LOTTA DI CLASSE E RIVOLUZIONE
Partito di avanguardia, intervento di massa e metodo transitorio.
A volte l’unico modo…di camminar dritto è quello di cambiare strada.
(Ken Parker, Pellerossa, n°26, ultima pagina)
I quadri più preparati dal punto di vista propagandistico sono destinati inevitabilmente a degenerare se non entrano in rapporto con la lotta quotidiana delle masse. … Per crescere più rapidamente durante un periodo d’ascesa, durante il periodo di preparazione dobbiamo saper trovare dei punti di contatto con la coscienza dei più ampi settori operai, è necessario stabilire rapporti corretti con le organizzazioni di massa, è necessario individuare il punto di partenza giusto corrispondente alle condizioni reali dell’avanguardia del proletariato nell’ambito dei suoi vari raggruppamenti.
(Leone Trotskij, 14-16 ottobre 1934
“La situazione attuale del movimento operaio e i compiti dei bolscevico-leninisti”)
- La necessità di una svolta
- La barbarie: crisi, imperialismi e classe nel mondo
- Una diversa gestione capitalistica della crisi: populismi, nazionalismi ed estreme destre neofasciste
- Il caso italiano: disorganizzazione di classe, egemonie reazionarie e movimenti democratici
- Cambiare passo all’intervento: un nuovo corso per il partito.
- Linea politica ed organizzazione: rivedere le priorità del PCL con il nuovo corso
- LA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA
1.1 Il PCL è un partito programmatico rivoluzionario.
Il Partito Comunista dei Lavoratori ha iniziato il suo percorso nel 2006, quando il PRC entrò nel governo Prodi. Cioè quando si è esplicitata compiutamente quella tendenza alla collaborazione di classe prevalsa sin dal II congresso (Alleanza dei Progressisti, 1994). Il processo costitutivo del PCL ha raggruppato forze accumulatisi dentro e fuori il PRC, nella critica di quella politica di fronte popolare e nelle resistenze al ciclo neoliberista, sul rilancio di un progetto comunista rivoluzionario.
Il PCL si è fondato quindi su un’impostazione programmatica: un’organizzazione che si raggruppa su un programma di transizione socialista, che lotta per conquistare la maggioranza della classe a questo programma e realizzare la rivoluzione. Il PCL si colloca, con questa impostazione, nel movimento trotskista e nel marxismo rivoluzionario. Consapevole però che dall’esperienza dell’ottobre e nell’opposizione allo stalinismo si sono raccolti sotto queste bandiere percorsi diversi. Per questo ha ulteriormente definito alcuni cardini programmatici:
- Autonomia di classe: la consapevolezza che il lavoro ha interessi contrapposti al capitale, pur essendo una delle sue forze produttive. Nel lavoro si sviluppano quindi tendenze diverse. Alcune rappresentano la forza lavoro. Il PCL intende invece sviluppare l’indipendenza di classe, con un’opposizione radicale alle classi dominanti e ai loro governi.
- Rivoluzione e dittatura del proletariato: la necessità, per difendere il lavoro e superare le barbarie capitaliste, di conquistare il potere per cambiare il modo di produzione. Per questo, il PCL si pone l’obbiettivo di un governo delle lavoratrici e dei lavoratori, che riorganizzi la società su basi socialiste.
- Partito di avanguardia: se la classe è antagonista, per sviluppare un progetto rivoluzionario e comunista è necessaria un’organizzazione politica. Non un partito di massa che raccoglie i molteplici strati di classe o un partito di quadri che struttura le sue avanguardie di lotta. Il PCL raccoglie allora chi assume il suo progetto, concordando con il suo programma, e si organizza per raggiungerlo.
- Democrazia di classe e consigli: il processo rivoluzionario non può esser gestito indipendentemente dalla classe. Altrimenti si rischia una degenerazione: avanguardistica e settaria nelle lotte, burocratica e autoritaria dopo la presa del potere. Per questo il rapporto dialettico tra classe e partito è centrato sull’autonomia del partito tanto quanto sull’autodeterminazione della classe, attraverso la sua libera organizzazione in consigli (delegati liberamente eletti e revocabili).
- Metodo transitorio: il rapporto tra antagonismo di classe e progetto socialista può esser sviluppato con un conflitto che espliciti i limiti dell’attuale modo di produzione e quindi ponga l’esigenza di un suo superamento. Il PCL, cioè, si pone il compito di radicare nella classe e nelle sue lotte rivendicazioni largamente condivisibili, in relazione con la sua coscienza diffusa, che nel contempo sorreggano il processo rivoluzionario in quanto non realizzabili nell’attuale stato di cose presenti.
- Democrazia e centralismo nel partito: l’affermazione di un libero confronto tra diverse posizioni, anche organizzate, è il prodotto della tragica degenerazione autoritaria dell’Unione sovietica e della terza internazionale, come di una deriva leaderistica e settaria nella sinistra rivoluzionaria. Per questo l’unità nell’azione deve esser controbilanciata dal libero e paritario dibattito nell’organizzazione, anche pubblico (come nel partito bolscevico sino al decimo congresso).
- L’internazionale. Lo sviluppo ineguale e combinato, con la conseguente integrazione di diverse formazioni sociali, rende imprescindibile una prospettiva internazionalista in grado di confrontarsi con le diseguaglianze territoriali e i nazionalismi di questo sistema mondiale. E quindi solo un’organizzazione internazionale, in grado di confrontarsi con queste tendenze imperialiste e nazionaliste, è in grado di perseguire un processo rivoluzionario e comunista.
1.2 Bilancio di un percorso
Il progetto del PCL risale ai primi anni ‘90, quando nel PRC si coagula questo percorso intorno ad un ristretto numero di compagni/e provenienti dalla minoranza rivoluzionaria della LCR e poi di DP. Questi trent’anni sono stati segnati da una comune strategia, in relazione ad una fase storica. L’Italia, infatti, era un paese a capitalismo avanzato, segnato da profonde instabilità (crisi del ’92/93 e un’incompiuta integrazione europea) e da una radicata tradizione classista (un largo tessuto di avanguardie, sviluppato da PCI ed estrema sinistra, rilanciato dalle resistenze a politiche neoliberiste e derive berlusconiane). Un tessuto classista, per di più, in cui i tradizionali riferimenti erano fluidificati dalla deriva liberale del PdS-DS, dalla molteplicità di impianti nel PRC, dalla riconversione di alcune aree antagoniste.
Un progetto che combinava crisi, popolo di sinistra e propaganda. Si ritenevano cioè diffuse le fascine (contraddizioni e conflitti) e il carburante (avanguardie politiche e sociali) per innescare i fuochi dello scontro di classe. Il nodo del processo rivoluzionario si focalizzava allora sulla sua direzione, nel quadro di uno sbandamento delle forze riformiste e radicali (un keynesismo in una stagione neoliberale; un togliattismo senza campismo e senza partito di massa; Zone Temporaneamente Autonome integrate da un capitale deterritorializzato; un multitudinarismo senza soggetti). L’accumularsi delle fascine, la disponibilità dell’innesco, la contraddittorietà dei venti rendeva quindi credibile diventare riferimento nell’ampia avanguardia attraverso la propaganda: cioè solo demarcandosi da queste direzioni e ponendo una prospettiva rivoluzionaria (polo di classe e governo dei lavoratori). Questo progetto si è quindi dispiegato su due versanti: il sostegno ad ogni fiammella che avrebbe potenzialmente potuto incendiare la prateria, con politiche di fronte unico nell’ampio tessuto della sinistra; una propaganda politica nel popolo di sinistra, che rimarcava consequenzialità e coerenza del nostro percorso (la sinistra che non tradisce). Un’azione dispiegata nei territori (volantinaggio mensile) e soprattutto alle elezioni, per emergere come possibile punto di riferimento quando le fascine si fossero incendiate. Questa strategia ha conseguito risultati: ha permesso di emergere come polo alternativo al bertinottismo; di costituirsi in organizzazione indipendente; di tenere come principale punto di riferimento dell’estrema sinistra, almeno sino alla seconda recessione del 2012/13.
Si sono evidenziati alcuni limiti. L’accumularsi delle fascine e la sicurezza su una loro probabile combustione hanno sospinto l’aspettativa di un prossimo sviluppo per balzi, conseguenti a esplosioni politiche e sociali. Così, non si è mai tratto un bilancio della fuoriuscita dal PRC, che ha coinvolto solo una parte limitata del consenso costruito. Si è sempre considerato secondario il consolidamento, a partire dalla struttura (sedi, beni, collana editoriale) e dalla formazione (episodica e limitata ai punti fondativi, senza alcuna relazione con l’intervento). Si sono sottovalutate le altre direzioni nei conflitti quotidiani (ritenuti poco rilevanti), trascurando il ruolo dei settori: rari i confronti sull’intervento (lasciato alla libera iniziativa); la prima, e unica, conferenza studentesca è del 2014/15; la prima di lavoratori e lavoratrici del 2018; quella femminile e meridionale aspettano invano da 2 congressi. E, pur nell’ottica di un’organizzazione combattiva di propaganda, si sono curati poco i suoi strumenti: un sito rinnovato una volta in 10 anni; una rivista teorica occasionale, che per lo più ripubblica testi classici e articoli di altri periodi; un giornale rarefatto e scollegato dall’attività del partito; improvvisazione e occasionalità per manifesti e video nei social; rigetto delle campagne (rare, improvvisate e con scarso coinvolgimento, spesso su pressioni internazionali). Limiti emersi anche nei successi. Con un’organizzazione combattiva di propaganda focalizzata su volantinaggi ed elezioni, infatti, quando si è ottenuto un risultato lo si è disperso. Ad esempio, in Alitalia nel 2008: quando fu approvata da migliaia di lavoratori e lavoratrici la proposta di sciopero ad oltranza avanzata dal compagno Ferrando (unico politico in assemblea, diventato un punto di riferimento di massa), contro burocrazie sindacali e SdL (il sindacato di base allora più radicato a Fiumicino), nessuno fu in grado di condurre la lotta, che quindi evaporò nello sbandamento generale. Nessuno: perché non solo il partito non era radicato in quella realtà, ma non si era neanche posto il problema di organizzare una struttura in grado di supportare quel tipo di intervento.
1.3 Un partito ripiegato
Oggi il PCL è logorato. Ha perso più di metà delle sue forze, con un calo accelerato negli ultimi anni: circa 1300 iscritti nel 2008, 550 militanti e 1100 complessivi nel ‘09/10, 400 militanti con 1000 iscritti nel ‘11/13, 400 militanti con 900 iscritti nel ‘14/16, 300 militanti con 700 iscritti nel ‘17/18; meno di 240 militanti e 400 iscritti oggi. Un partito sparso, senza un baricentro territoriale ed esile nelle aree metropolitane (diversamente dalle altre formazioni dell’estrema sinistra, presenti e passate). Questa riduzione ha influito sulla sua struttura. Nel 2009 c’erano 11 sezioni con più di 20 militanti (To, Mi, Mz, Sv, Bo, Ce, Roma, Na, Ct, Cs, RC) e quasi altrettante oltre i 10 (Ge, Tigullio, Mn, Fi, Ch, Ri, Fr, Ca, Pa). Oggi abbiamo una sola sezione oltre i 20 militanti (RC) e solo 6 oltre i 10 (Mi, Mz, Sa, Ar, Ce e Me: 5 di esse sui 10).
Non è solo un logoramento organizzativo. Come evidenziato nello scorso congresso l’instabilità è un dato ricorrente per le nostre sezioni, come il logoramento del nostro quadro militante: ..la relativa esiguità delle nostre strutture ha portato in questi anni diverse sezioni a collassare (anche improvvisamente)..Diversi territori hanno conosciuto aspre divisioni, determinate sostanzialmente da dinamiche relazionali…Anche per questo, emerge in questo ultimo periodo una stanchezza diffusa nel quadro dirigente ed in quello militante più attivo, dovuto alla necessità di ricoprire più incarichi contemporaneamente e al peso della continua pressione su un ristretto quadro di forze. Una dinamica che, con l’ulteriore riduzione, si è cronicizzata e acutizzata.
È il logoramento di una tenue militanza. Il nostro metodo di costruzione poco attento al consolidamento ha configurato a un corpo militante poco formato, poco partecipe al dibattito politico e teorico, con deboli competenze per l’intervento nelle mobilitazioni e nella classe. Conseguenza di uno sviluppo ed un reclutamento incentrato sulla propaganda e in particolare sulla presentazione elettorale. Una propaganda basata sull’irregolare diffusione del giornale (spesso limitata a circuiti limitrofi) e sul volantino nazionale mensile (diretto all’avanguardia, lungo e argomentato, però di solito diffuso in mercati, quartieri e fabbriche, con una logica di massa e nel contempo poche risorse). Una propaganda portata avanti con sempre maggiore difficoltà e senza mai monitorarne i risultati (quantitativi e qualitativi). Spesso l’intervento di sezione è limitato all’ulteriore diffusione di volantini nelle mobilitazioni, in cui non si riesce o neanche si prova a conquistarsi ruoli nella loro organizzazione e direzione. Le sezioni vengono attivate e coordinate soprattutto per le elezioni (oltre che per qualche corteo nazionale, con una partecipazione molto limitata). Le poche eccezioni con un intervento politico sono disperse, prive di reale coordinamento. L’avvicinamento e il passaggio al PCL, spesso in-formato dal ruolo propagandistico di un dirigente più che da una reale condivisione del suo impianto programmatico, sono sfociati più volte nella dispersione o in altre esperienze. Ridotta se non venuta meno l’esposizione elettorale, queste fragilità (di cui il partito è consapevole sin dal suo primo congresso) ne stanno logorando la tenuta. Infatti, una militanza routinaria (incentrata su sporadici volantinaggi, occasionali raccolte firme, irregolari versamenti delle quote), che può confusamente prevedere la preminenza di questo o quell’aspetto a seconda dei territori, rischia di portare a consunzione l’organizzazione o a ridurla ad un semplice club di discussione, senza alcun impatto nello scontro di classe
Questo logoramento è evidente nell’intervento di massa. Nel PCL l’agitazione è spesso stata condotta in esperienze sconnesse (tra loro e col partito), ma, nonostante questo, con un ruolo in diverse realtà. Nelle correnti classiste della CGIL (da Rete28aprile a Riconquistiamotutto!), in particolare in Vda, To, Mi, Tr-Pa-Ve, Marche, Abruzzo, Cs e Rg; soprattutto in FIOM, FLC, FISAC e FILLEA. Nei sindacati di base, in particolare a Bologna in RdB-USB-SGB, nella SdL a Frosinone, a Trento in USB, con compagni/e sparsi. In alcuni luoghi di lavoro di una certa rilevanza: Fincantieri di Venezia, Marcegaglia di Forlì, Musei Civici Veneziani, Continental di Pisa, l’esperienza Desi ad Ancona. Nel movimento studentesco, dai collettivi universitari di Ce, Ca e CS ai coordinamenti medi a Na, Fi e Ge. Alcune esperienze tra i migranti (FI e Bs) e nelle lotte ambientali (in particolare a Me e Li). Con il III e IV congresso si è sviluppata maggior attenzione, anche se con una costante improvvisazione. In CGIL abbiamo oggi un centinaio di iscritti potenzialmente attivi. Nel quadro di una non scontata sopravvivenza dell’OpposizioneCGIL, il recente congresso ha segnato un indebolimento: dove esprimevamo un ruolo di direzione i risultati sono stati spesso negativi (Veneto, Abruzzo, Rc) e sono emersi altri punti di riferimento (in particolare a Cs e in Veneto), mentre siamo scomparsi dalla capacità di influenza in alcune categorie (FISAC, FILLEA e soprattutto FIOM, avendo perso la presenza negli organismi e un ruolo in aziende significative, con l’eccezione di Vercelli e IBM Milano). Indipendentemente da questa dinamica, abbiamo sviluppato fratture, anche con acuti contrasti, sulla linea come su ordinamenti e prassi dei nostri organismi (Massa Carrara, CC giugno 2018, Conferenza lavoratori e lavoratrici, soluzione amministrativa del contrasto nei Musei civici Veneziani, attivo febbraio 2019). Abbiamo comunque mantenuto un’influenza nell’area ed una presenza negli organismi CGIL (in particolare a Mi, in FLC e SPI; Vr, Ge, Ve e Tr; Pe e Cs; in Vda e in FLC nazionale; nei marittimi laziali e nella FILT nazionale).
Nei sindacati di base sono attivi una cinquantina di iscritti a USB, CUB e SGB, Cobas e altre esperienze. Si è riuscito a costruire un primo coordinamento (con riunioni e liste di collegamento) nella CUB-SGB, anche per l’avvio del processo di unificazione. Eppure, registriamo ancora una sostanziale mancanza di rapporti con gli attivisti in USB e nei Cobas, mentre il previsto bollettino (uno degli impegni del CC e della Conferenza dei lavoratori) non ha mai visto la luce.
Tra gli studenti registriamo un sostanziale collasso, nel quadro di un’irrisolta duplicità di linea (tendenza programmatica e intervento identitario di partito: vedi il documento del settembre 2018). In ogni caso, l’intervento di tendenza è oramai ridotto a pochissime realtà (come Padova), mentre quello di partito è occasionale (Lo studente trotskista, volantinaggi in alcune mobilitazioni nazionali).
Questo logoramento è anche elettorale. Le elezioni sono diventate sempre più difficili da affrontare, nel quadro del deterioramento del partito e dell’inasprimento delle norme per presentarsi. Le tornate 2014/16 avevano già evidenziato un quadro contradditorio: la presenza alle regionali solo in due realtà (buon risultato in Liguria, 0,8% davanti ad AltraLiguria); i pessimi risultati di To (0,17%), Mi (0,42%), e Na (0,08%); il buon risultato di Sv (1,2%) e Bo (1,3%). Nel triennio successivo siamo stati assenti in tutte le regionali (11, compresa la Basilicata dove eravamo nelle 2 occasioni precedenti) e nelle principali comunali (eccetto Ge nel 2017, con un buon 0,9%). Soprattutto incassiamo il brutto risultato delle politiche 2018 e delle europee 2019. Il 4 marzo il PCL, consapevole della difficoltà di una presentazione autonoma, ha sperimentato un cartello, rispondendo ad un invito di SCR ma limitandolo ad un’impostazione classista e internazionalista. Nel percorso di Per una sinistra rivoluzionaria ci si è ritrovati solo con SCR (SA è stata infatti attirata dall’imbuto di PaP, confermando la sua impostazione codista). Nonostante un bel simbolo e una buona impostazione politica, la campagna elettorale è stata molto negativa (anche a fronte dell’ampio coinvolgimento del percorso di PaP): scarsa partecipazione di avanguardie politiche e sociali; scarsa capacità di spiegare senso, ragioni e prospettive di un cartello; conduzione separata se non contrapposta tra le due formazioni; strappi nella segreteria PCL su candidature e sua organizzazione. Il pessimo risultato (alla Camera 29.176 voti, 0,08%; al Senato 32.501 voti, 0,10%) è stato determinato da molteplici fattori: il quadro del paese (sfondamento reazionario nelle classi subalterne), la scarsa presenza nei collegi (0,17% dove presenti), il risultato del PC (106.816 voti, lo 0,33%, in un numero molto più ampio di collegi). Il risultato complessivo è stato quindi disastroso, tale da segnare il profilo del partito. Un esito confermato dall’assenza alle europee. Nel 2009 il partito aveva dimostrato attenzione alla normativa e determinazione politica (ottenendo extra legem una presenza in 3 collegi su 5 ed il miglior risultato della sua storia). Il PCL, questa volta, non ne ha neanche considerato la possibilità. Eppure, si sono presentate diverse liste, sulla base di un precedente ricorso al TAR: non solo i Verdi (con un gruppo nel parlamento UE), ma anche Casapound, Forza Nuova, Partito dei Pirati, Popolo della famiglia, Partito Animalista, Pensiero e Azione, il PC (con il sostegno di deputati europei, nel quadro di alleanze più o meno reali).
