Cari compagni e care compagne,
Con questo scritto tenterò di spiegare agli organi dirigenti e a tutto il corpo del Partito la tanto ponderata e sofferta decisione di dimettermi dai miei ruoli in Segreteria Politica e in Commissione Lavoro e Sindacato.
Ancora adesso ricordo con emozione la mia elezione in Comitato Centrale in occasione del III Congresso del PCL, la commozione per quell’inaspettato risultato e per quello che consideravo e considero un onore e motivo di orgoglio: poter essere parte degli organismi dirigenti del Parito Comunista dei Lavoratori per assumere a pieno titolo le mie responsabilità di militante e dirigente marxista rivoluzionario per l’avvenire della rivoluzione proletaria e comunista mondiale.
Con altrettanta commozione ricordo il momento in cui divenne definitiva la mia elezione in Segreteria Politica in seguito al turbolento e conflittuale IV Congresso, che tanti strascichi e ulteriori perdite ha poi portato con sé.
Le cause di questa mia tormentata scelta radicale sono di varia natura e, solo con difficoltà, è possibile indicare quale sia quella scatenante o più influente.
La conclusione cui mi ha portato questo periodo di riflessione, però, è molto chiara e netta: ogni combattente deve saper riconoscere un’operazione fallimentare e comprendere la necessità di una ritirata per evitare la disfatta a cui porterebbe la cieca ostinazione.
Le cause, come dicevo, sono sia di ordine personale che di ordine politico e generale.
Vivo un momento di estrema difficoltà individuale legata alla perdita del lavoro, al ritorno delle difficoltà economiche, allo sfaldamento di rapporti personali e amicali a causa dell’estrema precarietà, al fallimento di molti progetti personali legati in termini diretti alla militanza sulla questione abitativa e nel mio quartiere di riferimento a Genova. Sebbene questa militanza mi abbia permesso di conquistare un affitto a canoni ultrapopolari dopo 3 anni di occupazione, ha portato con sè non pochi problemi relazionali, personali, umani e ha avuto non poche ricadute psicologiche legate alla necessità di affrontare e immergersi nel disagio estremo di nuclei familiari complessi, condizioni cariche di inevitabili contraddizioni che nel tempo mi hanno costretto anche ad assumere posizioni e compiere scelte che vorrei non aver mai dovuto prendere.
Tali questioni e l’attività militante su molteplici livelli e ad altissima intensità hanno anche provocato alcuni problemi di salute che, trascurati nel tempo, hanno contribuito a aumentare le mie difficoltà personali e umane, richiedendo oggi percorsi di attento e ponderato recupero per salvaguardare me stesso.
Questi elementi sono comunque l’impalcatura su cui si innestano, evidentemente, ragioni politiche legate invece al più ristretto percorso del nostro partito e della mia militanza in esso.
Cercherò quindi di presentare in maniera più sintetica e breve possibile le ragioni del mio impegno e cosa mi abbia portato a ritenere fallito il percorso intrapreso e di non poter vantare di esser riuscito ad imprimere, con la mia presenza negli organi dirigenti, una direzione alternativa, nuova e più connessa con le sfide presenti per la nostra organizzazione.
Fin dal principio il mio intento era, ed è, quello di battermi per l’affermazione del nostro partito, della sua valenza programmatica, del suo patrimonio teorico e analitico, all’interno del movimento reale e entro la nostra classe di riferimento. Il tutto cercando di fornire all’elaborazione e all’organizzazione del nostro partito necessari spunti, innovazioni, attenzioni, interventi per renderlo maggiormente appetibile, più visibile e interno alle dinamiche del conflitto di classe dove questo si esprime, con tutte le sue contraddizioni e limiti.
