le stesse cause economiche dei conflitti vengono percepiti solo da ristrette minoranze.
Si tratta di prendere atto che il problema “guerra” declinato in qualunque forma (pacifista, antimperialista, rivoluzionaria ,..) non è comunque aggirabile, Ma vanno posti su altri registri le parole d’ordine, la propaganda e l’azione, in particolare per quello che ci concerne nella situazione italiana.
L’esercito si è trasformato in corpo professionalizzato, senza più la leva che coinvolgeva la stragrande maggioranza della popolazione in età, ridotto numericamente ma più “operativo”. La composizione sociale della truppa è facilmente identificabile: maggioranza proveniente dal meridione, appartenenti alle classi subalterne con medio basso livello di istruzione, che vedono nell’impiego nelle FFAA una risposta alla disoccupazione. Non va dimenticato che, grazie a una “riforma” prodotta dal centrosinistra, per entrare nelle forze dell’ordine bisogna aver fatto il servizio militare volontario.
Nella storia della repubblica Italia FFAA e FFOO non hanno mai brillanto per un’adesione entusiastica ai c.d. valori democratici, sono sempre stati territorio della destra e del neofascismo. Bisogna sviluppare una piattaforma che sappia contrastare la destra in questo settore determinante, una proposta di classe, perché le sole rivendicazioni democratiche rischiano di avere il fiato corto (peraltro ben poco sostenute anche da parte delle forze liberali, liberal e riformiste).
Oggi l’imperialismo resta tale dal punto economico e politico e militare, sviluppandosi anche al di là dei conflitti direttamente armati, con diverse aree rispetto al passato.
E’ cambiata la guerra, sono cambiati gli attori dell’imperialismo con l’ingresso di nuovi protagonisti, ma è rimasta intatta la necessità del proletariato di porsi come antagonista e sono rimasti valide le grandi linee di fondo della teoria marxista rivoluzionaria.
L’idea della Rivoluzione Permanente rimane attuale e fondamentale oggi, come lo fu all’inizio del ‘900 in Russia per i bolscevichi per riaffermare l’autonomia della classe e del partito nel perseguire l’obbiettivo del potere proletario. La stessa teoria dello sviluppo ineguale e combinato, che rapporta la Rivoluzione Permanete sul terreno dell’analisi economica del capitalismo, pur nel mutare di attore e scenari mantiene intatte tutte le sue ragioni. Si tratta, quindi, di dare nuove gambe al nostro “discorso” politico, nel linguaggio e nell’esposizione complessiva, adeguarlo al tempo presente, rammentando certo i precedenti storici ma sapendolo investire nell’attività e nella propaganda ordinaria del partito.
Operazione analoga va fatta per il Programma di Transizione, ovvero il metodo (obiettivi) transitorio per renderlo “arma” politica dell’oggi nella prassi dei nostri militanti e delle nostre strutture, senza cedere alla tentazione di farne uno statico decalogo di dogmi, buoni solo per scomuniche interne allo stesso partito, ma inservibili nella lotta di classe.
In Italia l’arretramento senza sosta del proletariato nei confronti della borghesia continua da un quarantennio, almeno dalla sconfitta alla Fiat nel 1980, con una decisa accelerazione nell’ultimo decennio simboleggiato dall’abrogazione – di fatto – dell’art.18 da parte del PD renziano.
Come abbiamo giustamente analizzato in tutto il nostro percorso, sono state proprio le politiche padronali e antiproletarie del centrosinistra (in tutte le versioni e con tutti i suoi vari attori) a spianare la strada alla destra di oggi. La forza elettorale, il consenso sociale trasversale, il radicamento istituzionale locale, la capacità di imporre alle agende di informazione e istituzioni i propri temi fanno sì che questa destra oggi fortissima rimanga tale per un periodo non breve, anche per l’evidente assenza di competitor all’altezza nello stesso campo padronale.
Abbiamo assistito quindi al crollo della sinistra (variamente declinata) nel nostro paese: sul piano politico, sindacale, associativo e culturale, la coscienza di classe delle masse lavoratrici è un pallido ricordo ed è oggi in possesso solo di ristrette cerchie militanti.
Dentro al Pcl abbiamo usato per lungo tempo la dizione “popolo della sinistra”, spesso per semplificare concetti più complicati e diversificati, una definizione di origine giornalistica vaga che muta al cambiare del contesto. E’ bene ricominciare, più correttamente, ad usare il termine di blocco sociale, perché è proprio quest’ultimo che è andato via via riducendosi nella quantità, nella qualità dei suoi quadri dirigenti, nella sua capacità di mobilitazione e peso politico, senza però scomparire completamente.