Anche il centro del partito si è logorato in questi anni. In tutti i congressi del PCL è stata evidenziata la debolezza di un centro scomposto su diverse realtà (Bo, Mi, Ge e Ao), senza nessuna struttura territoriale in grado di supportarlo. Lo scorso, nel quadro di un complessivo rinnovamento del gruppo dirigente, si è sperimentata una nuova soluzione: una segreteria ampia (7+2 inviati), con il passaggio ad invitati di metà della precedente e una maggioranza di nuovi ingressi (tra cui più di uno giovane); la trasformazione del mezzo funzionario (prevalentemente tecnico) in uno politico (componente della segreteria, di fatto a tempo pieno), anche in una prospettiva transitoria rispetto al vicino pensionamento dell’altro storico funzionario (che avrebbe liberato risorse per diversi assetti, eventualmente più ristretti e funzionali). Registriamo il fallimento di quel tentativo. La segreteria (che già in partenza ha riportato il voto contrario di un ampio settore del CC) ha sviluppato conflittualità sempre più acute, le dimissioni successive di ben 3 componenti e un invitato, compreso il nuovo funzionario che non è stato sostituito. A ciò si aggiunge la permanente difficoltà delle Commissioni di settore, in alcuni casi anche solo a riunirsi, e l’evidente frammentazione del CC (per lungo tempo senza un baricentro politico, senza una chiara maggioranza). Rimane quindi aperto il problema di un assetto del centro del partito.
La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo: un processo reale può cioè esser pienamente compreso solo quando la realtà cambia di fase. I limiti nella costruzione del PCL emergono allora oggi, resi evidenti dal suo logoramento in una diversa stagione politica. La Grande Crisi aperta nel 2007/08, con il profondamento arretramento del conflitto di classe e un’incipiente egemonia reazionaria, hanno cambiato le dinamiche politiche e sociali. Per continuare a camminare dritto, per continuare a perseguire il nostro programma comunista rivoluzionario, è necessario cambiare corso. Rivedere la strategia di costruzione del partito, adattarla a questo nuovo contesto e quindi riavviare un nuovo processo di sviluppo di questo progetto politico. Perché compito di un pensiero non è solo l’osservazione del mondo, ma la trasformazione dello stato di cose presenti.
- LA BARBARIE: CRISI, IMPERIALISMI E CLASSE NEL MONDO
2.1 Le onde lunghe, la Grande Crisi e la sua gestione capitalistica
Un cambio di fase al termine di un’onda lunga: la Grande Crisi dal 2007/08. Non è una crisi determinata dall’esplosione incontrollata della finanza (globalizzazione), da politiche neoliberiste di compressione della domanda o da un Minsky Moment (il momento di rottura di un ciclo finanziario drogato da aspettative di crescita irrazionali). Tutti questi sono aspetti solo parziali di una crisi che è generale. Come nelle altre grandi depressioni (1820/42; 1873/95; 1929/43), siamo in una lunga fase involutiva sospinta da tendenze di fondo: la caduta dei saggi medi di profitto e la sovrapproduzione di merci e capitali. Se il punto di svolta al termine dei cicli espansivi è innescato dalla stessa contradditoria dinamica capitalista, la ripresa da una Grande Crisi ha invece la necessità di spinte esogene (grandi espansioni territoriali, guerre dispiegate o lunghe depressioni in grado di distruggere il capitale in eccesso). Il ciclo dei primi anni ‘90 (crollo del blocco sovietico, espansione capitalista cinese e aumento generalizzato dello sfruttamento), come quello degli anni ‘60 del ‘800 o negli anni ‘20 del ‘900, è stato breve, insufficiente per invertire la tendenza. L’onda lunga involutiva dispiega quindi oggi pienamente la sua influenza. E rende più che mai concreto l’antico motto socialismo o barbarie: o si imprime una rottura rivoluzionaria o sono inevitabili le barbarie di un capitalismo soffocato dalla sua stessa dinamica.
Senza rottura rivoluzionaria non c’è un crollo: c’è una gestione capitalista della crisi. Nonostante le aspettative finalistiche di un certo marxismo, anche rivoluzionario, il modo di produzione capitalistica non è però inevitabilmente portato alla sua estinzione. È necessaria, per la sua rottura ed il suo superamento, una volontà organizzata, un progetto politico, una vittoria soggettiva. Qui, al fondo, stanno le ragioni di un partito rivoluzionario programmatico e non della semplice azione antagonista della classe. Nella assenza di una rottura, allora, il capitalismo sospinge le barbarie per ricreare le condizioni di un nuovo ciclo espansivo. Dal 2008 in poi si è quindi dispeigata una gestione capitalistica della crisi, volta a contenerne gli effetti e a riavviare precariamente il circuito di valorizzazione mondiale. Le banche di Stato (FED, BCE, PBOC e BOJ) hanno affogato il mondo di liquidità, gonfiando i loro bilanci da 4mila miliardi di dollari (2007) a più di 20mila (2017): è quasi il 30% del PIL mondiale. Governi e padronati hanno avviato ristrutturazioni (alla ricerca di nuove redditività), riduzioni del salario globale (diretto, indiretto, sociale) e aumento dello sfruttamento (assoluto e relativo). L’elemento determinante, in ogni caso, è stata la crescita asiatica: l’espansione accelerata del nuovo capitalismo cinese e i relativi immani investimenti. Tutte queste politiche di gestione della crisi, in ogni caso, non hanno risolto le tendenze di fondo, ma anzi le hanno rilanciate (espansione del debito, oggi oltre il triplo del PIL; riduzione della domanda effettiva; acuirsi dei conflitti tra poli imperialisti).
2.2 Sviluppo ineguale e combinato del modo di produzione capitalista
Una dinamica ineguale e combinata. Il mondo non è piatto: integra diverse formazioni sociali. L’accumulazione si struttura con una polarizzazione in ogni paese, ma anche con poli mondiali ed una conseguente divisione internazionale del lavoro. La sua dinamica è sempre ineguale (subordinazione di alcuni territori all’esportazioni di merci e capitali, con conseguente sussunzione delle diverse formazioni sociali ai loro circuiti di valorizzazione) e nel contempo combinata (tutti i paesi sono integrati in un unico mercato, subendo influenze e cicli globali). Le crisi e le Grandi Crisi, con il loro sconvolgimento delle strutture sociali, ridefiniscono però periodicamente queste gerarchie. La dinamica capitalista impedisce quindi una stabilizzazione globale (l’impero di Negri; il super imperialismo di Hilferding o Kautsky), perché il suo stesso movimento mette ciclicamente in discussione ogni equilibrio. Questa dinamica si definisce oggi su tre poli continentali, molteplici potenze semiperiferiche, periferie eterogenee e zone marginali.
Gli USA: un imperialismo declinante tra revanscismi e resistenze. Gli Stati Uniti hanno dominato il ‘900. Dopo un’industrializzazione accelerata e un consolidamento nella grande depressione, hanno conquistato la supremazia nel dopoguerra. Qui era concentrata la maggior produzione di merci e di valore aggiunto (ancora oggi sono USA 130 delle prime 500 imprese). Qui hanno avuto ed hanno sede i principali centri finanziari. Il dollaro è ancora la moneta di riferimento ed è usato per esternalizzare parte dei suoi disequilibri. Con l’arrivo dell’onda lunga depressiva, il suo ruolo si è progressivamente eroso. L’espansione neoliberista li ha rilanciati (Washington consensus, finanza globale, nuovi colossi tecnologici), ma non ha arrestato il suo declino (che è iniziato ad emergere nel 2001 con la crisi delle dot.com). La sua proiezione militare sempre più invadente (dall’Afghanistan all’Irak) è sempre più difficile da sostenere e sta diventando a sua volta indicatore di declino. Nonostante la gestione capitalistica della crisi gli abbia regalato la più lunga fase espansiva dal dopoguerra (oltre 120 mesi di crescita), la sua società è sempre più frammentata (non solo su linee di classe, ma anche su storiche diseguaglianze etniche e territoriali). Si è quindi sviluppato sia un nazionalismo reazionario (con connotati etnici, penetrato nelle classi subalterne e che ha conquistato il governo con Trump), sia nuovi movimenti radicali (Occupy Wall Street, Black Lives Matter, Democrat socialist). Nonostante alcune lotte importanti (in particolare insegnanti e servizi), il lavoro rimane però sostanzialmente estraneo a questi processi politici.
L’Unione europea tra frammentazione e rilancio. Il modo di produzione capitalista nasce nei Paesi Bassi e in Inghilterra, espandendosi poi sul continente. Per lungo tempo è stato segnato dalla competizione tra imperialismi europei. Il dispiegarsi del dominio USA, in un continente diviso dalla guerra fredda, ha accompagnato il loro declino, spingendo ad un maggior coordinamento sotto guida francese e poi ad una maggior integrazione sotto guida tedesca. La UE ha quindi costruito un mercato unico delle merci e una moneta, senza integrare i capitali e le sue politiche di gestione (a partire da bilancio federale e sistemi fiscali coordinati). Ha cioè provato a sfruttare le sue dimensioni mantenendo spazi di autonomia nazionali. La Grande Crisi ha però acutizzato le contraddizioni di questo percorso. Da una parte ha sospinto un lento processo federalista, con infrastrutture di politica economica (Ecofin e patto di stabilità) e un ruolo federale della BCE (2012). Dall’altra ha rinvigorito tendenze centrifughe: divergenze tra il nucleo produttivo continentale e la periferia; nuovi nazionalismi nel cuore imperialista del continente (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia), nella sua buccia (Belgio, Svezia e Danimarca) e nella semiperiferia (Polonia, Ungheria e Slovacchia). La Ue si è quindi impantanata. La dinamica della Grande Crisi è probabile imprima nuove pressioni (crolli, instabilità e guerre). Si intensificheranno allora le tendenze centrifughe, con nuove di linee di frattura e crisi politico-istituzionali: il capitale continentale è debole, il suo baricentro tedesco limitato e non si è ancora costruito un luogo di composizione tra i diversi capitali nazionali (manca una direzione europea del capitale). Rimane però improbabile una sua disgregazione: proprio la dinamica della Grande Crisi intensifica anche la competizione interimperialistica, intensificando quindi le pressioni per un mercato unico (dazi e regolamenti), per mantenere la moneta unica (area di influenza), per una forza militare integrata (in una corsa agli armamenti non affrontabile separatamente dai diversi imperialismi). Nuovi momenti critici potrebbero allora imprimere improvvise accelerazioni, forzature federaliste e nuovi assetti.
Lo sviluppo imperialista cinese. Nei primi anni ‘80 la direzione denghista ha avviato una rivoluzione passiva, stabilizzando il regime stalinista e innescando uno sviluppo capitalista. Prima con timidi esperimenti, poi con l’estensione della valorizzazione, infine con l’integrazione nel mercato mondiale. Imprimendo una crescita mai vista (neanche in USA): il PIL nel 1981 era di 290 mld di dollari e da allora si è espanso ininterrottamente (solo una volta sotto il 5% nel ‘89/90; oltre il 10% nei primi anni ’80,’90, e 2000). Oggi la Cina è emersa, con un PIL intorno ai 12mila mld di dollari (gli USA sono sui 19mila e il Giappone sui 5mila). È la prima potenza industriale (29,5% del valore aggiunto manifatturiero, contro il 19% USA, l’8% giapponese, il 6% tedesco, il 2,5% di SudCorea, India e Italia), con grandi imprese come Stategrid, Sinopec e ChinaPetroleum (fatturati oltre i 300 mld di euro) e colossi privati come Huawei (53 mld), Weiqiao (tessile, 45 mld) e Lenovo (elettronica, 42 mld). L’ascesa del capitalismo cinese convive però con forti contraddizioni. Larga parte del paese è ancora povero: il PIL pro-capite è intorno agli 8mila dollari (30mila in Italia e 60mila in USA) e con forti squilibri (dai 14/15mila sulla costa ai 2/3mila del sud). La Grande Crisi ha determinato una flessione della crescita (dal 14% del 2007 a circa il 6,5% del 2018), che ha acutizzato gli squilibri ed espanso il debito (oggi oltre il 270% del PIL). Il suo sviluppo si è retto per anni sugli investimenti (sino al 50% del PIL): dall’espansione immobiliare a un impressionante rete infrastrutturale (oltre 26mila chilometri di TAV, più 10mila in costruzione, contro 16mila chilometri attivi e meno di 5mila in costruzione in tutto il resto del mondo). Proprio queste contraddizioni sospingono oggi una sua proiezione imperialista: l’esportazione di capitali (moltiplicati di 15 volte dal 2000), il dispiegamento di assi di espansione (Belt and Road Initiative), la costruzione di un’area di riferimento (ruolo del yuan, Banca Asiatica d’Investimento, accordi di Shangai), l’estensione di primi timidi tentacoli militari (Mar Cinese Meridionale; flotta d’alto mare; base di Gibuti). Una proiezione embrionale ma in rapido sviluppo, che non dovrebbe esser messa in discussione da una possibile recessione (anche gli USA conobbero una depressione negli anni ‘30, senza mettere in discussione la loro ascesa).
Gli altri paesi a capitalismo avanzato e la semiperiferia, tra volontà di potenza e conflitti regionali. Nello sviluppo ineguale e combinato del mondo si inseriscono diversi paesi a capitalismo avanzato, con un significativo sviluppo industriale e/o un controllo delle proprie materie prime. In primo luogo, il Giappone: terza potenza economica del mondo, con una base imperialista ma senza le dimensioni per competere con gli altri poli e, per la sua storia, senza una politica di potenza. In secondo luogo, la Russia: un paese con un’evidente propensione alla politica di potenza (eredità dell’URSS e del suo apparato militar-industriale), ma senza una struttura imperialista in grado di sorreggerla. Ci sono poi potenze a recente sviluppo (Corea del Sud, India, Brasile, e Messico) o con un ruolo nelle proprie aree di riferimento (Arabia Saudita, Turchia, Taiwan, Iran, Argentina, Sudafrica, Israele, Pakistan, ecc). La competizione tra i poli imperialisti si intreccia pericolosamente con le loro volontà di potenza in tre punti critici: il Medioriente, l’Heartland (l’area tra India, Pakistan e Russia) e soprattutto il Pacifico. In una dinamica diversa si trova l’America Latina. Le potenze dell’area non si contrappongono direttamente, mentre le competizioni interimperialistiche non sono per ora acute: gli USA cercano di mantenere con qualche difficoltà la loro influenza, la UE è cresciuta sostenendo le democrazie post dittatoriali ed il loro parziale sganciamento dell’influenza USA, mentre negli ultimi anni è esplosa la presenza cinese. Queste diverse formazioni sociali direttamente la Grande Crisi (crolli finanziari, riduzione domanda e commercio, caduta prezzi delle materie prime) e la crescente competizione imperialistica (guerre monetarie con svalutazioni e rivalutazioni, definizione aree di influenza e corridoi infrastrutturali, conflitti nelle aree di confine). Non a caso hanno conosciuto quasi tutte derive nazionalistiche, spesso di impronta reazionaria (Giappone, Russia, India, Israele, Turchia, Pakistan, Argentina) anche se non sempre (Messico e Corea).
Periferie tra volontà di fuga, conflitti e marginalità. Le realtà periferiche comprendono formazioni sociali molto eterogenee: paesi a recentissimo sviluppo industriale (dal Bangladesh al Vietnam); economie di esportazione più o meno semi-coloniali (dall’Uzbekistan al Congo), luoghi di transito nei corridoi internazionali (dallo Sri Lanka al corno d’Africa), aree cuscinetto (dal Nepal alla Bielorussia) e marginali (dal centroamerica alle Salomone). Un intero continente rientra in questo quadro, l’Africa: il più giovane e quello con la più alta crescita demografica. Sono formazioni sociali travolte della rapida globalizzazione e dalla Grande Crisi, dalle tensioni interimperialistiche, dai conflitti regionali tra potenze. Il loro inserimento nei processi di valorizzazione ha sconvolto quelle società, attraverso la sussunzione formale (commercializzazione) o reale (controllo dei processi di lavoro) di settori estranei alla logica capitalista, perché sotto controllo collettivo (servizi pubblici o spazi comunitari) o regolati da altre logiche (servizi personali, piccola produzione artigiana/contadina). Sono paesi segnati da acuti conflitti sociali e guerre civili; talvolta dominati da borghesie compradore e regimi militari, talvolta da strutture comunitarie e signori della guerra. In queste realtà si sviluppano regimi nazionalisti, di matrice progressista ma anche fascista, che provano a sganciarsi dai mercati mondiali o dagli imperialismi di riferimento. Sostenuti da ampi fronti sociali che coinvolgono settori di borghesia nazionale, dell’esercito e dello Stato. Talvolta, per resistere, si appoggiano ad imperialismi lontani. Sono realtà diverse tra loro e talvolta opposte (dal Venezuela di Chavez all’Afghanistan talebano passando per il Rojava Kurdo) ed in questo quadro rientra anche l’attuale esperienza cubana, tentata dall’inserimento nei mercati mondiali (come Vietnam e Cambogia), ma timorosa di veder travolto il suo regime burocratico per la vicinanza USA.
Non (ancora) alla vigilia di un conflitto mondiale. L’approfondirsi della Grande Crisi acutizza i conflitti. In primo luogo, precipitando lo sviluppo di aree monetarie e commerciali (conflitti valutari, dazi, standard normativi). Negli ultimi tempi è cresciuta anche la tentazione di piattaforme tecnologiche autonome (dalla geolocalizzazione ai sistemi operativi), nonostante gli ingenti investimenti, la frattura mondiale ed il conseguente passo verso un conflitto dispiegato. Accelera la corsa agli armamenti, anche nucleari. Una dinamica che, in ogni caso, sta moltiplicando e cronicizzando guerre locali, spesso per procura ma che vedono sempre più il coinvolgimento di potenze regionali e poli imperialisti (Ucraina, Sahel, Siria, Irak, ecc). Non siamo ancora avviati su binario di un conflitto mondiale, come negli anni ‘30 del secolo scorso. Si devono ancora definire i solchi tra i diversi poli, con una loro strutturazione politica e militare (in particolare, per Cina ed Europa). Inoltre, questa è la prima Grande Crisi che vede la disponibilità di armi nucleari e batteriologiche, che in un conflitto dispiegato minaccerebbero la sopravvivenza non solo di tutti i belligeranti, ma dello stesso genere umano. La dinamica, nondimanco, si muove su quel crinale storico e la Grande Crisi, come l’evoluzione di conflitti regionali, potrebbe determinare accelerazioni improvvise ed inaspettate.