Questa necessità e questa spinta, assieme alla maturazione con la formazione e l’esperienza dentro questa organizzazione, mi han permesso di compiere una vera è propria evoluzione politica che mi ha portato, all’alba del IV Congresso, a contribuire all’elaborazione della Piattaforma B e alla battaglia congressuale che essa esprimeva, con lo scopo di porre all’attenzione del corpo militante la necessità di un vero e proprio cambio di passo e di priorità politiche e di intervento, un nuovo paradigma di costruzione e di formazione del partito di quadri e del suo cerchio di aderenti e sostenitori, una strategia di costruzione, propaganda e agitazione e un target di riferimento radicalmente modificati in funzione di un rilancio e di un maggior collegamento del partito con la classe e con i fenomeni di conflitto sociale e di classe, che si sviluppavano tra un nuovo proletariato immigrato e settori di conflittualità nuovi e inediti, all’interno di un contesto di relazioni sociali e politiche completamente rivoluzionato rispetto anche solo a 20-30 anni fa.
Alle turbolente esperienze della Piattaforma hanno seguito una scissione e la costituzione di una Tendenza, la Tendenza Cuneo Rosso, di cui sono stato principale artefice in principio e da cui sono stato sostanzialmente espulso dopo le divergenze politiche emerse sulla questione sindacale e sulla strategia di costruzione in rapporto ai sindacati di massa – in particolare la CGIL – e ai sindacati di base e conflittuali.
Questo elemento, oltre alle legittime rivendicazioni della Tendenza stessa che reclama le mie dimissioni in quanto non più rappresentativo delle loro posizioni – a cui già tempo fa risposi argomentando la questione nello specifico – e di quelle della Piattaforma B – a detta loro, considerato che sarebbe l’unico motivo plausibile per cui richiedere le mie dimissioni in seguito alla loro svolta sull’intervento sindacale rispetto alle stesse posizioni della Piattaforma – rendono la mia posizione in Segreteria alquanto debole e meno efficace di quanto già non lo fosse precedentemente. Mi ritrovo ad essere dirigente senza base, generale senza truppa, intenzionato a portare avanti posizioni politiche e rivendicazioni organizzative e di metodo di una Piattaforma considerata superata dai suoi stessi proponenti. La rielaborazione teorica e programmatica su svariati temi di intervento – propaganda, organizzazione, femminismo, eco-comunismo, sindacato etc – si è svolta senza il mio coinvolgimento facendo sì che la Tendenza Cuneo Rosso sancisse la mia definitiva esternalità al percorso di costruzione di quella minoranza. Ne prendo atto, risponderei ad ogni documento proposto dai compagni e dalle compagne della Tendenza Cuneo Rosso, considerato che in molti passaggi compiono brusche virate rispetto alle posizioni, alle proposte e alle analisi stesse della Piattaforma B – sul concetto di tendenza classista e anticapitalista, sul concetto di intervento sindacale e nel sindacato, sul concetto di organizzazione politica interna e organismi dirigenti e del loro significato politico, sull’assunzione del federalismo organizzativo come dato di fatto e non più sul contrasto di tale debolezza, sulla rinuncia allo strumento del giornale anziche ad una sua rifondazione redazionale, stilistica e progettuale –, così come sono presenti spunti, riflessioni e proposte interessanti che dovrebbero stimolare dibattito e discussione, che non voglio affrontare in questa sede.