Le difficoltà del blocco sociale rispecchiano la crisi degli agenti che ne hanno determinato l’esistenza nel secondo dopoguerra: partiti di sinistra, sindacati – in primo luogo la CGIL – , associazioni, movimenti, ecc.
Prendere atto di ciò significa che bisogna ripensare il partito come parte di questo blocco sociale, adeguare le proprie politiche alla sua ricostruzione attraverso un programma radicalmente classista, capace però di dialogare con i diversi soggetti – politici e sociali, piccoli e grandi -, ponendosi l’obiettivo di partecipare e sviluppare processi su cui sviluppare la propria egemonia.
Aver agito in controtendenza – con grande impegno e qualche merito, forse nemmeno troppo riconosciuti né all’interno né all’esterno – nella crisi e poi nella disfatta della sinistra italiana non è bastato. Si tratta di far tesoro delle nostre esperienze passate, di utilizzare la nostra memorie e le nostre capacità – pur limitate – nelle battaglie dell’oggi, per quanto siano su piani arretrati e difficili. Se nel prossimo futuro ci sarà ancora in Italia una sinistra, in particolare per quel che ci riguarda una sinistra classista, che possa avere un ruolo non solo testimoniale, molto dipenderà dalle lotte e dai movimenti che potranno svilupparsi contro la destra di oggi. Sarà da questi ultimi che emergeranno le nuove forze e le nuove leadership. Scegliere la marginalità settaria per difendere una presunta purezza della propria propaganda significherebbe decidere di relegarsi alla residualità per un tempo indefinito, nella speranza di un evento magico metastorico e metapolitico che porti alla rivoluzione, alla nemesi della classe che porterà al riconoscimento della leadership del Pcl: un misticismo troskista nemmeno tanto originale.
Il nostro intervento sindacale va ricalibrato: dalla centralità della Cgil alla centralità del sindacalismo classista, dentro e fuori la Cgil così come dentro e fuori il sindacalismo di base. La determinazione – la centralità se si preferisce – del nostro intervento si dovrà basare sulle pratiche sindacali e non sull’appartenenza a questa o a quell’organizzazione.
La Cgil a guida Landini è ben lungi dal porsi il problema di sfruttare i pochi spazi ancora aperti per rilanciare una sinistra – certamente non rivoluzionaria – in Italia, per contrastare minimamente il padronato.
La svolta di Landini sul Tav e le manifestazioni Cgil in difesa delle grandi opere danno – più di ogni dichiarazione giornalistica – il senso della linea scelta dal nuovo segretario: una sostanziale continuità con i predecessori, con l’aggravante di trovarsi in un mutato contesto politico certamente peggiore per il lavoratori.
L’Usb ormai non si definisce nemmeno più – per propria scelta esplicita – sindacato di base, aspirando a diventare una nuova confederazione formato mignon e potersi sedere ai tavoli che contano. Difficilmente la si può considerare un sindacato complessivamente classista visti gli accordi vari sottoscritti, fra cui va menzionato il “capolavoro” all’ex Ilva, difeso fino all’inverosimile da Sergio Bellavita, che lo ha anche firmato assieme a Landini e poi disdetto dopo nove mesi senza neanche un briciolo di autocritica. Ma fuori dal controllo diretto di chi la gestisce nei livelli centrali, in Usb troviamo anche elementi in controtendenza che non vanno tralasciati o abbandonati con superficialità.
Nato da una scissione dell’Usb, Sgb sta per porre fine alla propria esperienza giungendo all’unificazione con la Cub. Un percorso non lineare, con incognite non piccole sul risultato finale, per altro un cammino parzialmente ostacolato da dirigenti Cub preoccupati di vedersi ridimensionati, ma certamente in questo processo vi sono, per quanto limitate nelle dimensioni, positive possibilità di riaggregazione.
Il Si.Cobas, che tanto piace ai più radicali più per la sua immagine che per la sua realtà, si configura sempre più come sindacato/partito o organizzazione politica generale. Ma l’azione del Si.cobas di scontro totale contro qualunque altra forza sindacale nei posti di lavoro ove è presente lo pone su un terreno difficile incontro al fine di qualunque ricomposizione
L’opposizione interna alla Cgil, di cui abbiamo condiviso gran parte delle battaglie, è oggi marginale, paga la sua riduzione numerica, scontando il fatto di non essere sindacato, non avere diritti e non poter partecipare a nessuna contrattazione e non poter indire scioperi o mobilitazioni in quanto tale, ma poter gestire solo gli spazi concessi dalla maggioranza che dirige la confederazione.