2.3 Sviluppo capitalista e crisi ambientale.
Le fragilità di un mondo non più in grado di contenere il modo di produzione capitalista. L’uomo ha modificato il suo rapporto con la natura mediante lo sviluppo dei mezzi di produzione. Il rapporto dell’uomo con la natura è dunque un rapporto storico mediato dalla società, in cui i rapporti degli uomini fra loro determinano anche le trasformazioni ambientali. Il modo di produzione capitalista innesca un particolare degrado degli ambienti. In primo luogo, la natura viene progressivamente mercificata (come tutte le cose, materiali e immateriali), cioè ridotta ad un prezzo: il suo consumo diventa un fattore economico, i cui costi si possono esternalizzare su altri territori o generazioni. In secondo luogo, la dinamica della continua valorizzazione imprime una crescita senza confini alle forze produttive, sino al punto di suscitare un conflitto fra la società umana e il pianeta che la ospita. In terzo luogo, nei momenti di crisi le barbarie coinvolgono anche gli ecosistemi: da una parte per la ricerca spasmodica di nuovi margini di profitto, dall’altra per la cosiddetta distruzione creatrice del capitale in eccesso. La dinamica capitalista rende quindi sempre più evidente la sua incapacità di rispettare i limiti ecologici. Non è più solo la questione dei limiti dello sviluppo (l’esaurimento delle risorse), ma il problema di una trasformazione incontrollabile dell’ecosistema (effetti antropici sulla biosfera). Con l’accelerazione dello sviluppo capitalistico si è oggi raggiunto un punto di svolta, con un impatto (dal surriscaldamento all’inquinamento diffuso) che mette a rischio le stesse condizioni di riproduzione dell’uomo.
La seconda contraddizione nella dinamica ineguale e combinata. I processi di degrado della biosfera ricadono sull’insieme dell’umanità, senza distinzione di classe o formazione sociale. In questo senso, da decenni si parla di una seconda contraddizione del capitalismo, che affianca quella primaria tra capitale e lavoro. Il cambiamento climatico ed il degrado degli ecosistemi, però, non ricadono nello stesso modo sulle diverse classi e sulle diverse formazioni sociali. I paesi a capitalismo avanzato hanno risorse e strutture sociali in grado di garantire minime condizioni di produzione (dagli standard di fabbricazione al controllo dell’acqua). In tutte le società, le classi dominanti sono in grado di accedere a strumenti di protezione. Così, gli effetti del degrado colpiscono in primo luogo alcune popolazioni ed alcune classi, moltiplicando diseguaglianze ed iniquità. Certo, la crisi ambientale, coinvolgendo l’insieme della società umana, tende sempre più a sviluppare ampi movimenti (come Friday for future), talvolta legati a un singolo territorio (come la Val Susa), che pongono una domanda di democrazia e salvaguardia dell’ambiente (dalla riduzione della plastica all’energia pulita, dal rifiuto di grandi opere al controllo di stabilimenti inquinanti). Le attuali classi dominanti, però possono imporre solo una regolazione parziale a questo uso capitalistico della natura, non volendo metterne in discussione la dinamica di fondo. La seconda contraddizione del capitalismo, allora, diversamente da quella capitale-lavoro non sviluppa nella sua dinamica una forza antagonista nei confronti dello stato di cose presente. Solo il lavoro organizzato ha un interesse diretto a superare l’attuale modo di produzione. Per questo è il lavoro, ed il suo progetto politico rivoluzionario, che deve farsi carico anche della contraddizione ambientale. Assumendo una consapevolezza ecologica ed un programma eco-socialista, riconducendo il rapporto tra uomo e natura, ed il rapporto tra uomo e uomo, sotto il controllo dei produttori associati, cioè di una società socialista.
2.4 La classe nella crisi: un proletariato disperso e frammentato
La dinamica ineguale e combinata ha diviso la classe nelle diverse formazioni sociali. Le sconfitte dei primi anni ‘80, le politiche neoliberiste degli anni ‘90, i processi di radicale ridefinizione della divisione internazionale del lavoro hanno portato ad un sostanziale arretramento dei rapporti di forza tra le classi: una scomposizione e disorganizzazione nei paesi a capitalismo avanzato; lo sviluppo di un proletariato immaturo in quelli a recente industrializzazione; uno isolato e sradicato in tante semi-periferie e periferie.
Nei paesi a capitalismo avanzato, una classe scomposta e disorganizzata. Qui ha pesato in primo luogo la sconfitta dei primi anni ’80 (controllori di volo USA, FIAT, minatori inglesi). I movimenti degli anni ‘90 (l’autunno dei bulloni in Italia, contro la riforma delle pensioni in Francia, contro la poll-tax in Gran Bretagna), le diffuse resistenze nella produzione (fabbrica per fabbrica e settore per settore) o i movimenti contro la globalizzazione dei 2000 non sono riusciti a cambiare il segno. Tutte le società a capitalismo avanzato sono state quindi interessate da profonde ristrutturazioni, sotto il comando del capitale, che hanno cambiato la struttura del salario (riducendolo, rendendolo più variabile, spostandone quote nei fondi pensione, tagliando il welfare), hanno diviso il lavoro (precarizzazioni e articolazioni contrattuali), hanno disperso la produzione su lunghe filiere o nuovi settori (spesso dispersi, come i servizi a persone ed aziende). Le grandi concentrazioni si sono quindi snellite (l’Ilva di Taranto, la principale industria del secondo paese manifatturiero d’Europa, ha oggi 13mila dipendenti, mentre gli altri grandi stabilimenti del paese sono quasi tutti sui 5mila). Non è solo un problema di dispersione: la massiccia introduzione delle tecnologie (ancora in corso) ha trasformato la composizione di classe (ridefinendo qualifiche e mansioni). Processi che la Grande Crisi ha sostanzialmente approfondito, scomponendo e disorganizzando il movimento operaio, sfaldando le sue culture. Negli ultimi anni, infatti, le grandi mobilitazioni contro la gestione capitalistica della crisi (ad esempio, sulle pensioni in Francia nel 2010; Occupy Wall Street negli USA e gli indignados in Spagna nel 2011, in difesa del welfare in Gran Bretagna nel 2011; le decine di scioperi greci contro la troika nel ‘12-14; contro la buonascuola in Italia nel ‘14/15; contro l’austerità in Belgio e la presidente Park in Corea nel ‘16, contro la Loi du travail e i gilles jeune nel 2017 in Francia), hanno visto una composizione fluida, una scarsa identità del lavoro, si sono spesso spenti nel vuoto senza lasciare tracce del loro passaggio.
Nei paesi a recente sviluppo, una nuova forza immatura. Nella dinamica ineguale e combinata, gli ultimi decenni hanno visto l’industrializzazione e la crescita di alcune formazioni sociali. Uno sviluppo che ha inevitabilmente determinato un’espansione della classe: la loro occupazione manifatturiera è infatti aumentata di oltre il 120% dal 1980. Questo sviluppo ha inevitabilmente sospinto un lungo ciclo di lotte. La Grande Crisi lo ha rafforzato. In Cina sono state censite oltre 10mila lotte negli ultimi dieci anni, con un’evoluzione: dalla concentrazione nel settore manifatturiero ad una distribuzione più equa tra industria, servizi e trasporti; da una concentrazione nel Guandong ad una diffusione ad altre province costiere e interne; da una concentrazione in grandi imprese (come lo sciopero a Dongguan nel 2014, che coinvolse 40.000 lavoratori) ad una diffusione più generale. La Cina non è l’unica realtà: basti pensare ai tessili in Vietnam nel 2008, 2011 e 2015; in Cambogia nel 2014; in Indonesia nel 2013, 2015 e 2017; in Bangladesh del 2010, 2013 e inizio 2019; agli scioperi dei minatori sudafricani nel 2012-14 (con la strage di Marikana, 34 morti sotto il fuoco della polizia) o quelli generali indiani (con 200 milioni di partecipanti) del 2016 e 2019. È una classe giovane, di età e tradizione, in larga parte di recente immigrazione. Spesso è ancora in condizioni di semi-legalità, precariato e alta mobilità. Una classe quindi poco organizzata, con un’identità incerta, una coscienza politica debole e spesso repressa (in particolare nei paesi di matrice stalinista). Queste lotte, infatti, si sono dispiegate con un’impostazione economicista, senza la capacità di incidere sulla gestione politica della crisi.
Nelle periferie e nelle semi-periferie, un proletariato isolato e sradicato. La globalizzazione ha esteso i processi di valorizzazione del capitale in tutti i paesi. Così, in particolare con la nuova rivoluzione agricola, si sono sconvolte formazioni sociali composite, con significativi mercati locali o una limitata riproduzione contadina. Questi processi hanno determinato un’accelerata urbanizzazione, portando più di metà della popolazione mondiale in città (proprio dal 2007/09). Diversamente dal passato, questo fenomeno interessa oggi anche paesi semiperiferici e periferici: non solo Tokyo (38 milioni di abitanti) o Shangai (27 milioni), ma anche Delhi (25) o Istanbul (14) e Lagos (21) o Dhâkâ (15). Un nuovo popolo dell’abisso: sottoccupato o inoccupato, giovane, poco scolarizzato e scarsamente professionalizzato, sradicato anche se spesso ha ricostruito nuove comunità (talvolta etniche o religiose, altre volte microterritoriali, spesso con un forte antagonismo sociale). Gli strati operai, la classe organizzata, sono un’enclave in queste masse proletarie e semiproletarie. Talvolta isolate, talvolta precarie, talvolta in un rapporto fluido con il quadro più ampio delle classi subalterne. Al loro fianco, in particolare nelle semiperiferie, c’è una nuova classe media (impiegati pubblici; ceti commerciali legati alle esportazioni, al turismo, alla distribuzione; tecnici di multinazionali o monopoli statali). Una piccola borghesia sempre sull’orlo, con aspirazioni globali ma che può cadere in ogni momento per la mancanza di retroterra patrimoniali e protezioni sociali. Una componente rilevante ne sono gli studenti, con grandi aspettative ma a rischio di cadere nell’abisso per la difficoltà ad assorbirli nel sistema produttivo. Una gioventù già socialmente in tensione, inserita in società tradizionali, con stereotipi, discriminazioni di genere, un ampio controllo dei comportamenti e repressione sessuale. La Grande Crisi ha colpito pesantemente queste fragili strutture con instabilità, guerra valutaria strisciante, crollo delle materie prime e contrazione del commercio mondiale. Si sono visti scioperi e movimenti operai (come in Egitto, in particolare alla Mahalla nel 2007, 2011 e 2017; o in Turchia nel settore auto nel 2014), in genere però isolati dalla più complessa dinamica sociale, di cui sono state protagoniste le classi medie spaventate o l’ampio sottoproletariato urbano. Esperienze molto diverse, come l’onda verde iraniana del 2010, le proteste algerine del 2010 e 2019, le mobilitazioni di Gezi Park nel 2013, le lotte per i servizi urbani in Brasile nel 2012/14, la rivolta sudanese del 2019 e soprattutto la cosiddetta primavera araba (partita in Tunisia, sviluppata in Egitto e sfociata nelle tragiche guerre civili in Libia ed in Siria). Una rivoluzione sociale (“pane, lavoro e dignità!”) senza una solida base di classe e senza organizzazione rivoluzionaria, che si è attorcigliata in una progressiva deriva tra tentativi fondamentalisti (Egitto di Morsi), ritorno a regimi compradori (Tunisia) e militari (Egitto di Al Sisi) o un comunitarismo dominato da signori della guerra (Libia e Siria).
Migrazioni e modo di produzione capitalista. La frammentazione della classe, in tutte queste diverse realtà, è moltiplicata dalle grandi migrazioni e dalla conseguente diffusione di pregiudizi e razzismo. L’intera storia della nostra razza (homo sapiens sapiens) è la storia di una lunga migrazione iniziata 70mila anni fa dalla Rift Valley (più o meno in Etiopia) e di un’ibridazione con altre specie (Neanderthal, Denisova e altri). Da allora si sono ripetute diverse ondate migratorie (in particolare con l’agricoltura, 8/10 mila anni fa; l’utilizzo del bronzo, 5000 anni fa; l’uso del ferro, 3000 anni fa; il crollo dell’impero romano, 500 anni fa; la colonizzazione delle Americhe, 500 anni fa). Il modo di produzione capitalista le ha però trasformate: da una parte l’integrazione dei mercati mondiali, nel quadro di uno sviluppo ineguale e combinato, ha sollecitato lo spostamento di manodopera; dall’altra ha gli spostamenti sono passati da collettivi (eserciti, tribù e popoli) a molecolari (individui e famiglie, nel quadro di corridoi socialmente determinati). Basti solo pensare agli Stati Uniti, dove tra il 1830 ed il 1914 emigrarono oltre 30 milioni di Europei. Il ciclo espansivo neoliberista e la successiva Grande Crisi, nel quadro del punto di svolta ecologico che stiamo vivendo, hanno rilanciato massicciamente queste migrazioni. In primo luogo, dalle campagne alla città: basti pensare che solo in Cina i mingong (i migranti precari) sono quasi 300 milioni, con un estesa ondata di diffidenza, razzismo e pregiudizio nei loro confronti (in particolare per quelli dall’Henan e dal nord est). In secondo luogo, tra paesi: oggi si ritiene che gli emigranti siano oltre 250 milioni nel mondo, in particolare in Asia (80 milioni), Europa (75) e Nordamerica (oltre 50). Muovendosi molecolarmente, cause e prospettive delle migrazioni sono molteplici (rifugio temporaneo da conflitti, ricerca temporanea di lavoro per garantire un reddito alle famiglie a casa, ricollocazione per condizioni sociali o cambiamenti climatici nei paesi di provenienza, ecc), ma si inseriscono in flussi determinati, legati a particolari condizioni geografiche, politiche e sociali. Così, oggi ci sono specifiche comunità migranti, con una loro concentrazione territoriale e professionale. Il modo di produzione capitalista, cioè, da una parte innesca i processi migratori, dall’altro sfrutta le divisioni nella classe. In Italia, il fenomeno migratorio è rilevante: secondo Eurostat, siamo il quarto paese europeo per popolazione immigrata (6,1 milioni), dopo Germania (12,1), Regno Unito (9,3) e Francia (8,2), davanti alla Spagna (6). È un’immigrazione recente: sino alla metà degli anni ‘70, l’Italia era storicamente paese di emigrazione (29 milioni in cent’anni, di cui solo 10 milioni sono tornati), con comunità significative all’estero (Nordamerica, Francia, Germania, Svizzera, Argentina e Brasile). L’immigrazione è cresciuta nei primi anni ‘90 ed in trent’anni i flussi sono variati notevolmente: oggi sono presenti soprattutto romeni (1,2 milioni), albanesi (440mila), marocchini (420mila), cinesi (300mila, tra le più importanti in Europa) e ucraini (240mila). La metà è concentrata nelle aree di Roma, Milano, Torino, Brescia, Napoli, Firenze, Bergamo, Bologna e Verona. Quasi 900mila sono studenti, quasi 3 milioni occupati: il 30% nei servizi (dalle pulizie alle badanti), intorno al 20% nell’industria ed il 15% nell’edilizia, anche se più del 10% ha una propria impresa (per lo più piccoli commercianti). In questo quadro, nonostante i crescenti livelli di pregiudizio e razzismo, nonostante tassi di sfruttamento e disuguaglianza particolarmente evidenti, nonostante la concentrazione in alcune nicchie e settori (bracciantato, logistica, macelli, ecc) e i diffusi rischi di marginalizzazione sociale, è utile sottolineare che nel movimento del lavoro, nel sindacato e nei conflitti di classe, si registra una certa integrazione: nei conflitti della produzione l’identità di classe prevale sulla pregiudizio sociale, anche nella bergamasca, nel bresciano, nel vicentino o nel trevigiano.
2.5. La frammentazione delle direzioni di classe, per la IV internazionale.
Lo sfaldamento di classe e la sua direzione politica. Il ciclo neoliberista è stato segnato da tre processi. Il passaggio di larga parte delle direzioni socialdemocratiche su posizioni social liberiste (Europa, Sudafrica, Oceania, ecc), che ha trascinato con se larga parte dei movimenti progressisti (dalla Palestina all’Angola). Lo sbandamento, con il crollo sovietico, di larga parte dei partiti di matrice stalinista, sfociati in percorsi variegati (la loro immutata riproposizione, il compiuto inserimento nella sinistra riformista o addirittura liberale; nuovi soggetti compositi della sinistra radicale). Le molteplici resistenze contro la globalizzazione hanno inoltre sviluppato movimenti antagonisti, radicali e popolari. La tradizionale divisione del lungo dopoguerra tra forze comuniste (più o meno staliniste), forze riformiste (più o meno socialiste) e nazionalismo progressista (più o meno radicale), si è quindi fluidificata, liberando energie ma anche creando diffusi eclettismi.
Su questa fluidità si sono sviluppate esperienze ibride e confuse. Diversi movimenti hanno variamente intrecciato impostazioni democratiche, radicali, anticapitaliste, nazionaliste, progressiste o addirittura reazionarie. Pensiamo alle particolari amalgame nell’esperienza zapatista (zone liberate, comunitarismo democratico, fronte interetnico) o in Venezuela (propensione antimperialista, vaghe idee di socialismo, nazionalismo autoritario e comunitarismo sociale); nel Rojava (zone liberate, impostazioni comunaliste, istanze democratiche, radicalismo femminista, riforma agraria e illusione di un mercato regolato basato sulla piccola impresa) o nel governo comunista nepalese (impostazioni maoiste di accerchiamento urbano e strategie togliattiane da riforma di struttura) nelle resistenze iraniane (propensioni democratico-liberali, lotte economiche della classe operaia petrolifera e dei trasporti, istanze libertarie di donne e studenti) o nelle piazze turche (istanze democratiche ed ecologiste; nazionalismo kurdo democratico con strategie da zone liberate urbane; resistenze operaie). Nei grandi movimenti di questi anni, cioè, non solo si sono sfumate le identità di classe, ma è sostanzialmente prevalsa una strategia più o meno imbastardita di fronte popolare. Nel quadro di una Grande Crisi e di una possibile precipitazione dei conflitti interimperialistici, si è cioè pericolosamente accompagnato l’occultamento della faglia tra lavoro e capitale, rischiando conseguentemente di occultare quella prospettiva internazionalista oggi tanto più necessaria.