Oggi credo necessario assumere il fallimento sostanziale del progetto della Piattaforma B. Di quella proposta di una dirigenza alternativa e di una strategia di costruzione e intervento del partito radicalmente differente oggi rimane quasi nulla, mentre si sono sviluppate nuove tendenze e frazioni dentro il Partito nonostante il suo arretramento e il suo calo di iscritti. Dopo l’assunzione del proprio essere minoranza e la difficoltà avuta nel superare pregiudizi in un corpo militante, per la maggior parte stabilizzato nella consuetudinaria fiducia quasi genitoriale nei confronti dei leader storici; dopo una scissione prodotta proprio dall’immaturità di accettare di essere minoranza in un organizzazione e avviare così un lavoro di intervento, costruzione, rafforzamento e maturazione nella battaglia interna al partito e nell’occupazione di posti chiave nell’organizzazione, nella dirigenza e nel movimento di classe e rivoluzionario; dopo il disorientamento e la difficoltà a ripartire in maniera efficace e coordinata con la perdita di spinta dei e delle militanti che la componevano; dopo tutto ciò si sono sviluppate discussioni rispetto al metodo di conduzione della battaglia interna che si sono concluse con il salto in avanti – in realtà in due direzioni poi ricomposte successivamente e nuovamente scomposte con l’uscita di una sezione – sul tema sindacale e sulla difesa di metodi di intervento federalisti di alcune sezioni. Da questo momento credo sia necessario prendere atto che la Tendenza Cuneo Rosso ha preso una sua strada che la porterà direttamente all’elaborazione di una nuova Piattaforma in occasione del prossimo congreso. Auguro a questi compagni e compagne le migliori fortune politiche augurandomi che dove vi saranno convergenze sulle battaglie, sulle proposte e sulle prospettive ci si possa ritrovare negli organi dirigenti e nella militanza nel partito in una battaglia comune.
Al più specifico rapporto tra me-dirigente di minoranza e me-dirigente di partito, in virtù del diritto di rappresentanza e voce di una piattaforma congressuale, si somma il più complesso bilancio del mio lavoro e del mio intervento dentro la stessa Segreteria Politica e quindi, più in generale, una valutazione della dialettica tra il mio ruolo di dirigente e il partito stesso, il suo radicamento, la sua affermazione e la sua organizzazione.
Innanzitutto partiamo da un dato di fatto che ritengo sia doveroso assumere, per quanto possa sembrare provocatorio o disfattista. Il Partito Comunista dei Lavoratori ha perso la sua onda politica, la sfida lanciata si è nei fatti arenata dopo poco tempo dalla sua nascita e il partito si ritrova alla chiusura di una fase politica, difficile ma ricca di evoluzioni, in estrema difficoltà di tenuta e a rischio di scomparsa dallo scenario politico nazionale e internazionale.
Perchè affermo questo? Il Partito Comunista dei Lavoratori nasce in rottura con Rifondazione Comunista, denunciandone le ennesime capitolazioni alla sinistra di governo organica alla borghesia egemone europeista e atlantista. Quella rottura capitalizzò un’ondata di rigetto e di esasperazione all’inconcludenza riformista di una direzione che aveva ormai consumato anch’essa la propria onda di resistenza e reazione allo scioglimento del Partito Comunista Italiano, il tentativo della socialdemocrazia nazionale di affermare la fine, anche nell’immaginario, della necessità e della possibilità di un progetto rivoluzionario di società, della conflittualità tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato.
L’operazione di rottura da Rifondazione, in realtà, non fu sufficiente a permettere l’affermazione di una struttura politica e partitica radicata nella classe e capace di esprimere la direzione di una parte consistente del cosiddetto popolo della sinistra – che già al tempo si presentava disorientato, rassegnato, confuso da decenni di teorie e strategie politiche neokeynesiane, pacifiste, movimentiste, altermondialiste etc. –
Il risultato elettorale della prima presentazione del PCL, nel 2008, permise però di affermare una propria quota di rappresentanza formale e di influenza nel dibattito grazie ai 200.000 voti su scala nazionale e alla conquista di posizioni in alcuni consigli comunali di provincia. Sicuramente non un successo politico strabiliante ma l’affermazione della potenzialità di costruzione di un’organizzazione in grado di intervenire, crescere e rappresentare un punto di riferimento alternativo per l’espressione politica degli interessi dell’avanguardia e della classe.