Per dirlo con uno slogan: il meglio è sparso a noi tentare ora di cominciare a riconnetterlo. Un primo passo positivo deve essere, come discusso e deciso anche all’ultima conferenza dei lavoratori del PCL, dar vita a strumenti di intervento come un bollettino sindacale (con annessi come sito, newsletter, ecc.), che prescindendo dalla sigla sindacale parlino a una più ampia platea di militanti classisti.
Le proposte per migliorare il funzionamento della nostra macchina organizzativa non possono non partire da una disamina dei limiti evidenziati nel recente passato.
Il tesseramento, l’elemento basilare per l’adesione al partito, viene effettuato in maniera disomogenea sul territorio, ogni sezione lo ha interpretato a modo suo. Vi sono sezioni che registrano un numero sproporzionato di militanti rispetto agli aderenti, altre che fanno l’esatto opposto. Il tutto senza un criterio e un’indicazione organizzativa che deve essere necessariamente improntata all’allargamento della nostra base di iscritti, di utilizzo della proposta del tesseramento come consolidamento dell’avvicinamento di compagne e compagni, come verifica di del proprio lavoro relazionale. Il tesseramento non può essere esclusivamente la registrazione di un dato statico, dove ormai si raccolgono solo le conferme, mentre aumentano gli allontanamenti e nuove forze non sono mai intercettate.
L’adesione al partito va curata e seguita, con verifiche periodiche e tempestive, anche con campagne apposite di promozione del partito, da legare ad eventi di attualità nazionale, internazionale o a sottoscrizioni e iniziative di sezione.
La situazione economica del partito è uno degli elementi più pesanti di crisi e di limite dell’attività del partito, al di sotto di questo livello semplicemente cessano le attività minime di un’organizzazione politica. In tutti questi anni di vita del Pcl l’autofinanziamento ha funzionato solo parzialmente ed è stato praticato solo da alcuni. Il partito si è retto, a periodi grazie alle ingenti sottoscrizioni di pochissimi compagni, mentre altri si sono sentiti completamente deresponsabilizzati. Accanto a compagni e sezioni che hanno sempre più o meno regolarmente partecipato all’autofinanziamento (e nel tempo bisogna dire che si tratta sempre degli stessi compagni e delle stesse sezioni) altri lo hanno vissuto come una tassa da evadere, pagando molto meno del minimo, evitando con cura le sottoscrizioni ordinarie e straordinarie, in alcuni casi versando parte del dovuto solo in occasione dei congressi nazionali. Magari quote e altro venivano effettivamente raccolte – almeno in parte – per poi fermarsi nelle casse di sezione, rompendo così il vincolo di solidarietà e il criterio di uguaglianza che dovrebbe vigere nel Pcl. Anche i versamenti sul tesseramento spesso sono stati fatti in ritardo o non sono stati fatti affatto, in altri casi le quote sono state personalizzate… ovviamente al di sotto di quanto stabilito per l’iscrizione al partito.
Casi esemplari di come non deve funzionare il partito sono state le ex sezioni di Firenze e Taranto, che sono state considerate ancora parte del partito quando per ben due anni non versavano né quote né tessere, senza ovviamente partecipare a nessuna attività di partito. La ex sezione di Firenze è anche l’esempio di come si sia tollerato, oltre ogni buon senso, una sorta di franchising del simbolo e del nome del Pcl. Non si tratta di imporre un regime da caserma, di limitare l’autonomia di azione dei compagni singoli e delle sezioni, ma non possono esserci corpi totalmente separati dal resto dell’organizzazione.
Non si tratta quindi di rompere una pratica che qualcuno ritiene “garantista”, ma di riportare l’organizzazione alle basi minime di funzionamento condiviso, a partire dalla regolarità dell’iscrizione e della militanza. Negli ultimi due anni abbiamo avuto organismi dirigenti che hanno visto la partecipazione e il voto di chi non dovrebbe essere ritenuto militante. Lo stesso congresso al suo piede partenza vede situazione altamente irregolari.
Il primo obiettivo del presente congresso è quello di superare immediatamente questa situazione.
Bisogna prendere atto di ciò che non ha funzionato in questi ultimi anni, non per nuove crocifissioni in sala mensa, ma perché solo problemi riconosciuti come tali si possono superare.