Le avanguardie e le organizzazioni rivoluzionarie si sono trovate isolate. Nonostante la fluidità creata dallo sbandamento delle direzioni tradizionali, nonostante le significative resistenze al ciclo neoliberista, i soggetti rivoluzionari sono rimasti marginali e senza influenza di massa. Mancano cioè nel mondo grandi movimenti di massa, o rotture esemplari, con una dinamica ed una direzione rivoluzionaria, in grado di diventare un fattore di riorganizzazione politica della classe a livello internazionale. Emblematica la parabola greca: Tsipras, dopo aver capitolato alla troika ed aver tradito le mobilitazioni che lo avevano portato al governo, riconfigurando definitivamente SYRIZA e il suo governo come forza riformista, al temine di 5 anni di governo di austerità e nel ripiegamento complessivo delle lotte, perde il governo per Nea Demokratia (39%), ma conquista il 31%; recuperano qualcosa i suoi critici radicali (Varoufakis il 3,4%, Konstantopoulou l’1,4%) e si mantiene il KKE (5,3%), mentre i settori classisti, internazionalisti e rivoluzionari sono divisi e marginali (Antarsya 0,4%, l’EEK 0,04%, OKDE 0,03%). In un’unica realtà, l’Argentina, si è sviluppata un’esperienza di influenza di massa (il FIT), con un fronte però segnato da un’aspra competizione tra le sue componenti.
Sconfitte e limiti dell’esperienza della IV internazionale. La IV ha subito la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria dell’immediato dopoguerra, coartata dalla logica dei blocchi USA-URSS; ha affrontato la lunga egemonia stalinista; è stato sorpresa dal lungo ciclo espansivo del dopoguerra. Il suo nucleo dirigente, intorno a Pablo e Mandel, ha quindi sviluppato un’impostazione codista, dall’entrismo profondo all’inseguimento delle ondate terzomondiste. L’opposizione a questa deriva si è però divisa in strutture distinte, spesso dominate da leader o partiti centrali. Così, l’ondata di lotte al termine di quel ciclo (fine anni ’60 e ’70) ha conosciuto una IV internazionale indebolita e divisa, travolta dai nuovi impianti maoisti e movimentisti. La sconfitta ed il riflusso degli anni ’80 ha quindi visto il rilancio di organizzazioni centrate su un singolo impianto, un singolo partito o un leader di riferimento, con una decina di organizzazioni internazionali che si richiamano alla matrice della Quarta. Mentre il Segretariato Unificato, erede di Pablo e Mandel, si è sostanzialmente trasformato in un coordinamento che, mantenendo un generico impianto teorico, comprende diversi programmi. Mente l’esperienza del CRQI, nonostante la sua impostazione programmatica, è nel tempo degradata, con il PO che ha sempre più fatto pesare la sua primazia, i suoi tempi e le sue letture politiche, ostacolando ogni percorso democratico e centralista.
Il PCL si fonda sul raggruppamento programmatico, anche sul piano internazionale. Il richiamo alla IV internazionale è un sintetico riferimento ad un programma comunista e rivoluzionario. Un richiamo che, in realtà, nella sua esperienza storica comprende diverse impostazioni e che quindi avrebbe bisogno di esser superato: come ci insegna la storia, però, saranno degli eventi discriminanti, con le conseguenti reazioni e ricomposizioni, a definire eventuali nuove bandiere, non la volontà soggettiva di questa o quella organizzazione. Il PCL riafferma quindi la sua impostazione programmatica, proprio per provare a superare le dinamiche oggi dominanti nell’avanguardia rivoluzionaria. Un’impostazione programmatica centrale in un tempo di Grande Crisi che sta accelerando contraddizioni interimperialiste senza (ancora) la prospettiva di una guerra mondiale, crescono infatti tensioni e conflitti. Con l’emersione sempre più evidente dell’imperialismo cinese, si determineranno nuove linee di faglia nel fronte di classe internazionale (come sulla Siria). La presenza di un polo programmatico, chiaro nella sua impostazione e nel suo metodo di costruzione, potrebbe quindi esser uno dei possibili fattori soggettivi in grado di sospingere processi di rottura, ridefinizione ed evoluzione degli attuali raggruppamenti.
Questo polo programmatico pensiamo possa ripartire con la sinistra del Segretariato Unificato. Un percorso di confronto che abbiamo avviato da tempo, rilanciato alla conferenza internazionale dello scorso febbraio. I percorsi di raggruppamento vanno sempre verificati nella prassi, con l’obbiettivo di sfociare in tempi certi in un nuovo coordinamento internazionale, attraverso cui procedere ad un più ampio raggruppamento programmatico, in grado di rivolgersi all’insieme più ampio dell’avanguardia rivoluzionaria internazionale oggi divisa in diverse strutture e organizzazioni (spesso ancora dominate da logiche settarie o dinamiche centriste, dalla UIT alla LIT, dal FT-CI alla RCIT). Coinvolgendo, nei suoi percorsi di confronto e costruzione (a partire da dibattiti e conferenze pubbliche, come campagne politiche di agitazione e propaganda internazionalista) anche soggetti oggi ancora al di fuori del marxismo-rivoluzionario, ma in possibile evoluzione in questa direzione.
- UNA DIVERSA GESTIONE CAPITALISTICA DELLA CRISI: POPULISMI, NAZIONALISMI ED ESTREME DESTRE NEOFASCISTE
3.1 In assenza di rotture e processi rivoluzionari, lo sviluppo di nazionalismi e populismi reazionari
In questi dieci di anni di Grande Crisi, le classi dominanti hanno imposto una sua gestione capitalistica; le resistenze popolari non sono riuscite a fermarle. Nei paesi a capitalismo avanzato la necessità di proseguire ed anzi approfondire le politiche neoliberiste ha profondamente scosso l’egemonia sociale, politica e culturale del capitale. Nei paesi recentemente emersi o in sviluppo, si è dovuto rilanciare il ruolo dello Stato e dei suoi regimi, con un rinnovato intervento pubblico e spirito nazionalista. Nelle semiperiferie e nelle periferie è stato sempre più difficile reggere meccanismi di regolazione sociali essenziali (crollo del prezzo delle materie prime, aumento del costo del cibo, incapacità di rispondere alle aspettative di giovani e classi medie). Come abbiamo visto, in tutti questi paesi abbiamo conosciuto conflitti contro la crisi e la sua gestione, che però hanno sempre più rivelato la loro ambiguità politico sociale o il loro profondo arretramento rivoluzionario. Scioperi diffusi, ma schiacciati su una dinamica economicista (come in Cina). Ampi movimenti popolari, con inedite forme di autorganizzazione, ma ambivalenti: dinamiche di massa in cui, senza la scesa in campo del lavoro (la sua organizzazione e la sua direzione) diventa difficile contrastare la loro incipiente deriva reazionaria (gilles jeune in Francia). Vere e proprie rivolte, condotte in prima fila da un ampio proletario disgregato o una piccola borghesia spaventa, che velocemente implodono in derive nazionaliste, nuovi regimi e frammentazioni comunitariste (primavere arabe). La conquista del governo da parte di movimenti pololari, in particolare in America Latina (da Correa in Equador a Mujica in Uruguay, da Morales in Bolivia a Humala in Perù), su cui era diffusa l’aspettativa che potessero sganciare il continente dalla sua subordinazione imperialista e da quella gestione capitalistica della crisi (più o meno in relazione con il Venezuela di Chavez, il Brasile del PT e l’Argentina dei Kirchner): un percorso improbabile, scollegato da qualunque impostazione di classe, che è rapidamente collassato in nuove politiche neoliberiste, derive autoritarie e degenerazioni clientelari. L’unico momento in cui è parso in discussione lo stato di cose esistenti è stato nel 2014/15 in Grecia: la permanente mobilitazione di classe, la vittoria di Syriza e dell’Oxi, è parsa aprire una crepa. La capitolazione dell’estate 2015, però, non ha solo determinato l’integrazione riformista di Tsipras, ma anche una stabilizzazione delle politiche continentali di gestione della crisi. Nonostante la crisi e la sua gestione abbiano logorato dappertutto l’egemonia delle classi dominanti e sollevato ampi movimenti, talvolta con l’abbattimento dei poteri politici locali, non è allora riuscita ad emergere un’alternativa, mentre il conflitto di classe ed i processi rivoluzionari sono arretrati.
Nell’ultimo decennio si è allora progressivamente sviluppata una diversa ipotesi di gestione capitalistica della crisi, contrapposta a quella dominante. La pressione per una svolta, non avendo trovato risposte, si è rivolta a destra. A partire dalla richiesta di nuove politiche pubbliche, capace di garantire una difesa nella competizione e nei conflitti internazionali. Una politica quindi di sostegno al capitale, non solo con incentivi e sussidi ma anche con un intervento diretto dello Stato (dalla difesa dei mercati agli investimenti). Una politica, nel contempo, di loro regolazione, cercando di sviluppare nuove protezioni sociali in un tempo di grandi trasformazioni e devastanti conflitti. Queste richieste sono state assunte da movimenti reazionari e nazionalisti. Movimenti cioè che hanno una rappresentazione organica della società, centrata su comunità immaginarie di riferimento, attraverso cui contenere gli interessi parziali (a partire da quelli di classe, mentre quelli del capitale sono percepiti come essenziali alla riproduzione della comunità nel suo insieme e come tale preservati). In questo quadro, tendono a sviluppare l’immaginario di un passato mai vissuto (e di un futuro mai vivibile), con una struttura produttiva centrata sul piccolo capitale e relazioni sociali conservatrici (patria, famiglia e religione contro il relativismo culturale della globalizzazione). In questo modo, si propongono di sostenere una relativa stabilizzazione sociale e quindi di perseguire quelle politiche contro il lavoro indispensabili alla gestione capitalistica della crisi. Nonostante questo generico impianto di riferimento, non ci sono ancora chiari indirizzi di politica economica, un assetto definito di regolazione sociale. Soprattutto, di fronte all’arretramento dello scontro di classe ed alla debolezza delle direzioni rivoluzionarie, queste tendenze non trovano ancora il pieno sostegno del grande capitale (almeno in Europa e Stati Uniti).
Questi movimenti e queste tendenze sono spesso dominanti, ma non sono fascisti. In tutto il mondo hanno conquistato non solo una diffusa influenza di massa, particolarmente nelle classi subalterne, ma spesso anche il governo (o le sue politiche): in Europa (PiS in Polonia, Fidesz in Ungheria, la Brexit); in America Latina (Macrì in Argentina e Bolsonaro in Brasile), in Medioriente (Erdogan in Turchia e Netanyahu in Israele), in Asia (Xi Jiping in Cina, nel quadro di un’ulteriore deriva autoritaria e nazionalista di quel regime stalinista; Abe in Giappone; Modi in India, Khan in Pakistan, Duterte nelle Filippine) ed infine hanno conquistato persino l’esecutivo USA con Trump (anche se non la direzione del Parlamento, ancora profondamente influenzato dell’establishment repubblicano e democratico). Queste tendenze e questi movimenti, comunque non sono fascisti. Pur avendo matrici autoritarie e bonapartiste; pur sviluppando stati etici e politiche repressive; pur avendo una matrice piccolo borghese e crescendo in reazione alle instabilità di una Grande Crisi, mancano di due elementi cruciali: l’utilizzo sistematico della violenza (in particolare contro il movimento operaio) ed il sovversivismo (la volontà di voler travolgere completamente istituzioni e assetti sociali, per costruire un nuovo ordine). Oggi la debolezza del conflitto di classe e dei progetti rivoluzionari rendono questi due elementi poco salienti, favorendo quindi questi movimenti reazionari e populisti.
3.2 Destre neofasciste in sviluppo
Queste tendenze e movimenti non eliminano i movimenti fascisti e neofascisti. Sia nelle società periferiche e semiperiferiche, sia nei paesi a capitalismo avanzato, in quest’ultimo decennio si sono sviluppati movimenti e soggetti politici neofascisti (senza alcun richiamo a quella impostazione) e fascisti (con un esplicito richiamo). Movimenti, cioè, che contro le crisi ed a partire da una base piccolo borghese, intendono sviluppare politiche comunitariste e nazionaliste attraverso un uso sistematico della violenza e la costruzione di un nuovo ordine sociale/istituzionale. Nelle società periferiche sono cresciuti in particolare movimenti neofascisti di stampo etnico o religioso. In formazioni sociali dove la Grande Crisi ha rilanciato conflitti dispiegati e processi di destrutturazione delle istituzioni, è infatti diventa determinante proprio l’organizzazione della violenza (milizie e bande armate) e il sovversivismo (un nuovo ordine in grado di garantire stabilità e sicurezza). Movimenti etnici e fondamentalisti, che pur non avendo in genere nessun esplicito richiamo a quell’esperienza politica, hanno sviluppato un’evidente impronta fascista: islamici (ISIS), induisti (RSS), buddisti (969 in Myammar), ebraici (Haredi e coloni) e ovviamente cristiani (anche se questi sono più diffusi in Europa e USA e sono relativamente marginali). Mentre nelle società a capitalismo avanzato (in particolare in Europa, Giappone e Stati Uniti) conoscono un nuovo protagonismo anche i movimenti fascisti, nell’ombra e negli interstizi dell’influenza di massa dei movimenti reazionari (in alcuni casi con la complicità di esponenti fuoriusciti proprio dalle loro fila). La deriva reazionaria in corso, infatti, ha smantellato diffidenze e limitazioni politico-istituzionali nei loro confronti, mentre ha in-formato un senso comune che facilita l’indifferenza o addirittura il recepimento delle loro parole d’ordine e delle loro azioni. Un protagonismo che si esprime nell’organizzazione del malessere di settori marginali (dalle periferie agli stadi), aprendo laboratori politici che combinano un mutualismo etnico e territoriale (raccolta di viveri, picchetti antisfratto, interventi contro il degrado) con il contrasto militante verso i migranti. Da Jobbik in Ungheria alla Nazione Ariana negli USA, da Alba Dorata in Grecia a Casapound in Italia, dagli Uyoku Dantai in Giappone al Movimento di Resistenza Nordica in Svezia, sono organizzazioni talvolta illegali, talvolta extraparlamentari, talvolta con deputati contro cui è sempre più necessario costruire un intervento ed una salvaguardia antifascista. Sia i movimenti populisti e nazionalisti, sia le destre fasciste sfruttano per il loro sviluppo le insicurezze della crisi, le divisioni di classe e l’espandersi delle migrazioni nel quadro di mercati mondiali sempre più interconnessi. Infatti, di fronte all’impoverimento di larghe masse (riduzione dei salari e precariato), la scomparsa di lavoro e professioni (distruzione dei mercati locali e ristrutturazione tecnologica delle filiere), l’immane processo di migrazione dalle campagne e nelle metropoli capitaliste, si diffondono nelle classi subalterne diffidenze, fratture, pregiudizi e razzismi.
- IL CASO ITALIANO: DISORGANIZZAZIONE DI CLASSE, EGEMONIE REAZIONARIE E MOVIMENTI DEMOCRATICI
4.1 La lunga crisi italiana trova un punto di svolta
Nel 2018 il quadro politico del paese è stato ribaltato. Il 4 marzo processi in corso da anni sono sfociati da una parte nella saldatura tra classi subalterne e movimenti reazionari, dall’altra nello sfaldamento del popolo di sinistra. 5 Stelle e Lega hanno conquistato un consenso di massa (il 32,6% e il 17,3%, oltre 16 milioni di voti). Il PD è crollato (18,8% e 6,1 milioni di voti: la metà del 2008). Mentre la sinistra ha conquistato solo 1,5 milioni di voti: LeU (che riuniva ex sinistra PD e SeL, in un tentativo di rilancio riformista) appena il 3,4%; PaP (PRC e i circuiti antagonisti dei Clash City Workers, dopo una partecipata campagna che aveva innescato molte aspettative) solo l’1,1%, il PC di Rizzo (al primo appuntamento nazionale) un problematico 0,3%; Per una sinistra rivoluzionaria (PCL e SCR) un tremendo 0,08%. La Lega ha visto poi un’importante espansione del consenso nei mesi successivi, con la scelta di sganciarsi dal centrodestra e il governo gialloverde. Una dinamica che si è consolidata alle amministrative (conquista di tradizionali roccaforti rosse come Pisa, Siena, Massa, Imola, Ivrea e Terni) e una conferma nel 2019. Alle Europee, anche se con un calo di affluenza (54,5% contro il 73%), le forze reazionarie hanno mantenuto un ampio consenso (quasi 14 milioni di voti), con un ribaltamento tra i due movimenti: la Lega al 34,2%, i 5Stelle al 17%. A cui forse, in senso lato, si può aggiungere il 6,4% di Fratelli d’Italia (1,7 milioni di voti), con la sua evoluzione nel solco del salvinismo. Il PD, pur recuperando percentualmente (22,7%), non esce dal quadro precedente (solo 6 milioni di voti). La sinistra prende 700mila voti: un disastroso 1,75% La sinistra (che riunisce PRC, SeL, circuiti intellettuali), un buon 0,9% il PC (che acquisisce visibilità e diventa un punto di riferimento). A questi si possono aggiungere, in senso lato, altri 700mila voti: il 2,3% dei Verdi (senza Civati per la presenza di esponenti di destra, non percepiti a livello di massa), lo 0,2% del Partito pirata. Un quadro che si conferma alle amministrative 2019: nelle regionali (Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Sardegna) e con il passaggio a destra di altre roccaforti rosse come Ferrara, Forlì, Piombino e Foligno. In questo quadro, emerge uno stravolgimento della geografia politica italiana: la Lega diventa partito nazionale (vicino il 40% in Umbria e Marche; oltre il 30% in Emilia, Lazio e Toscana; oltre il 20% al sud), scompaiono le regioni rosse (il PD rimane primo partito solo in Toscana, per un 2%; conquista il 27% nel centro e si concentra soprattutto nelle grandi città, spesso nelle sue ZTL), mentre emerge una tendenziale bipartizione tra un nord a trazione leghista (oltre il 40%) ed un sud 5 Stelle (oltre il 30%). Questo esito è il portato di processi di lungo respiro, nel sistema produttivo e nella società, che si sono dispiegati con la Grande Crisi.
Nella tempesta, il capitale ha ridefinito la struttura produttiva. La Grande Crisi ha colpito l’Italia con particolare durezza: due recessioni (2009 e 2012), una lunga depressione (calo del 10% del PIL) non ancora recuperata (ancora sotto di circa il 5%). È evaporato oltre il 20% della capacità produttiva del paese. Si è frammentato il tessuto produttivo, ma non è scomparso: l’Italia rimane la seconda potenza manifatturiera del continente. Si è però scomposto su diverse direttrici: grandi imprese hanno ridotto fatturato e manodopera (Eni passa da 90 mld nel 2007 a 55 nel 2017, da 80mila a 33mila dipendenti; Telecom da 31 a 19 mld, da 76 a 66mila dipendenti); alcune sono cresciute per acquisizioni o espansioni (Poste, da 20 a 33 mld; Ferrero, da 6 a 10 mld; Fincantieri da 2,9 a 4,2 mld), altre sono diventate perno di multinazionali (FCA, Luxottica, Atlantia) o ne sono state acquisite (Pirelli in Chemchina, Ducati in VW, Italcementi in HeidelbergCement, ecc). Altre ancora sono scomparse, si sono ridotte o si sono dovute subordinare ai propri acquirenti (da Alitalia a Parmalat, da Perugina alle acciaierie come Ilva, Terni e Piombino). La piccola impresa si è ridimensionata (con migliaia di fallimenti e chiusure). Sono cresciute “piccole” multinazionali (il cosiddetto quarto capitalismo, tra 1 e 3 mld di fatturato, come Mapei, Brembo, Calzedonia, Lavazza, ecc). Si sono quindi divaricate le strategie di accumulazione: sull’automazione (gruppi maggiori e quarto capitalismo, +4,9% negli investimenti rispetto al 2007), spostando ulteriormente il baricentro verso le esportazioni (dal 17,8% del PIL nel 1991 al 25% nel 2007, per superare oggi il 30%); mentre altri, in settori affamati di capitali o concentrati sui mercati locali, intensificano lo sfruttamento. In questo quadro, è venuto a mancare un baricentro: il “salotto buono” delle grandi famiglie e dei suoi funzionari si è disarticolato, le politiche padronali si sono frastagliate (da Marchionne a Luxottica).