Quel primo risultato però rappresentò l’investimento su cui pensare di poter vivere di rendita crescente, ma che in realtà portò al lento consumo di un patrimonio. Infatti: non vennero agganciate direzioni di movimenti, lotte o settori della classe; rimasero residuali e periferiche le direzioni di settori di classe o di nuclei combattivi e rivoluzionari di avanguardie legati al partito; non vi fu un rafforzamento dell’organizzazione nell’intervento politico e sindacale; non si riuscì ad assumere un ruolo protagonistico in mobilitazioni, campagne politiche, movimenti e conflitti. Tutta la fortuna del Partito, da lì in poi, si è legata ad un modello di intervento statico e ripetitivo, fondato sulla convinzione che la sommatoria di alcune prassi consolidate potessero permetterci di intercettare fiammate della conflittualità e emersione di contraddizioni, affermando la propria coerenza in alternativa alle capitolazioni delle dirigenze compromesse. Così tutto l’operato del partito si è fondato su: elaborazione di analisi corrette e approfondite dei fenomeni politici in termini classisti e anticapitalisti su cui demarcarsi nettamente da qualsiasi altra organizzazione, direzione, movimento al fine di segnalare la propria alterità; l’affermazione della coerenza rispetto alla finalità politica rivoluzionaria associata alla rappresentazione di sé come la vera “Sinistra”; la capillarizzazione della propria presentazione elettorale per la proiezione di massa del proprio programma come intervento prioritario e unico reale intervento di partito su scala nazionale e coordinata per l’affermazione della propria organizzazione partitica; volantini e giornali ipertestuali, poco attenti alla forma della comunicazione, con l’affermazione della giusta linea necessaria per la rivoluzione teoricamente corretta; tentativo di aggancio di quel popolo della sinistra che stava subendo il continuo fallimento e tradimento delle organizzazioni e direzioni riformiste con immaginari “comunisti”, che fino ad allora ne avevano espresso la rappresentanza politica parlamentare e l’interlocuzione della direzione dei movimenti.
Ma questo modello cominciò a segnare la sua insufficienza fin dalle elezioni politiche successive, in cui il consenso si era dimezzato e i miglioramenti in radicamento, assunzione di direzioni, efficienza organizzativa, capacità di intervento nazionale, internazionale e locale in grado di influire sulle dinamiche politiche della classe e della sinistra non si fecero vedere.
Nonostante tutto ci si è impantanati in questo modello, lo si è giustificato, e in parte rivendicato, fino a quest’ultimo Congresso, spingendolo fino alle estreme conseguenze nelle elezioni politiche del 2018. Elezioni che hanno segnato definitivamente l’insufficienza dell’organizzazione per il raggiungimento degli stessi obiettivi individuati come centrali e prioritari: presentazione alle elezioni politiche per la proiezione di massa, tentativo di aggancio e assunzione della direzione del popolo della sinistra o di alcuni suoi settori, aggancio di direzioni operaie e avanguardie di classe attraverso la propaganda con volantino e giornale di un certo tipo.
Il timido tentativo di superare un taglio eccessivamente autorefernziale e autocentrato attraverso la lista “Sinistra Rivoluzionaria” è stata carica di contraddizioni e potenzialità inespresse per svariati motivi – che in altri luoghi ho già provato ad analizzare – tra i quali il fatto che fosse percepita, essendola poi nei fatti, come una sola operazione di cartello finalizzata alla semplice presentazione elettorale e non certo l’avvio di un processo di raggruppamento di avanguardie classiste, anticapitaliste, rivoluzionarie e internazionaliste per la costruzione di un movimento/processo dinamico e innovativo, alternativo alle solite proposte riformiste per quanto radicali.
Una simile operazione ha rappresentato una sorta di salvagente dell’ultima ora per garantire la presentazione elettorale, non certo il frutto di una scelta strategica legata alla fase politica e sociale, al punto che il percorso di trattativa con le altre organizzazioni non ha fatto che far emergere difficoltà e differenze, portando allo scontro su questioni di forma, tardando il lancio del progetto e soccombendo di fronte alla più ampia e efficace operazione di Potere al Popolo. Quest’ultima operazione invece ha saputo intercettare la domanda di “unità della sinistra” di una parte consistente del popolo della sinistra residuale – la stessa a cui principalmente ci rivolgiamo noi con il nostro intervento politico – e agganciare il bisogno di radicalità e innovazione che veniva dalle avanguardie sociali, politiche e di movimento. Operazione che si è posta sotto il tetto del riformismo radicale e movimentista e all’ombra del sovranismo di una sua componente interna, ma che ha saputo intervenire sulla richiesta di rappresentanza politica di una consistente base sociale stravolgendo la geografia politica a sinistra del Partito Democratico. Di fronte a tutto ciò la debole operazione di Sinistra Rivoluzionaria è sparita nel nulla capitalizzando un fallimento e rappresentando il punto più basso per la nostra organizzazione con ricadute che sarà difficile scrollarsi di dosso, soprattutto se quell’abbozzo di percorso è stato liquidato gettando acqua sporca e bambino nell’immediato momento post-elettorale.