Le commissioni non hanno funzionato a dovere, lente e inefficaci a volte, in altre teatro di lotte intestine. La commissione più importante per un partito come il nostro, quella dedicata al lavoro, nel nei due anni successivi alla chiusura dell’ultimo congresso ha funzionato poco e male.
Compagni a cui venivano affidate responsabilità o ruoli non portavano a termine gli incarichi. In alcuni casi membri di segreteria e Comitato centrale che non partecipavano per svariati mesi o per anni all’attività degli organismi di cui facevano parte non si dimettevano e nulla comunicavano al partito.
Le commissioni hanno senso se funzionano altrimenti vanno supplite dagli altri organismi. In alcuni casi si deve ricorrere a incarichi individuali e non collettivi che sono risultati nell’esperienza dispersivi.
E’ capitato ripetutamente che siano state prese decisioni (anche dal CC e anche all’unanimità) e non siano state attuate: dalla campagna sul lavoro a quella sui 5 Stelle, decise e preparate, con addirittura i materiali già pronti, scritti e impaginati ma mai realizzate perché invise a dirigenti che nei fatti hanno posto il veto, con affermazioni come: “questo partito non si costruisce con campagne” o “noi al massimo facciamo le campagne de’ no’ artri”, non capendo il senso di cosa sia una campagna politica, nei fatti riducendo e impedendo il dispiegarsi dell’azione del partito.
Le decisioni prese vanno attuate o rettificate, nei tempi degli umani non in quelli di chi si crede immortale.
Negli ultimi due anni i luoghi decisionali sono cambiati a seconda delle convenienze e delle esigenze di questo o quel dirigente, come nel caso della conferenza dei lavoratori del Pcl del 2018, convocata senza delegati ma che si è espressa su documenti tramite il voto dei partecipanti, giustificando tale prassi “perché così hanno fatto i bolscevichi a Baku nel 1920 nel congresso per la liberazione dei popoli orientali”. Oltre a ciò, la rottura della collegialità di direzione, ha portato a decisioni prese da un singolo con l’avallo, spesso a cose fatte, di un altro. Come nel caso indecente della candidatura alle politiche 2018 di Valerio Torre, ex Pdac e già provocatore nei confronti del Pcl tramite email inviate sotto falso nome.
Il ritorno al funzionamento collegiale degli organismi è premessa del buon funzionamento del partito. Va altresì superata ogni supposta di superiorità naturale rispetto agli altri, spesso esplicata tramite “voti in pagella” e giudizi.
Nella chiarezza e nel rispetto dei ruoli, collaborando e non prevaricando, il partito può riconquistare una sua capacità operativa, con una struttura centrale che preveda: Comitato centrale, segreteria, responsabili di settore, commissioni e un’assemblea nazionale con rappresentati territoriali e invitati a seconda delle varie esigenze del momento.
Il giornale è a un punto morto. Una pubblicazione cartacea, più o meno periodica, mantiene anche nella nostra era una sua notevole importanza, certo mutata rispetto al passato quando era l”organizzatore collettivo” e il principale e forse unico mezzo di informazione. Si tratta di capire se all’interno del partito vi siano le capacità e la volontà per realizzarlo. L’esperienza degli ultimi anni è stata fallimentare, pur cambiando più volte i componenti della redazione e i “responsabili di servizio”, non si è riusciti a dare continuità al lavoro. Malgrado ciò, con l’impegno di pochi si sono fatte alcune uscite annue, i cui contenuti erano buoni. Anche la distribuzione è calata ai minimi storici, sia per il restringersi della base del partito, sia per la disattenzione di alcune sezioni, come per il boicottaggio esplicito di altri, che per fortuna in gran parte non fanno più parte del Pcl.
Il sito è la vetrina del partito, ma va ammodernato e reso più efficiente. I contenuti vanno più curati, spesso in prima pagina si trovano testi sciatti, mal scritti e superficiali, pubblicati probabilmente per soddisfare gli autori che non per la reale utilità, confondendo il sito con Facebook. E’ meglio pubblicare meno, con costanza, ma meglio, almeno per quanto riguarda i testi più in vista.
Deve essere attivata una vera newsletter (siamo gli unici a non averla) e pensato un seminario che elabori miglioramenti e integrazioni dei nostri strumenti informativi e di propaganda/agitazione.
Firmatari: Ermanno Lorenzoni, Marta Positò, Michele Terra