Nella crisi, è collassato il blocco dei ceti medi. La “terza Italia” delle piccole imprese è stata colpita al cuore (crollo dei consumi, restrizione del credito, impossibilità di svalutare). Non è l’unico settore. I piccoli commercianti sono stretti da liberalizzazioni ed e-commerce (soprattutto edicole, librerie, alimentari; mentre alberghi, bar e ristoranti sono spinti a inserirsi e subordinarsi a grandi catene). Dinamiche di vera e propria proletarizzazione hanno coinvolto alcuni professionisti, inseriti nei circuiti di valorizzazione con processi formali (false partite IVA) e reali (studi e società di servizi). Questi settori si erano culturalmente e politicamente saldati con altri, di matrice impiegatizia (tecnici, quadri e dirigenti), in un blocco che era l’asse portante delle cosiddette classi medie: un “blocco d’ordine” che ha sostenuto politiche anti-salariali, defiscalizzazioni e federalismo. Era il cuore del centrodestra. Oggi si divarica: mentre parte è travolta dalla crisi, tecnici, dirigenti e quadri tengono una certa soddisfazione per le loro condizioni (secondo ISTAT 10 milioni di persone con una buona educazione e un buon tenore di vita).
Si scompone e disorganizza la classe. L’Italia subisce con particolare forza l’arretramento del lavoro che interessa tutti i paesi a capitalismo avanzato. SI configura un nuovo “caso italiano” di segno esattamente opposto a quello degli anni settanta (il lungo ’68, con la particolare curvatura impressa dall’autunno caldo). Le sconfitte dei primi anni ‘80 (dalla FIAT alla scala mobile) e la successiva ondata neoliberista avevano già tracciato linee di faglia tra pubblici e privati, grande e piccola impresa, stabili e precari, nord e sud. Però alcune controtendenze le avevamo contenute: la forte partecipazione sindacale; la presenza di un tessuto diffuso di avanguardie organizzate (talvolta in CGIL; talvolta nei sindacati di base); periodici conflitti che erano in grado di segnare il panorama politico, gli immaginari e le identità collettive (il ‘92 dei bulloni; le lotte contro le chiusure, dal Sulcis a Crotone; il No a Dini nel 95; le mobilitazioni in difesa dell’articolo 18 nel 2001-2003; i 21 giorni di Melfi nel 2004). La Grande Crisi ha visto però allargarsi le linee di faglia e indebolirsi le controtendenze. La moltitudine del lavoro, scomposta e disorganizzata dallo snellimento delle grandi fabbriche, l’esplosione delle filiere produttive, l’inserimento delle tecnologie nei processi di lavoro, ha originato un conflitto frammentato e disperso. Nei grandi gruppi ci si è divisi per stabilimenti (dalla FIAT-FCA ad Almaviva, dall’ILVA a Fincantieri). Nella scuola si sono contrapposti diversi settori del precariato (abilitati e non abilitati, Siss e Pas, ecc). Si è diffusa una contrattazione difensiva (chiusure aziendali, licenziamenti e cassa integrazione), con un peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro. I lavoratori e le lavoratrici, nelle diverse categorie e nei diversi territori, si sono attestati su punti di tenuta e caduta diversi, rendendo difficile far circolare i conflitti e condividere immaginari comuni (diverse condizioni, temi, percorsi di lotta e composizioni di classe che le sostengono). Ogni categoria, ogni realtà, talvolta ogni stabilimento è diventato un mondo a sé stante: si è cioè sfaldata la percezione di uno scontro generale tra capitale e lavoro.
Un paese spezzato: l’ennesimo ritorno della questione meridionale. Con la Grande Crisi si è radicalizzata la storica divergenza tra nord e sud. La frammentazione del sistema produttivo ha colpito i territori a recente industrializzazione, il crollo degli investimenti pubblici le aree infrastrutturalmente fragil. Soprattutto, i processi di ristrutturazione europei, con filiere produttive che gravitano sempre più intorno al suo nucleo continentale, spingono a incrementare le divergenze: non a caso Tabellini (ex rettore della Bocconi) sottolinea come le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli. È in questo quadro che un ampio fronte padronale, non solo la Lega e i suoi presidenti di regione, ha chiesto le autonomie rafforzate, in grado di sostenere con più forza i propri tessuti produttivi e di ridefinire il salario globale (welfare e nuove gabbie salariali), indebolendo così il lavoro al sud come al nord. In questo modo si sono drammaticamente approfondite tutte le divergenze: quelle economiche (PIL e produzione industriale), ma soprattutto quelle sociali (disoccupazione, educazione, speranza di vita), rilanciate da un sempre più grave degrado dell’ambiente, delle relazioni e dei servizi. Non a caso, nel quadro di un graduale spopolamento, si segnala la ripresa dell’emigrazione (2 milioni negli ultimi vent’anni, la metà giovani). È la marginalizzazione di intere aree del paese, anche se proprio al sud rimangono alcuni dei più grandi stabilimenti industriali (acciaierie, raffinerie, FCA, ecc). Così si riproduce quel blocco di potere parassitario che ha dominato il meridione d’Italia dall’unità ad oggi: settori di notabilato politico e professionale (spesso contigui, se non organici, alla criminalità), mafie sempre più pervasive e una borghesia imprenditoriale cresciuta sullo sfruttamento di una manodopera con bassi salari e scarsi diritti.
4.2 Le organizzazioni della classe nel pantano.
Un sindacalismo confederale poliedrico e burocratico. In Italia si mantengono significativi tassi di sindacalizzazione (oltre il 30%, con RSU in tutto il pubblico impiego e in più del 60% delle medie e grandi imprese). Ci sono oltre 10 milioni di iscritti ai confederali. Questo risultato non è il semplice l’effetto di un tesseramento poco trasparente e talvolta irreale, ma della capacità di sviluppare diverse funzioni, in maniera anche contradditoria: l’azione generale (interventi macroeconomici), la rappresentanza collettiva (contrattazione nazionale e aziendale) e individuale (supporto degli iscritti), i servizi (Caaf, Inca, ecc), la sussidiarietà (come fondi pensione ed enti bilaterali), l’organizzazione dei pensionati (oggi circa metà degli iscritti). Questa articolazione ha però influenzato anche la stessa natura del sindacato confederale, amplificando e strutturalizzando le sue tendenze ad una collaborazione di classe. La Grande Crisi si è inserita in questo processo contraddittoriamente. Da una parte ha acutizzato il conflitto tra capitale e lavoro, spazzando via tra l’altro anche la dinamica neocorporativa (quel truffaldino sistema triangolare con cui si scambiava la moderazione rivendicativa con la promessa di politiche macroeconomiche che non si concretizzavano mai). Dall’altra ha però rafforzato le tendenze sussidiarie, spingendo per una riconfigurazione dell’azione sindacale a supporto del sistema produttivo. In particolare, CISL e UIL hanno sviluppato questa impostazione complice, in relazione col centrodestra e con gli interessi padronali (dall’accordo separato del 2009 al CCSL FCA, anche con un baricentro aziendale nella FIM di Bentivogli). La CGIL, in particolare negli ultimi anni, ha attivamente contribuito ad una politica di fronte unico con il padronato, reagendo così alla disintermediazione ed alla dispersione contrattuale: dal recente manifesto per l’Europa al TU del 10 gennaio 2014, che irreggimenta la democrazia sindacale, la focalizza sulle organizzazioni e limita le rappresentanze (sebbene forse non sarà mai realmente applicato).
La CGIL tra contraddizioni e derive burocratiche. La gestione Camusso, nel quadro della persistente ricerca di un’alleanza dei produttori, da una parte ha amplificato le spinte centrifughe di categorie e strutture, dall’altra le sue derive centralizzatrici. Nella frammentazione del sistema produttivo e della conflittualità di classe, ogni categoria ha definito un suo punto di tenuta (o più spesso di caduta), anche modulando opportunamente le diverse funzioni sindacali: ad esempio i chimici hanno previsto deroghe al CCNL, il commercio ha introdotto gli enti bilaterali, i bancari il welfare aziendale. In questo contesto si è collocata la parabola FIOM: da una parte il tentativo 2010/12 di proseguire, in un diverso contesto, l’esperienza Sabbatini (1994/2002) e Rinaldini (2002/2010) di un sindacalismo riformista ma conflittuale (contrasto alla riforma Dini, convegno di Maratea del 1995 con la conferma referendaria degli accordi; difesa dell’art 18, accordi separati e stagione dei precontratti, 21 giorni di Melfi), dall’altra la capitolazione in FCA proprio sulla gestione del conflitto negli stabilimenti (Grugliasco; allargamento del CCSL a tutto il gruppo; repressione dei delegati combattivi a Termoli, Melfi e Pomigliano). Per governare queste divergenze, si è centralizzato verticisticamente sia l’apparato CGIL (riduzione dei gradi di libertà e del pluralismo dopo i congressi conflittuali 2010 e 2014), sia la contrattazione (intese nel pubblico e accordi-quadro nel privato), riconducendo quindi sempre più gli spazi di confronto ad una dialettica tra strutture. Landini ha ereditato e rilanciato questa impostazione. Diventato paradossalmente il candidato della Camusso (nonostante idiosincrasie personali), in aperto contrasto con i settori più moderati, ha pagato a caro prezzo la conquista della segreteria. Per esser candidato ha dovuto negare l’esperienza FIOM di cui è stato simbolo, con la firma del peggior ccnl della storia dei metalmeccanici, un nuovo modello centrato sul blocco salariale (IPCA), welfare e aumenti variabili sul secondo livello. Per esser eletto ha dovuto assumere non solo una linea di unità astratta e burocratica con CISL e UIL (discorso di Milano e intervista del primo maggio), ma anche riconfermare l’asse strategico del patto dei produttori (dal patto di fabbrica alla defiscalizzazione dei salari). Così, la sua traiettoria è tracciata, al di là di ogni aspettativa e ogni affidamento leaderistico che ancor oggi suscita a livello di massa.
Il sindacalismo di base in un’impasse strategica. La sua lunga tradizione affonda le radici nei comitati autorganizzati del lungo ’69 e nelle prime resistenze al ciclo neoliberista, dopo la svolta dell’EUR (le Rdb romane, i Comitati di base del policlinico, i Cobas scuola e dell’Alfa di Arese negli anni ‘80, la FLMU nei primi anni ‘90). Ha sviluppato una significativa capacità di mobilitazione, e anche contrattazione, in alcuni settori (dai trasposti alla logistica). La progressiva deriva del sindacalismo confederale non ha però aperto quella frattura di massa che ci si attendeva, intravista solo in alcuni momenti (come l’autunno dei bulloni nel ‘92). In questo quadro, il sindacalismo di base ha mantenuto un suo radicamento (stimabile nell’ordine di circa 150 mila attivisti), con una rappresentanza a macchia di leopardo e frammentata tra diverse organizzazioni. Tutto il suo percorso, infatti, è segnato da una conflittualità fra strutture, spesso in relazione ai diversi progetti politici delle loro direzioni (Rdb e poi USB nel quadro del percorso stalinista filosovietico prima dell’Organizzazione Proletaria Romana e poi della Rete dei Comunisti; la confederazione Cobas con circuiti dell’Autonomia; il Cobas Scuola con i percorsi antagonisti dei fratelli Bernocchi; Slai-Cobas e SiCobas con correnti consiliariste, più o meno sindacaliste rivoluzionarie). Questa molteplicità, con il complessivo arretramento di classe e la disgregazione dell’ampio tessuto di avanguardia, si è strutturata su percorsi, modelli e prassi sindacali sempre più divergenti. USB, in una sorta di volontà di potenza soggettivistica, si interpreta come confederazione alternativa, pur non avendone struttura e dimensioni: per questo ha sottoscritto il TU del 10 gennaio (presentazione alle RSU) e firmato l’accordo ILVA dello scorso anno, conducendo una politica settaria di sviluppo su di sé stessa (indipendentemente da, e talvolta contro, ogni dinamica potenzialmente generalizzabile). La CUB (in questi mesi impegnata nel positivo percorso di confluenza del SGB) persegue un sindacalismo di classe e conflittuale che rinnova la migliore tradizione del sindacalismo di base, sebbene con un’impostazione sostanzialmente categoriale che ne ha limitato il profilo (debolezza dei riferimenti generali, passi falsi inaccettabili come nell’incontro con il governo dello scorso anno). Il percorso di confluenza con SGB, seppur complesso e problematico, potrebbe da questo punto di vista rappresentare un significativo passo in avanti. Il frammentato mondo Cobas appare ripiegato nelle proprie realtà, territoriali o più spesso aziendali (con la parziale eccezione della scuola, dove mantiene un profilo nazionale con una importante rappresentanza in alcuni territori come Roma, la Toscana tirrenica o la Sardegna). In questa galassia il SiCobas, concentrato nella logistica ed in filiere limitrofe, centrato su una particolare composizione di classe (migranti), è stato protagonista di un notevolissimo ciclo di lotte, grazie alla sua determinazione e nonostante la pesante repressione (come il processo al compagno Milani a Modena). La sua esperienza richiama quella della IWW, anche se talvolta sbanda verso lo sviluppo di blocchi politici, tal altre svia in pratiche contrattuali non sempre trasparenti e talvolta settarie.
4.3 Il rischio di una stabilizzazione reazionaria
Lega e 5stelle: due diversi movimenti reazionari. Lega e 5 Stelle hanno interpretato la richiesta di una svolta nella gestione della crisi. Queste due formazioni sono diverse per storia, base sociale e profilo politico. La Lega si è strutturata nel precedente ciclo (‘92/’94), come movimento antisistema che interpretava rabbie e insoddisfazioni della provincia padana. Nel tempo si è ridefinita come forza di destra, nella sua collocazione e nella percezione dell’elettorato. La svolta salviniana, dopo l’esclusione del cerchio magico bossiano, ha proiettato questa connotazione fuori dal recinto settentrionale. Il M5S è molto più recente, con una progressiva evoluzione da movimento sociale (Grilo) a soggetto politico (Di Maio) ancora ricca di contrasti e contraddizioni, tra cui molteplici connotazioni antisistema (avendo flirtato anche con culture acapitalistiche o addirittura anticapitalistiche come la decrescita, i notav, gli antisignoraggio). Entrambi questi movimenti, però, si costituiscono intorno agli interessi e alla rappresentanza di alcuni settori di piccola e media borghesia (la Lega sugli imprenditori dei distretti e delle PMI; i 5stelle sui professionisti, in particolare quelli di nuova generazione). Entrambi, soprattutto, propongono una rappresentazione comunitaria (gli uni intorno al popolo padano prima ed italiano poi, gli altri intorno al cosiddetto “popolo della rete”). Sono forze reazionarie, allora, perché promuovono il ritorno ad un mondo idealtipico di piccoli imprenditori e autoproduttori cognitivi, protetti dallo Stato dalla famelica grande finanza e dai sicofanti al suo servizio (la BCE, le banche, la casta, Roma Ladrona, ecc). In questo modo interpretano frustrazioni e paure dei tempi moderni, occultando ogni contrapposizione nelle loro comunità immaginate, in primo luogo quelle di classe.
Un governo improvvisato, contradditorio ed incerto. Il governo Conte, allora, si è formato ed ha consolidato il suo consenso perché queste forze hanno una matrice comune, su cui possono sviluppare un’azione comune. L’azione del governo ha però aperto contrasti e contraddizioni tra queste due forze. Ha sicuramente pesato il dualismo tra i due vicepremier (come un personale politico talvolta improvvisato). Hanno però pesato soprattutto alcuni limiti strutturali di una diversa gestione capitalistica della crisi. L’Italia non è una formazione sociale indipendente, ma è inserita nella UE (anzi, ne è uno dei principali paesi per dimensioni demografiche, economiche ed industriali). Il suo sistema produttivo in questo decennio ha ulteriormente spostato il proprio baricentro sulle esportazioni. Lega e 5 Stelle registrano quindi oggettive difficoltà nel dispiegare compiutamente le loro politiche reazionarie, nucleo portante del loro contratto e del loro consenso. Si teme una frattura con la UE e la sua gestione neoliberista della crisi, in assenza di percorsi definiti di sganciamento e con precari rapporti di forza internazionali (anche a fronte di una Brexit problematica). Si teme una frattura con un capitale italiano scettico, in larga parte proiettato proprio sull’integrazione europea (grandi banche, Luxottica, Fincantieri, Enel, ecc) o sulla conquista di mercati di riferimento (il quarto capitalismo, ENI, ecc). Così l’azione del governo è stata incerta e sincopata, ingessata dalla permanente austerità: nella scorsa legge di bilancio (passata dal 2,4% di rapporto deficit/PIL, al 2,04% dopo la trattativa con Bruxelles), nella manovra correttiva di 7,5 miliardi (realizzata in sordina nel corso dell’estate), come pure probabilmente sarà nella prossima legge di bilancio (con scogli importanti come i 23 miliardi di aumento dell’IVA; il rinnovo dei contratti pubblici, l’autonomia differenziata, la flat tax). Il governo allora si è focalizzato su politica di piccolo cabotaggio (vedi il depotenziamento di reddito di cittadinanza e quota 100), rispettosa dei vincoli europei e schiacciata sulle imprese, repressiva nei confronti di lotte e migranti (vedi i decreti sicurezza uno e due). Una politica controbilanciata da grandi annunci, un continuo rilancio propagandistico necessario a rilanciare gli assi fondanti della loro alleanza. Nel continuo rilancio propagandistico, però, si è innescata un’inevitabile polarizzazione, nella quale è emerso con evidenza da una parte il protagonismo di Salvini (e dei suoi temi relativi a sicurezza e migranti), dall’altra un’evidente sofferenza del movimento 5 stelle (anche per l’incipiente polarizzazione territoriale del suo radicamento, in diretta contrapposizione ad alcune politiche della lega su autonomie e differenziazioni salariali). Una dinamica che mette a rischio la stessa tenuta strategica del governo.
Lega e 5 Stelle mantengono però il consenso nelle classi subalterne. Nonostante le incertezze e gli sbandamenti, nonostante l’incapacità strutturale di dispiegare compiutamente le loro politiche, nonostante la polarizzazione nella dinamica politica tra le due forze. Il voto politico del 2018, le europee del 2019, le amministrative degli ultimi due anni, indagini e sondaggi sono convergenti. È un senso comune che si respira in ogni quartiere popolare, in ogni posto di lavoro. Il consenso a questi due movimenti si concentra infatti nelle periferie (anche nella provincia storicamente rossa) e tra i lavoratori dipendenti. In particolare, nella classe operaia (oltre il 64% tra i votanti alle europee, con percentuali più elevate della media sia per Lega che 5 stelle). Persino tra gli iscritti CGIL queste forze raggiungono il 40% dei votanti (più o meno equamente divisi). Questo consenso si respira anche nella classe operaia centrale, quella più organizzata e sindacalizzata, persino nell’avanguardia di classe (delegati/e, anche dell’OpposizioneCGIL e dei sindacati di base, dall’Ilva alla Same, dalla Piaggio alla FCA). Come nelle assemblee è oramai comune, anche nelle realtà che hanno scioperato in questi mesi, il brusio e le ampie resistenze ogni volta che si critica il governo. In questo quadro, il rischio è quello di una stabilizzazione di questo consenso, indipendentemente dalle dinamiche contingenti del governo. Il rischio cioè è quello, anche nel caso di una frattura ed elezioni, che queste impostazioni reazionarie rimangano dominanti, declinandosi per di più sia tra le forze di governo sia tra quelle di opposizione, ed un polo democratico e liberale più o meno in rapporto con una di esse. Una dinamica in cui finisca a finire schiacciata per lungo tempo rischia di essere ogni autonoma rappresentanza di classe.
4.4 La de(s)composizione del popolo di sinistra, il PD, la confusa sinistra politica e lo sviluppo di movimenti democratici di massa.
La de(s)composizione del popolo di sinistra. Con il governo Prodi del 2006, la sinistra centrista e riformista ha segnato un destino. La compartecipazione a politiche di austerità, precarizzazione e privatizzazione proprio nel momento in cui si apriva la Grande Crisi ha scavato un solco a livello di massa (esemplificato dal cambio di atteggiamento nei confronti di Bertinotti, una volta diventato Presidente della Camera). In quel solco si sono inseriti, ed hanno scavato, i più ampi processi di scomposizione e disorganizzazione di classe. Si sono cioè intrecciati il ripiegamento delle lotte e della coscienza di classe, lo sviluppo di movimenti interclassisti e lo sbandamento della sinistra (addirittura con la sua scomparsa dal Parlamento tra il 2008 ed il 2013). Il risultato è stato una progressiva de(s)composizione di un’identità. Da una parte è progressivamente evaporato un immaginario collettivo: la consapevolezza che il padrone era un’altra cosa e la conseguente propensione (per quanto vaga) ad una trasformazione dello stato di cose esistenti. Dall’altra parte, si è rattrappito quell’ampio strato di avanguardia capace di rappresentare condizioni e disagi del proprio territorio o della propria azienda, e nel contempo orientare il senso comune di queste realtà. Il popolo di sinistra si è quindi de(s)composto perché da una parte il senso comune è sempre più orientato da altri immaginari, dall’altra parte l’avanguardia larga ha sempre più rappresentato solo sé stessa (con la conseguenza di una divergenza sempre più evidente tra percezioni del quadro militante e le effettive dinamiche di massa politiche, sociali ed elettorali). Lo sfondamento reazionario nel CEP di Pisa o a Sampierdarena, nelle classi subalterne e nella classe operaia centrale, è quindi il rovescio della medaglia di questo progressivo deperimento di una sinistra politica e sociale diffusa.
Il renzismo ha trasformato stabilmente la percezione di massa del PD. Renzi ha cioè impresso una radicalizzazione liberale del profilo e della linea di quel partito (la rottamazione, il partito nazionale, la vocazione maggioritaria, il jobsact, la riforma Costituzionale), proprio mentre si dispiegava una reazione alla gestione neoliberale della Grande Crisi sospinta da insicurezze e paure diffuse. Così, ha tracciato un solco profondo a livello di massa. Il collasso del suo tentativo bonapartista, la sconfitta del 2018 ed il cambio di segreteria non sono in grado di invertire questa percezione diffusa. Perché il carattere liberaldemocratico del PD non è in discussione, oramai saldamente impiantato nel suo ceto politico e alimentato da diffusi legami con ceti dirigenti e imprenditoriali nei territori (l’emersione di Calenda nelle sue fila è esemplificativa). Non è quindi neanche pensabile una svolta in stile Corbyn, che ha rilanciato senza significative fratture del partito impostazioni socialiste e socialdemocratiche della tradizione laburista. Non potendo stravolgere il suo impianto politico, non potendo rinunciare alla vocazione maggioritaria, al ma anche, alla difesa delle politiche neoliberiste, la segreteria Zingaretti prova a far leva sulla costruzione di una sorta di fronte democratico di salvezza nazionale, argine contro Salvini e le sue derive autoritarie. Se questa strategia è forse in grado di serrare le file del PD, se forse è in grado di recuperare qualche consenso, non è certamente in grado di rianimare un popolo di sinistra moribondo, né tantomeno di provare a riconquistare il consenso delle classi subalterne di questo paese.
Una sinistra politica divisa e sbandata. La de(s)composizione del popolo di sinistra, l’egemonia reazionaria sulle classi subalterne, la dispersione del conflitto di classe hanno colpito una sinistra politica oramai allo sbando. La sua forza militante in realtà è ancora relativamente rilevante (qualche decina di migliaia di compagni/e): nel quadro dell’isolamento dell’avanguardia larga, è però sostanzialmente incapace di riconnettersi al suo insediamento di classe. In questo quadro, tendono a collassare tra loro le componenti della sinistra storica e quelle dei centri sociali, settori che si erano talvolta intrecciati (autunno 92, Genova 01, Vicenza 07) pur mantenendo impianti e composizioni diverse. La sinistra politica è però sempre più confusa e divisa, nonostante i parossistici tentativi di ricostruzione unitaria (Arcobaleno, Rivoluzione civile, Lista Tsipras, LeU, Potere al popolo originale, la Sinistra), astratti da ogni conflitto di massa, senza alcun baricentro programmatico e spesso senza neanche un asse condiviso. In questo quadro sconfortante, emergono oggi molteplici traiettorie. I circuiti socialdemocratici fuoriusciti dal PD sono collassati col risultato di LeU (che ha cancellato quello spazio politico) e sono oggi impegnati sostanzialmente nella ricollocazione individuale del suo ceto politico (più o meno autorevole, più o meno verso un ritorno nel PD). La sinistra riformista di SeL registra la sconfitta della La sinistra (nonostante l’ampio successo di critica in ambienti intellettuali): mantenendo una rappresentanza parlamentare, proverà a ritessere una sopravvivenza, subendo la pressione del fronte di salvezza nazionale del PD e probabilmente dividendosi su questo. Il PRC si trova al termine del suo percorso: nonostante le notevoli doti di sopravvivenza del suo gruppo dirigente e del suo nucleo militante, dopo la rottura con Potere al popolo e la sconfitta del La Sinistra, si ritrova senza prospettive. Ciò non vuol dire che collassi rapidamente: il suo nucleo militante, infatti, è tenuto insieme da un lungo percorso politico, con una sua appartenenza e tradizione, ed è abituato ad un certo eclettismo teorico e politico (senza altri punti di riferimento, tenderà a riprodurre sé stesso anche se con qualche dimensione surreale). Dimensione surreale (e quasi caricaturale) oramai evidente nel PCI, che ha provato a rilanciarsi sul ricordo di un simbolo, con un’impostazione togliattiana in un’organizzazione di poche centinaia di iscritti, neanche capace di presentarsi alle elezioni (dimensioni surreale che, in ogni caso, non le impedisce di esistere e riprodursi nel tempo). Potere al popolo ha consolidato un soggetto diffuso su tutto il territorio, con energie militanti non marginali, che mette insieme la ristretta esperienza antagonista e classista dei Clash City Workers, settori campisti di matrice stalinista come il gruppo dirigente di USB e RdC con settori classisti e di estrema sinistra diffusi. La sua molteplice composizione è per ora retta da un impianto mutualista, vagamente classista e antagonista, con diverse contraddizioni e potenziali linea di faglia. Mentre il PC di Rizzo, nonostante la sua politica settaria, il suo impianto ortodosso e tragicomico (vedi la difesa della Corea del Nord), le sue parole d’ordine anticlassiste (contro i migranti), può sfruttare il suo risultato elettorale per provare ad agglutinare forze in nome di una generica identità comunista (anche se con qualche contraddizione, stante che il suo profilo confligge proprio con elementi centrali delle identità del PRC e del PCI). Mentre rimangono attivi, anche se marginali o assenti dal campo elettorale, sia settori antagonisti (focalizzati in particolari in lotte ambientaliste territoriali) sia Lotta comunista, che mantenendo la sua non marginale base militante ha iniziato proprio in questi anni a riprendere un proprio intervento di lotta (cortei contro il governo di Torino, Genova e Milano).
Movimenti democratici e interclassisti. Contro le derive retrograde di questa stagione politica, contro le politiche razziste e autoritarie del governo, si sono sviluppate significative mobilitazioni di massa. Basti pensare al marzo 2019: nonostante l’esplosione del consenso leghista nel senso comune di massa (sul terreno degli sbarchi e del razzismo), proprio in quel mese è cresciuto un ampio movimento antisalviniano. Non solo sui balconi, ma con grandi manifestazioni di piazza: il 2 marzo a Milano contro il razzismo, l’8 marzo in tutte le piazze (al pomeriggio, lo sciopero è stato solo simbolico), il 15 marzo con gli studenti di FFF, il 23 marzo con il corteo romano notav e dei movimenti territoriali, il 30 marzo a Verona contro il congresso delle famiglie (e le sue culture bigotte). Sono state mobilitazioni importanti, che hanno provato a rompere una cappa opprimente. Però, se, da una parte questa mobilitazione sui diritti civili è un terreno di resistenza, un momento di attivazione di massa e di possibile identificazione di una nuova avanguardia, dall’altra questi stessi movimenti si pongono in continuità con le derive che hanno accompagnato l’involuzione di classe di questi anni. In queste mobilitazioni tende infatti a imporsi una cifra moltitudinaria: l’annegamento di ogni caratterizzazione programmatica nella moltiplicazione di tavoli, piattaforme e rivendicazioni; la cancellazione di ogni simbologia di parte (persino delle bandiere nelle piazze); la valorizzazione di ampie alleanze, sociali ed organizzative, nella costruzione degli appuntamenti e delle iniziative. Di fatto, queste mobilitazioni tendono a caratterizzarsi come fronti popolari di massa, che trascendono quindi il fronte unico di classe perché coinvolgono forze e soggettività della piccola e media borghesia, se non frazioni delle stesse classi dominanti. Una dinamica anche di altre esperienze, ambientaliste e territoriali, come i movimenti notav o notap. Il rischio cioè è che si sviluppi nel tempo un popolo dei diritti, progressista e democratico, che difende le libertà individuali e collettive, prescindendo però da ogni dimensione di classe e ogni propensione di cambiamento sociale.
- CAMBIARE PASSO: UN NUOVO CORSO PER IL PARTITO.
5.1 Rilanciare l’intervento di massa: dalla propaganda all’agitazione.
Il conflitto di classe non è determinato dal partito. In primo luogo, è lo stesso modo di produzione capitalista che determina l’organizzazione della classe e la sua coscienza. Innesca processi periodici di frammentazione, ma poi riconnette il lavoro in nuovi assetti produttivi e nuove identità, determinandone la reazione con il suo continuo sfruttamento. Negli anni ‘50 la catena di montaggio aveva scomposto l’organizzazione professionale di classe, isolando sulla linea una nuova manovalanza generica; allo stesso tempo, però, proprio quella linea e lo sfruttamento che imponeva (a partire da ritmi e cottimo) furono il canale di riorganizzazione e quindi esplosione del successivo ciclo di lotte. Così oggi la disgregazione della classe non è definitiva, ma è inevitabilmente inserita in un processo dinamico di ricomposizione della moltitudine del lavoro. In secondo luogo, è la stessa classe che si autorganizza nell’antagonismo con il capitale, sviluppando in maniera spesso improvvisa e imprevedibile nuove lotte e appartenenze. Il compito principale di un partito rivoluzionario, allora, non è quello illusorio di determinare questi processi. È quello di coglierne la dinamica, sostenerli e, se possibile, catalizzarli; soprattutto imprimergli un’evoluzione rivoluzionaria. Se la classe è antagonista, infatti, al contempo è anche un fattore della produzione: tende cioè a sviluppare una dinamica corporativa, particolarmente in un tempo di egemonia reazionaria, e in ogni caso una tendenza economicista alla semplice difesa della sua forza lavoro. Il compito principale di un partito rivoluzionario in una fase di disorganizzazione di classe ed egemonia reazionaria, allora, è quello di supportare la sua riorganizzazione e lo sviluppo della sua coscienza, sostenendo dinamiche di generalizzazione delle lotte e autonomizzazione di classe.
Evitare la tentazione di ripiegare. Di fronte al ripiegamento di classe, di fronte all’egemonia reazionaria, di fronte alla de(s)composizione del popolo di sinistra, nel nostro partito e più in generale nell’avanguardia rivoluzionaria è emersa una tendenza ad adattarsi, ripiegando su sé stessi. Una tendenza favorita dal ripiegamento più complessivo dell’avanguardia larga, come abbiamo visto sempre più sganciata dalle dinamiche di massa. Si sviluppano cioè tendenze e pratiche settarie. Da una parte la sottovalutazione delle rivendicazioni parziali e transitorie, cioè degli interessi e dei bisogni elementari delle masse quali sono oggi. Dall’altra l’esclusiva focalizzazione sulla propaganda del programma rivoluzionario, rinchiudendosi sulla propria identità, aspettando che la classe si riorganizzi e risalga la marea del conflitto sociale. Una tendenza evidenziata in più occasioni, come i volantini all’ultimo sciopero dei metalmeccanici o al corteo sindacale di Reggio Calabria. Gli avvenimenti politici e sociali, in questa deriva, diventano soprattutto occasioni per fare commenti, non per agire su di essi. Il programma rivoluzionario però non è formulato per una redazione, una sala di lettura o un club di discussione, ma per l’azione di milioni di uomini. Il partito allora deve evitare ogni fuga avanguardista. Deve stare una spanna sopra la coscienza di massa, per poter indicare la strada, ma sempre una spanna: non due, per non isolarsi. È necessario cioè continuare a camminar dritto, a dispetto di tutte le oscillazioni delle masse, ma nel contempo saper intercettare ogni scontro di classe, per quanto ambiguo e confuso, per individuare in esso e quindi sviluppare le sue potenzialità rivoluzionarie.
Dalla propaganda all’agitazione: spostiamo in avanti il nostro baricentro. D fronte alle crescenti difficoltà, negli scorsi anni abbiamo ritenuto necessario rafforzare la cosiddetta seconda gamba, il nostro intervento settoriale, a fianco del classico intervento propagandistico del partito. Oggi, nel quadro di una disorganizzazione di classe ed un’egemonia reazionaria, è necessario spostare con determinazione il peso su questa seconda gamba. È necessario cioè investire di più sull’agitazione, l’intervento di massa, il conflitto di classe, la strutturazione nei settori (nei sindacati, negli studenti, nei movimenti). È necessario cioè investire sulla formazione di quadri di lotta e la direzione dei conflitti. Senza abbandonare la propaganda, sia sul terreno generale sia in questi specifici contesti di intervento: come ricordava Lenin nel 1897, bisogna sempre diffondere a livello di massa la consapevolezza del regime economico e sociale contemporaneo, delle sue basi e della sua evoluzione, delle diverse classi della società, dei loro rapporti reciproci, della lotta che si svolge fra queste classi, della funzione della classe operaia in questa lotta, della necessità del partito e del progetto socialista. Ma, sempre come ricordava Lenin, inseparabile dalla propaganda è l’agitazione, che naturalmente si pone in primo piano dato il livello di sviluppo delle masse operaie. Serve cioè impegnare il partito nella partecipazione a tutte le manifestazioni spontanee della lotta della classe operaia, a tutti i conflitti per la durata della giornata lavorativa, il salario, le condizioni di lavoro, ecc. ecc. Noi abbiamo il compito di fondere la nostra azione con le questioni pratiche, quotidiane della vita operaia, di aiutare gli operai a comprendere queste questioni, di richiamare la loro attenzione sugli abusi più gravi, di aiutarli a formulare in modo più preciso e più pratico le loro rivendicazioni contro i padroni, di sviluppare in essi la coscienza della solidarietà, la coscienza dei loro comuni interessi e della causa comune. Dobbiamo, cioè, porre in primo piano l’agitazione. Ricordando sempre, come abbiamo detto al secondo congresso, che nelle fasi iniziali del movimento di massa, l’obbiettivo prioritario dell’agitazione è quello di favorire la sua estensione quantitativa e soprattutto il passaggio da una prospettiva vertenziale (difesa di specifici interessi o reazione a particolari leggi, normative, condizioni) ad una di contestazione del sistema politico-sociale (prospettiva anticapitalista) ed infine da questa ad una prospettiva socialista (rivoluzione, dittatura del proletariato, trasformazione del modo di produzione).
5.2 Per intervenire nella classe: metodo transitorio, fronte unico e fronte elettorale.
Metodo e programma transitorio. Mantener dritto il proprio cammino e porre in primo piano l’agitazione. Per fare questo è centrale il metodo transitorio. Come ricordava Trotsky nel 1938, il compito storico della prossima fase (fase pre-rivoluzionaria di agitazione, propaganda e organizzazione) consiste nel superare la contraddizione tra la maturità delle condizioni oggettive della rivoluzione e l’immaturità del proletariato e della sua avanguardia (smarrimento e demoralizzazione della vecchia generazione, inesperienza della nuova); bisogna aiutare le masse a trovare, nel processo della loro lotta quotidiana, il ponte tra le rivendicazioni attuali e il programma della rivoluzione socialista. Questo ponte deve consistere in un sistema di rivendicazioni transitorie che partano dalle condizioni attuali e dal livello di coscienza attuale di larghi strati della classe operaia e portino invariabilmente a una sola conclusione: la conquista del potere da parte del proletariato. L’attuale dinamica capitalista è purtroppo la stessa di allora e quindi il nucleo del programma di transizione è lo stesso di allora:
- Nei conflitti del lavoro: la scala mobile dei salari (cioè la difesa automatica del potere d’acquisto); la scala mobile delle ore (cioè la redistribuzione tra tutti/e, a parità di salario, del tempo di lavoro) ed il controllo operaio (da una parte il puntuale contrasto del comando del capitale nei processi produttivi; dall’altra la sottrazione dell’intervento pubblico dalla subordinazione agli interessi del capitale).
- Nelle politiche economiche: un piano di opere pubbliche contro la disoccupazione e le crescenti diseguaglianze; l’espropriazione e la nazionalizzazione, senza indennizzo, delle grandi imprese; l’espropriazione delle banche e la statalizzazione del sistema del credito.
- Nella dinamica del conflitto di classe: come ricorda Trotsky, “l’esacerbarsi della lotta comporta l’esacerbarsi dei metodi usati dal capitale” e nei “periodi di eccezionale slancio del movimento operaio è necessario creare organizzazioni specifiche che comprendano tutta la massa in lotta”, anche “contro le tendenze alla conciliazione” delle burocrazie sindacali. Per questo, con lo sviluppo del conflitto è necessario sviluppare l’autodifesa di classe; per questo, con il dispiegarsi delle lotte è importante sviluppare comitati di sciopero e di fabbrica (in un’ottica consiliare e di dualismo di potere).
- Nella politica generale: la lotta contro la guerra e la conseguente militarizzazione sociale, in una fase di crescente conflittualità interimperialista; il governo dei lavoratori e delle lavoratrici, contro ogni tendenza ad alleanze di classe e come ponte diretto al processo rivoluzionario.
Alcune declinazioni del programma del 1938 ovviamente si modificano (ad esempio l’alleanza operai contadini, il governo operaio e contadino, la difesa dell’URSS). Nell’evoluzione delle barbarie capitalista, è però utile sottolineare due elementi ulteriori:
- L’esplosione della contraddizione tra capitale e ambiente, con il punto di svolta raggiunto nel degrado della biosfera: quindi la necessità della salvaguardia dell’ecosistema e di un diverso modo di sviluppo.
- L’approfondirsi dell’integrazione del mercato mondiale nel quadro di uno sviluppo ineguale e combinato: quindi da una parte il moltiplicarsi di politiche di sfruttamento internazionale, dall’altra la diffusione dei miasmi deleteri dell’odio nazionale e razziale, a cui diventa necessario rispondere con una solida solidarietà internazionalista, la denuncia spietata di tutti i pregiudizi razziali e di tutte le forme di arroganza nazionale, un rinnovato appello all’unità di classe.
Come ricorda sempre Trotsky nel 1938, infine, il movimento operaio dell’epoca di transizione non ha uno sviluppo regolare ed omogeneo, ma febbrile ed esplosivo. Le parole d’ordine, come le forme organizzative, devono essere subordinate a questo carattere del movimento. Rifiutando la routine come la peste, la direzione deve prestare la massima attenzione all’iniziativa delle masse. L’iniziativa propagandistica e agitatoria, cioè, devono sempre articolarsi con la dinamica dello scontro di classe. Questo programma transitorio deve allora esser dispiegato nel quadro di un metodo transitorio, in cui la definizione di interventi e parole d’ordine deve relazionarsi con le lotte quotidiane e le condizioni di classe, con la massima attenzione per tutte le questioni tattiche minute e parziali. Sapendo che in ogni momento l’esperienza di lotte, le vittorie come le sconfitte, possono rappresentare un fattore di accelerazione o di involuzione della coscienza di classe: quel che è avanzato oggi può esser arretrato domani, e viceversa.
Il fronte unico di classe e di massa: limiti e prospettive in questa fase. La costruzione del nostro intervento di massa si è sempre focalizzata su una politica di fronte unico: la nostra proposta e il nostro contributo (quando possibile, nei nostri limiti e condizioni dimensionali) di una mobilitazione il più possibile unitaria contro il governo e il padronato, in grado di controbilanciare la forza che spesso si esprime nel condurre le politiche contro il lavoro. Un fronte unico di classe (cioè focalizzato sui suoi interessi e quindi potenzialmente in grado di tracciare un solco nei confronti di larghe alleanze sociali con il suo stesso sviluppo) e di massa (cioè potenzialmente in grado di coinvolgere l’insieme di tutto il lavoro e di tutte le sue organizzazioni politiche, sociali e sindacali). Nel quadro di questa politica, il PCL si proponeva anche di perseguire una demarcazione su parole d’ordine e modalità di conflitto (piattaforma generale unificante, assemblea nazionale dei delegati/e, svolta radicale nelle forme di lotta a partire dallo sciopero prolungato e l’occupazione delle imprese in lotta). La dispersione del conflitto di classe, l’arretramento della coscienza di massa, la de(s)composizione della sinistra, lo sviluppo di movimenti interclassisti ostacolano oggi questa politica. La frammentazione del conflitto di classe rende talvolta astratta la propaganda del fronte unico e tanto più della sua autorganizzazione rivoluzionaria, come negli ultimi anni spesso è accaduto per la proposta di un’assemblea nazionale di delegati/e (rendendo più opportuno intervenire con parole d’ordine come la costituzione di comitati di lotta e coordinamenti di delegati/e trasversali alle appartenenze sindacali). Anche se (pur nel quadro di questo arretramento, di un’unità burocratica CGIL CISL UIL, dei limiti del sindacalismo di base), la permanenza di una sindacalizzazione di massa rende potenzialmente possibile lo sviluppo di un fronte unico su questo terreno (in sé di massa e di classe), con un profilo potenzialmente generale. Sul piano politico generale, invece, la de(s)composizione della sinistra, con lo sfaldamento delle organizzazioni di riferimento e l’isolamento dell’avanguardia dalle larghe masse, rende non solo improbabile lo sviluppo di grandi mobilitazioni della classe, ma anche irreale un suo eventuale appello propagandistico. Mentre lo sviluppo di ampi movimenti interclassisti (dal FFF alla notav, dal movimento Lgbt a quello antirazzista) rende necessario sviluppare al loro interno processi di polarizzazione classista, proprio per contrastare le dinamiche di fronte popolare inscritte nella loro dinamica. La consapevolezza delle difficoltà, in ogni caso, non deve far archiviare né la parola d’ordine né questa prassi, a partire dall’esigenza fondamentale di una mobilitazione e di un’autorganizzazione dell’insieme della classe. Come per il programma transitorio, però, è importante condurla in stretta relazione con le dinamiche del conflitto e della coscienza di classe.
Il fronte elettorale: un terreno importante, l’opportunità di una politica di cartello. Le elezioni sono sempre state un fronte di intervento di massa privilegiato per un partito comunista rivoluzionario. Non per la conquista di qualche posto o l’illusione di una trasformazione sociale per questa via, ma per la possibilità di parlare all’insieme della classe e diventare un loro punto di riferimento, la in-formazione di immaginari di massa, l’eventuale conquista di un’autonoma rappresentanza di classe (in grado di dar voce e corpo anche alla sua resistenza), il suo utilizzo per la generalizzazione della conflittualità antagonista. Un terreno che diventa oggi più importante, nel quadro della Grande Crisi e dell’egemonia reazionaria sulle classi subalterne, per il suo ruolo nella definizione del senso comune, delle identità collettive e della coscienza di massa. Non è quindi un terreno che può esser abbandonato, per quanto l’ulteriore irrigidimento delle norme ed il logoramento del partito rendano più complessa la presentazione. Tanto più in questo quadro, si confermano quindi gli assi ed i principi dell’intervento elettorale del PCL definiti negli scorsi congressi. Alle regionali, nazionali ed europee diventa però sempre più difficile partecipare, se non controproducente (per l’impegno e i risultati). In questo quadro, può esser utile promuovere cartelli classisti e internazionalisti, superando la loro occasionalità ed approssimazione, per provare a contrastare con questa presenza elettorale da una parte la deriva in corso, dall’altro la confusione della sinistra politica. Un cartello in cui si possa collocare, autonomamente e con evidenza, il nostro progetto comunista e rivoluzionario. La recente esperienza di Per una sinistra rivoluzionaria, come abbiamo detto, è stata complessivamente disastrosa. Per di più, le altre forze classiste e internazionaliste (a partire da quelle principali, come SA e SCR) sono oggi impegnate in percorsi diversi. In ogni caso, si ritiene utile verificare questa impostazione nei prossimi appuntamenti ed opportuno esplicitare sin da subito questa proposta complessiva, anche al fine di affrontare i limiti che hanno caratterizzato la campagna del 2018.
5.3 Lo sviluppo dell’agitazione e dell’intervento di massa nei diversi settori.
L’azione di polarizzazione e tendenza. Il partito deve quindi spostare il peso dalla propaganda alla agitazione, nel quadro della difficoltà della politica di fronte unico di massa e di classe, sulla base del metodo e del programma di transizione. Per questo diventa fondamentale sviluppare interventi di settore coordinati ed omogenei, superando le improvvisazioni e le parzialità che abbiamo sinora conosciuto. Questo intervento deve esser finalizzato allo sviluppo di processi di polarizzazione: cioè l’assunzione di riferimenti classisti, internazionalisti e rivoluzionari nella dinamica dell’avanguardia larga e, se si riesce, a livello di massa. L’obbiettivo principale dell’intervento di settore, cioè, non è la conquista di singole avanguardie (anche se ovviamente questo è un risultato), quanto la capacità di influire sulla dinamica delle mobilitazioni, spostando quindi il loro possibile sviluppo in direzione rivoluzionaria. Ad esempio, come in Genova Antifascista, dove la sezione genovese ha conquista nel tempo, con una partecipazione militante, un ruolo nelle mobilitazioni e una significativa influenza nella definizione di documenti, piattaforme e parole d’ordine. Questo intervento può esser condotto con maggior impatto attraverso unità d’azione parziali (di scopo e su singoli settori), anche a geometria variabile, con altri soggetti classisti e internazionalisti. Un’unità d’azione con diversi percorsi: ad esempio nei cortei e negli appuntamenti di movimento, promuovendo poli classisti e internazionalisti (puntando a diventare punto di riferimento e di aggregazione più generale in quelle occasioni); nei territori e sul piano nazionale, promuovendo specifiche campagne social e nei territori (ad esempio su Siria, Europa, guerra, antifascismo, ecc). In quest’azione di polarizzazione, si colloca lo sviluppo di tendenze programmatiche settoriali: percorsi continuativi sulla base di un’impostazione transitoria e di un relativo programma parziale (nel senso di centrato sulle contraddizioni e i conflitti di una specifica realtà), con l’obbiettivo di influire nelle lotte e mobilitazioni di quel settore, raggruppando le avanguardie che ne condividono le sue principali rivendicazioni transitorie. Il loro intervento deve quindi proporsi sempre in una logica di massa, mirata alla conquista della maggioranza, estranea ad ogni riflesso settario. Le tendenze ovviamente non sono articolazioni di partito, ma non sono necessariamente (o prioritariamente) neanche delle organizzazioni (più o meno indipendenti): possono infatti definirsi come correnti di movimento più o meno fluide, più o meno strutturate, a seconda degli ambiti, delle situazioni e delle dinamiche di lotta.
L’intervento sindacale. In un contesto di Grande Crisi ed egemonia reazionaria sulle classi subalterne, l’intervento nella classe si propone di cogliere i processi in corso di disorganizzazione e riorganizzazione di classe, sostenerne la conflittualità, supportare una generalizzazione delle lotte e lo sviluppo di una coscienza diffusa, nel quadro di un rilancio complessivo dell’’autonomia e della solidarietà di classe. Per questo è prioritaria la proposta dell’autorganizzazione: comitati di lotta, coordinamenti di delegati/e e fronti di lotta settoriali, attraverso cui diffondere vertenze, mobilitazioni e relative casse di resistenza. E quindi, con lo sviluppo delle dinamiche di lotta, sviluppare l’agitazione e la propaganda consiliarista, a partire da assemblee di delegati/e eletti ai diversi livelli per la gestione delle vertenze e delle mobilitazioni. In questo quadro arretrato e frammentato, si conferma però la momentanea inattualità della proposta di una costituente sindacale di classe. La priorità infatti è quella di una progressiva convergenza delle pratiche conflittuali e classiste, proprio a partire da comitati e coordinamenti intersindacali nei luoghi di lavoro e nei territori. Per sviluppare questo intervento, il PCL ha bisogno di due diversi ambiti, nel quadro di un coordinamento della Commissione lavoro. In primo luogo, occasioni e strutture di coordinamento intersindacale, per favorire la circolazione ed il confronto sulle diverse dinamiche ed esperienze di lotta, la definizione di comuni strategie di resistenza, la valutazione delle diverse forme e modalità del conflitto di classe. Un supporto dell’intervento anche con bollettini e strumenti pubblici di informazione, attraverso cui far circolare le esperienze di lotta e la riflessione su di esse. In secondo luogo, occasioni e strutture di coordinamento nei diversi sindacati, per concretizzare le linee di intervento e organizzare l’attività quotidiana. Considerata la situazione, si ritiene prioritario prevedere forme di coordinamento (e in qualche modo concentrare l’intervento, sempre subordinatamente all’autonoma valutazione dei compagni/e sulle loro specifiche condizioni, sentite le sezioni di appartenenza e la Commissione lavoro) nell’OpposizioneCGIL e in CUB-SGB. Nel quadro della linea del partito (stabilita da Congressi e CC), nel quadro dell’impostazione generale definita della commissione lavoro, tattiche e modalità di questo specifico intervento sono quindi definite dai compagni/e di queste organizzazioni, secondo la loro specifica strutturazione.
L’intervento studentesco. La condizione studentesca è parziale e transitoria. Parziale, perché pur essendo un nucleo importante della loro identità, è relativamente indipendente da altre rilevanti determinazioni sociali (a partire da quella di classe). Transitoria, perché gli studenti sono persone in formazione, destinati a inserirsi nel mercato del lavoro. In questo quadro, nel modo di produzione capitalista la condizione studentesca presenta specifiche contraddizioni, a partire dalla temporanea subordinazione di adulti (in grado di produrre e di riprodursi), inseriti in istituzioni totali che tendono al loro controllo sociale (famiglia e scuola). Per questo, si rende necessaria una riflessione sull’intervento studentesco, che intreccia mondo educativo (struttura e sue dinamiche), pulsioni antiautoritarie, contraddizioni di classe (studenti proletari), dinamiche politiche connesse al desiderio di cambiamento proprio delle giovani generazioni (nel quadro della loro parziale e temporanea astrazione dai rapporti di produzione). L’intervento deve quindi amalgamare questi diversi elementi, a seconda dei diversi periodi e contesti, tenendo presente anche del rapido succedersi delle diverse generazioni. Per questo, il movimento studentesco ha sempre avuto una significativa fluidità, presentandosi in diverse ondate con dinamiche molto diverse (pensiamo solo al movimento dell’85, la pantera del 90/91, le lotte degli anni ’90 contro numero chiuso e tasse universitarie; i movimenti noglobal dei primi 2000, l’onda del 2007/09, le contestazioni universitarie del 2010/12, l’esperienza di FFF). Attualmente il movimento studentesco si presenta particolarmente disperso. Nelle scuole superiori e nelle università le presenze sono limitate. Si sono definite alcune organizzazioni parasindacali, più o meno riformiste (Uds, Udu, Link), una rete di collettivi sempre più dispersa e solitamente collegata a realtà antagoniste; un intervento politico concentrato in ambiti di stretta avanguardia (FdG, Comitati leninisti, FGCI, ecc); una crescente presenza dell’estrema destra (in particolare Casapound), capace di radicamento e anche di proiezione politica (conquista di consulte studentesche, anche in città importanti). In questo quadro, è importante che le strutture del partito abbiano un’ampia autonomia di elaborazione e sperimentazione, pur nell’alveo del centralismo democratico. In ogni caso, tenendo conto dell’estrema limitatezza delle forze, è importante sottolineare l’irragionevolezza di condurre esperienze parallele (intervento di partito come “Lo studente trotskista” e intervento di tendenza, più o meno in riferimento a Corsa) e, tenendo conto le complessità qui delineate, l’opportunità di sviluppare uno specifico intervento programmatico di settore.
Intervento di classe e questione meridionale. La Grande Crisi ha rilanciato la questione meridionale, aggravando le storiche disuguaglianze del paese e ridefinendo anche la sua geografia politica. In questo quadro, emerge con sempre maggior evidenza una divergente composizione politica di classe (una diversa dimensione soggettiva inerente ai bisogni, le culture, le identità e la disposizione alla lotta). Nel centro-nord la tenuta di un tessuto produttivo diffuso (in parte consolidatosi nella crisi) ha riprodotto una cultura vertenziale e contrattuale, per quanto indebolita e dispersa. Nel meridione invece la devastazione della crisi, la disoccupazione, l’ipersfruttamento (anche di carattere servile), le dinamiche clientelari, il degrado dei patti territoriali e delle sue deroghe, hanno profondamento minato conflittualità e vertenzialità nei processi produttivi. E questo nonostante che alcuni dei principali stabilimenti del paese siano proprio in quelle realtà (Ilva, Fca, petrolchimici, ecc). Anche se negli ultimi anni il meridione ha conosciuto lotte significative (le resistenze operaie alla FCA di Termoli e Pomigliano, quelle al petrolchimico di Gela, i movimenti bracciantili in Calabria e in Puglia, gli scioperi nei call center a Palermo e Cosenza) e lo sviluppo di specifici movimenti di massa con una declinazione interclassista, come quello contro la Terra dei Fuochi in Campania o l’esperienza tarantina contro l’inquinamento dell’ILVA (anche con i concerti alternativi del primo maggio). In questo contesto, emergono spinte di stampo reazionario, che penetrano facilmente nel senso comune di una società disorganizzata (come i forconi, le correnti neoborboniche, i 5 stelle). In questo contesto complesso diventa sempre più urgente rompere questa dinamica, assumendo la questione meridionale a livello nazionale, in un movimento del lavoro in grado di saldare l’insieme delle classi subalterne del paese. Non sarà facile. È comunque un obbiettivo per i lavoratori e le lavoratrici di tutto il paese, perché tutti/e sono indeboliti da queste divergenze (come è chiaro dal degrado dei ccnl, del salario globale e delle condizioni di lavoro insito nell’autonomia differenziata). Bisogna cioè sforzarsi di tessere i fili di un nuovo blocco sociale, in grado di riconnettere queste moltitudini del lavoro frammentate nei territori e fra i territori. Per questo, serve approfondire una specifica proposta, in grado di coinvolgere non solo le sezioni meridionali ma l’insieme del partito, anche con ridefinizioni delle parole d’ordine transitorie (ad esempio, quella sul governo dei lavoratori: è possibile trovare oggi formulazioni più comprensive, che oltre alla fondamentale questione di genere siano capaci di rivolgersi all’insieme della moltitudine del lavoro, come “Che se vadano tutti/e! Governino lavoratori e lavoratrici: operai, impiegati, precari e disoccupati”?). A questa riflessione, come ad un’analisi più complessiva, è chiamata con urgenza una conferenza di tutto il PCL.
L’intervento nei movimenti democratici e ambientalisti. Questa stagione è caratterizzata dallo sviluppo di grandi movimenti di massa interclassisti, da una parte tendenzialmente settoriali, dall’altra fluidi e moltitudinari (catalizzati intorno a occasioni, simboli o esponenti esemplificativi). Movimenti spesso senza piattaforma e senza una direzione definita, che riescono a sviluppare ampi fronti sociali proprio in virtù della loro focalizzazione e della loro ambiguità: dalle mobilitazioni per la pace a quelle contro il razzismo, dai Pride Lgbt a quelle ambientaliste (FFF). Questi movimenti hanno un ruolo ambivalente: da una parte rappresentano un’ampia opposizione sociale, stimolando una nuova partecipazione di massa; dall’altra inscrivono questa partecipazione nel quadro di una logica di fronte popolare (contribuendo a disperdere identità e fronti unici di classe). La loro dinamica, inoltre, può paradossalmente rinforzare la saldatura tra movimenti reazionari e classi subalterne, coinvolgendo da una parte soggetti e impostazioni democratico-liberali, dall’altra ceti medi soddisfatti che si pongono in diretta contrapposizione proprio con i sentimenti delle classi subalterne nella crisi. In questo quadro, il compito del PCL e delle tendenze classiste/rivoluzionarie è sostanzialmente duplice. Da una parte partecipare a queste mobilitazioni, senza alcuna marginalizzazione settaria, a partire dal coinvolgimento attivo nell’organizzazione di questi appuntamenti. Dall’altra, per contrastare questa loro dinamica, diventa altrettanto fondamentale sviluppare al loro interno una polarizzazione, cercando di arrivare, anche grazie allo sviluppo del conflitto, a momenti di rottura secondo una linea di classe (anche per ricostruire le condizioni per un fronte unico di classe e di massa).
Organizzazione di classe e intervento antirazzista. Una particolare specificità, in questo quadro, assume l’intervento antirazzista e con i migranti. Il movimento antirazzista si è sviluppato insieme alle migrazioni: il primo grande corteo è quello del 1989 per l’assassinio di Jerry Masslo a Villa Literno. Da allora si sono ripetute le mobilitazioni contro razzismo e pregiudizio, contro una legislazione discriminatoria di centrodestra e centrosinistra (Martelli, Turco-Napolitano, Bossi-Fini). Particolarmente attive sono state, in una prima fase, le grandi organizzazioni della sinistra (sindacati, partiti e ARCI), sia nella mobilitazione che nel supporto (campi, sportelli, ambulatori, ecc). Dalla seconda metà degli anni ‘90 hanno iniziato ad esser protagoniste anche strutture autorganizzate, spesso sostenute dall’estrema sinistra e dai sindacati di base (centri sociali del nordest e Razzismo STOP; SR e 3 febbraio; NAGA; SiCobas, AdL e USB nella logistica, Asia e CUB nella casa, USB tra i braccianti, ecc). Una dinamica favorita anche dalle politiche razziste e repressive del centrosinistra, come il ministero Minniti durante l’ultimo governo PD. Anche se con gli anni 2000 è cresciuto il ruolo delle comunità (talvolta con strutture legate ai paesi di provenienza, anche di matrice reazionaria), si sono sviluppati i primi riot etnici (i cinesi a Milano nel 2007, Rosarno nel 2010 e nel 2016) e si è consolidato il ruolo di alcune strutture cattoliche (come Caritas e Migrantes, capaci di una presenza capillare, di intrecciare rapporti tra istituzioni e comunità, di una conoscenza puntuale del fenomeno). L’esplosione della deriva razzista negli ultimi anni ha segnato il riavvio di un’ampia mobilitazione (pur nel quadro del logoramento delle grandi organizzazioni della sinistra), come hanno evidenziato i due grandi cortei milanesi del maggio ‘17 e del marzo ‘19. Nonostante questo, è il mondo dell’estrema sinistra, dei sindacati di base, delle realtà antagoniste e dei centri sociali l’unico capace di mobilitarsi con determinazione in alcune occasioni, come mostra sia il corteo di Macerata del febbraio ‘18, sia l’organizzazione di un intervento militante di soccorso per i profughi in mare. L’intervento antirazzista e tra i migranti deve quindi tener conto di questa complessa realtà: l’ampia dimensione di massa, interclassista e democratica, di alcuni appuntamenti; la presenza, almeno potenziale, di una polarizzazione incipiente (e talvolta dispiegata), alimentata da una vasta rete di interventi classisti o dell’estrema sinistra, come dal diffuso rifiuto delle politiche democratiche di contenimento dei migranti (nazionali e locali); lo sviluppo di un’autorganizzazione migrante di carattere etnico, talvolta dal profilo reazionario. In questa complessa dinamica, il PCL e le tendenze classiste dovranno operare con particolare attenzione, per far emergere l’unità del lavoro come antidoto alla retorica razzista (non è la razza che ci divide ma la classe sociale, solo due razze: sfruttati e sfruttatori), per sviluppare percorsi autorganizzati di lotta dei migranti nel quadro dell’unità di classe, come unica reale integrazione (resistenza, diritti civili, sociali e politici per tutti l’unica vera accoglienza; chi ci ruba casa, lavoro e diritti sono i padroni per i loro profitti), per l’evoluzione internazionalista, anticapitalista e rivoluzionaria di queste mobilitazioni, con una composizione di classe particolarmente predisposta a comprendere come le cause della propria condizione vengano proprio dall’imperialismo predatorio e dai meccanismi del capitalismo.
Oppressione di genere, conflitto di classe e intervento del PCL. Nel processo della crisi la battaglia delle donne per i propri diritti a livello globale ha subito sconfitte e rallentamenti. L’autonomia a lungo rivendicata dai rapporti familiari e le conquiste dei diritti democratici fondamentali sono tornate ad essere un nodo in molti paesi, in particolare nelle zone dove il fondamentalismo religioso ha un ruolo regressivo. Nei paesi a capitalismo avanzato l’istituzionalizzazione della “battaglia di sesso” è servita a nascondere il dato fondamentale dell’impossibilità per i governi borghesi di assicurare gli spazi per un’uguaglianza sociale per le donne. La precarizzazione del lavoro, i tagli al wellfare, l’aumento dei ritmi di produzione sia in fabbrica sia nei servizi, lavorano costantemente contro le aspirazioni di autonomia delle donne. A questo si aggiunge il risollevarsi della reazione bigotta e tradizionalista, unitamente alla ripresa dei movimenti di destra, portando nuovamente in campo le concezioni più retrive sul ruolo delle donne. Si sono visti movimenti di ampia portata negli ultimi anni, che hanno però differenti livelli sia di coscienza che di connessione con la classe, raramente anticapitalisti e molti di essi fondamentalmente legati a rivendicazioni monotematiche. Importanti momenti di protagonismo femminile sono presenti anche in tante lotte di carattere politico generale (da Gezi Park al Sudan). In questo quadro l’esperienza di nonunadimeno in Italia rappresenta i limiti dell’estrema sinistra italiana, dominata da centristi e movimentisti, con l’assenza di democrazia e il presunto distacco dal mondo del lavoro. Presunto in quanto i problemi del lavoro e dell’autonomia economica sono nodi che tornano ripetutamente al pettine ad ogni chiamata allo sciopero. Ed in questo si è caratterizzato per essere un movimento di massa, ancora oggi in grado di mobilitare qualche decina di migliaia di donne, con una estensione territoriale importante. Come molti movimenti femministi il suo carattere è interclassista, ma soprattutto all’inizio partecipato da presenze di classe (delegate di base, componenti delle commissioni sindacali di pari opportunità, ed anche settori di operaie e lavoratrici dei servizi). Il nostro intervento all’interno di questo movimento dovrà essere quanto più ampio possibile, attraverso le partecipazioni individuali, la presenza delle compagne inserite in collettivi locali, su parole d’ordine che investano le concezioni “antiwokeriste”, che rivendichino il diritto al lavoro sicuro e retribuzioni adeguate alle mansioni, contro la pratica del demansionamento discriminante, per il ripristino dei servizi sociali statali, la difesa del diritto di aborto e oltre la 194, l’autorganizzazione delle donne contro la discriminazione e la violenza. Unitamente a questo una battaglia per un’organizzazione del movimento su basi democratiche.
5.4 Una proposta politica di fase: il polo classista, internazionalista, anticapitalista e rivoluzionario
Un polo per rilanciare il conflitto e l’autonomia di classe. Il contrasto dell’arretramento di classe, il supporto alla sua riorganizzazione, la diffusione di una sua nuova coscienza ed autonomia, è un impegno rilevante per un’organizzazione esile come il PCL. Per questo ci si propone l’intervento di polarizzazione e tendenza, su basi programmatiche transitorie, attraverso cui cercare di imprimere ai conflitti una direzione rivoluzionaria. In una fase di de(s)composizione del popolo della sinistra, in cui però si conferma anche un quadro attivo di decine di migliaia di compagni/e sganciati da una dimensione di massa, è utile però rivolgere all’insieme di questi settori anche una proposta politica generale: per unirli contro la gestione capitalistica della crisi e l’involuzione reazionaria in corso, ma su un’impostazione anticapitalista e di classe. Per contrastare le dinamiche interclassiste e frontepopolariste che dominano l’attuale opposizione sociale, in alternativa ai ripiegamenti sovranisti e neocampisti emersi nella sinistra residuale. Per questo si propone una campagna politica per lo sviluppo di un polo di classe in grado di raggruppare soggetti politici, sociali e sindacali intorno ad alcune discriminanti:
- il classismo, cioè la centralità dell’autonomia di classe e della sua autorganizzazione (comitati di lotta e di sciopero, consigli etc.), in contrapposizione a tutte le derive populiste e moltitudinarie, contro ogni divisione di classe su base etnica o culturale, come contro le derive burocratiche, padronali o neocorporative del sindacalismo confederale;
- l’internazionalismo: in una fase di sempre maggior internazionalizzazione del capitale, delle catene del valore e dello sfruttamento, con crescenti conflittualità interimperialistiche e militarizzazioni sociali, è la centralità di una risposta di classe sulla stessa dimensione mondiale, in contrapposizione con ogni opzione o tendenza nazionalista, sovranista o neocampista, ogni lettura e prevalenza del conflitto geopolitico su quello di classe;
- l’anticapitalismo e il socialismo, come solo sbocco possibile ad una Grande Crisi che separa sempre più democrazia e capitalismo, che diffonde progressivamente barbarie nelle relazioni sociali, tra i popoli e nell’ecosistema: la proposta di un’alternativa fondata sulla pianificazione centralizzata, sotto il controllo democratico di lavoratori e lavoratrici, come passaggio ad una libera ed uguale associazione internazionale di produttori non più sfruttati, liberando le forze produttive e i rapporti di produzione dalla legge del profitto;
- la rivoluzione, come unico strumento per strappare il potere alle classi dominanti e quindi contrastare la deriva reazionaria in corso: un governo dei lavoratori e delle lavoratrici per superare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il degrado inarrestabile dell’ecosistema; in contrapposizione a tutte le derive gradualiste e riformiste (più o meno keynesiane), come alle illusioni di sviluppare interstizi autonomi dal modo di produzione capitalista (TAZ comunitarie, antagoniste o anarchiche).
Un polo classista, internazionalista, anticapitalista e rivoluzionario in cui la nostra organizzazione programmatica, nella sua autonomia, possa continuare a perseguire il suo progetto politico, organizzandone i settori più conseguentemente comunisti e rivoluzionari. Una proposta politica di fase che, al di là delle pratiche contingenti di polarizzazione e tendenza (transitorie, di scopo e a geometrie variabili a seconda dei contesti), eventualmente intrecciandosi con le esperienze di cartello elettorale, possa da una parte rappresentare da una parte una strategia generale di resistenza contro la gestione capitalistica della crisi e la reazione, esprimendo un modello riproducibile su scala europea, dall’altra un processo effettivo di convergenza e rilancio della conflittualità di classe in questo paese.
- LINEA POLITICA ED ORGANIZZAZIONE: RIVEDERE LE PRIORITÀ DEL PCL CON IL NUOVO CORSO
6.1 Un piccolo partito proiettato nell’intervento.
L’organizzazione del PCL si è strutturata in questi dieci anni su tre nuclei fondanti. I suoi militanti, che con il secondo congresso sono stati considerati tutti dirigenti, quindi responsabili in prima persona del proprio intervento. Le sezioni ed i nuclei territoriali, con ampia autonomia politica e organizzativa, ipoteticamente nell’ambito di un progetto e di un bilancio di sezione formalizzati, e quindi discutibili e verificabile (anche se quasi nessuno li formalizzava e gestiva consapevolmente, anche se mai la direzione del partito ha proceduto ad una loro discussione o verifica). Tenendo quindi insieme il tutto con organismi centrali fragili e dispersi (la segreteria, il CC e le commissioni).
Il PCL è oggi molto più piccolo che alla sua fondazione ed ha deciso di impostare un nuovo corso. Nel quadro di una conferma del suo programma rivoluzionario, nel quadro della conferma di un partito di avanguardia, ci si propone in una fase di disorganizzazione di classe ed egemonia reazionaria di spostare il baricentro sull’agitazione. È quindi necessario anche adattare l’organizzazione, le sue forme e le sue prassi, a questo nuovo corso. È cioè necessario semplificare e razionalizzare la sua struttura, anche al fine di sviluppare un intervento collettivo, non più semplicemente occasionale o delegato a singoli/e compagni/e. Per questo il nuovo CC dovrà valutare una ristrutturazione della segreteria e del centro del partito, la ridefinizione dei compiti e della composizione delle commissioni del CC, l’implementazione di alcune strutture di cui siamo stati sempre deficitari ma che oggi diventano indispensabili, nel quadro di un’egemonia reazionaria di governo e di uno sviluppo di movimenti fascisti (autodifesa e difesa legale).
6.2 Centralismo democratico: centralizzazione della linea e sviluppo del confronto
Il PCL rivendica pienamente la sua matrice e la prassi comunista rivoluzionaria. Come abbiamo sottolineato tra i punti programmatici cardinali, per il PCL la riaffermazione costante del libero e paritario confronto tra le diverse posizioni, anche organizzate, è il prodotto della tragica degenerazione autoritaria e bonapartista in Unione sovietica e nella terza internazionale, come di una diffusa deriva leaderistica e settaria della sinistra rivoluzionaria (anche nello stesso movimento trotzkista). Per questo l’unità ed il centralismo nell’azione deve sempre esser controbilanciata (come nel partito bolscevico sino al decimo congresso) dal libero e paritario dibattito, anche pubblico, nell’organizzazione. Non è il semplice riconoscimento del diritto ad un dissenso organizzato, è la costituzione teorica e materiale di un partito comunista rivoluzionario basato su un programma antiburocratico. Un pluralismo analitico e politico, nel solco del suo programma rivoluzionario, che come nella miglior tradizione bolscevica (per tutta la sua storia, anche durante la dittatura zarista, sino al X congresso) non occulta necessariamente il confronto. Perché la discussione ed il confronto politico è occasione di maturazione ed evoluzione rivoluzionaria, non solo del partito ma anche della classe, in un rapporto che deve sempre esser intenso e dialettico. In questo quadro si colloca il centralismo, che deve esser altrettanto rafforzato nel PCL. Nella definizione della linea politica e nel coordinamento dell’intervento di massa. Un centralismo che deve innanzi tutto esser fondato sullo sviluppo sulla chiarezza degli ambiti e delle prassi decisionali, spesso mancata negli ultimi anni, in una deriva conflittuale in cui di volta in volta si sono individuati metodi ed organismi diversi, o imposto documenti contradditori nel CC, pur di far prevalere la propria linea politica. Per questo è fondamentale ribadire, a livello nazionale, il rifiuto di ogni prassi assembleare che sino a pochi anni fa ha sempre caratterizzato il PCL: dal momento che disponibilità materiali e temporali facilitano inevitabilmente chi è più prossimo geograficamente al luogo della riunione, ogni ambito od occasione politica non sia formativo o di confronto deve svolgersi sulla base di un principio funzionale o di rappresentanza. Come è altrettanto fondamentale, una volta che una linea è stata decisa ed assunta negli organismi del partito, garantire l’impegno di tutti nei confronti delle decisioni assunte (indipendente dalle posizioni assunte) ed il rispetto di quelle decisioni.
In questo quadro, è opportuno anche sviluppare la discussione politica settoriale. Nel cambio di passo che ci si propone, acquisisce infatti centralità il confronto politico sulle esperienze condotte, l’elaborazione sulle tattiche e le metodologie di intervento, la definizione della linea d’azione e degli specifici posizionamenti del partito. In un contesto, per di più, dove negli ultimi anni si sono sviluppate molteplici tendenze e sensibilità politiche nel partito, diventa quindi fondamentale sviluppare ulteriori strumenti e occasioni di confronto politico. A livello centrale e nei diversi settori di intervento. Ad esempio, strutturando periodicamente e continuativamente Intercom, implementando liste e strumenti social (valutando anche forum riservati sul sito nazionale). In questo quadro, può esser utile una conferenza annuale per delegati/e (anche su singole questioni), per coinvolgere periodicamente il partito nell’elaborazione e nella verifica complessiva della linea politica.
6.3 Gli strumenti di propaganda (e agitazione): MR, Unità di classe, FB e pclavoratori.it
Il nuovo corso del partito ha bisogno di strumenti di propaganda ancor più efficaci. Il cambio di passo dell’agitazione, come ricorda Lenin nel 1897, non prescinde dalla propaganda politica teorica. Anzi, proprio la maggior proiezione nell’intervento di massa, rende necessario investire e rilanciare gli strumenti di comunicazione politica del partito. È cioè necessario, come più volte sottolineato nel passato, dare maggior attenzione su questi strumenti, anche con una loro maggior focalizzazione. I volantini, nel quadro di un loro utilizzo con settori di classe con una scarsa coscienza politica, oltre a quelli centrati sull’argomentazione dedicati all’avanguardia, devono prevedere anche lo sviluppo di una comunicazione di massa, focalizzata su immagini, parole d’ordine, testi semplici e brevi. È necessario rinforzare e strutturare una redazione unificata della comunicazione socil e web, rivedendo e integrando maggiormente il sito con questi nuovi strumenti di comunicazione. Unità di Classe, che si valuta utile mantenere bimestrale (6/8 numeri anno), deve esser strettamente connessa alla definizione e l’indicazione della linea contingente e dell’intervento politico: per questo la redazione deve coinvolgere direttamente la segreteria ed i responsabili delle commissioni di intervento. MR (la rivista teorica) deve regolarizzarsi (semestrale), focalizzandosi sui risvolti teorici dell’attualità politica e dell’intervento del partito (sovranismo, sindacato, diritti LGBT, guerre e imperialismi, neofascismo, razzismo, ecc.), valutando anche l’opportunità di approfondimenti tematici per ogni numero.
Il conclusione: il PCL deve continuare a camminar dritto, con il proprio progetto e il proprio profilo programmatico comunista rivoluzionario. Per camminar dritto in una stagione di Grande Crisi, disorganizzazione di classe ed egemonia reazionaria, però, deve cambiare corso: prender atto dei limiti della sua precedente strategia di costruzione, spostare il peso dalla propaganda all’agitazione, sviluppare un intervento di massa sulla base di un metodo transitorio, ridefinendo quindi la sua struttura organizzativa. Mantenendo cioè fermo il suo cammino in un diverso panorama.
Cristian Briozzo, Tiziana Mantovani, Piero Nobili, Ruggero Rognoni, Luca Scacchi