Insomma, sembra sempre di più che la massima del nostro intervento politico sia: “se il nostro modello non si aggancia ai processi reali la colpa è dei processi reali che non vanno come dovrebbero. Non di certo le nostre difficoltà, fallimenti e arretramenti sono conseguenza di un modello che non è adeguato ai processi in atto nella classe e nella società”. Credo che la realtà invece ci imponga di prender atto che è esattamente il contrario.
Le difficoltà hanno cominciato a venire sempre più a galla, e ritengo che le carenze siano facilmente individuabili da tutti, come già anche più volte denunciate da vari compagni e da me stesso dalla stesura della Piattaforma B ad oggi: un metodo di reclutamento molto lasco anche nella semplice verifica di adesione ai 4 punti fondamentali e un concetto fluido di militanza; una sottovalutazione della necessità di formazione dei militanti, dei dirigenti locali e dei quadri intermedi; la mancata costruzione di strumenti di autofinanziamento diversificati legati anche a forme di editoria indipendente, di gadget e brand per unificare propaganda-agitazione-formazione-organizzazione; la concentrazione su ogni scadenza elettorale che è divenuta nei fatti la principale azione politica nazionale, coordinata, centralizzata e sistematica del Partito con il conseguente sfaldamento delle sezioni, dei nuclei e delle cellule, con un processo di stiratura e sfilacciamento delle strutture territoriali tra loro e con il centro; la difficoltà ad utilizzare forme e strumenti di propaganda capaci di intercettare tanto le avanguardie quanto le masse e di trasformarsi in prassi rivoluzionaria e non in semplice prolissa testimonianza di esistenza; la passività di un corpo militante sempre meno coinvolto nel dibattito interno, nell’esecuzione delle circolari e dei minimi obiettivi organizzativi, una mancanza di partecipazione alla stampa di partito e alla rendicontazione/sistematizzazione degli interventi e delle inchieste etc.
Non credo che basti affermare queste cose per considerarsi esenti da responsabilità o da incapacità di avviare un processo in controtendenza. Ma, anche e proprio per questo, ritengo doveroso dimetterti dal mio ruolo perchè in questi anni, nonostante le mie battaglie, nonostante le mie proposte e le energie spese su più livelli di intervento e su più ambiti, non sono stato in grado e non sono riuscito a far emergere e comprendere la necessità di un cambiamento radicale per fermare il lento sgretolamento verso l’insignificanza politica della nostra organizzazione e della nostra proposta programmatica. E quando alcune questioni si sono affermate nel dibattito interno con la forza cinica degli eventi, non sono stato in grado di affermare la spinta necessaria e le soluzioni adeguate per imprimere dei cambiamenti concreti.
Nei fatti la nostra organizzazione credo debba assumere la consapevolezza di aver adottato una strategia fallimentare che ci ha portato dove siamo oggi, senza intercettare mai alcuna onda di mobilitazioni, nessun sussulto o focolaio, nessuna direzione di resistenze e lotte; assumendo un peso sempre più marginale nel dibattito politico generale e in quello della sinistra e dei movimenti in particolare, senza aver mai capitalizzato nessun fallimento o crollo di organizzazioni riformiste, centriste, estremiste o quant’altro, mettendo in mostra come nei fatti non siamo considerati “alternativa” agli altri progetti e percorsi politici.
Mentre il popolo della sinistra si sfaldava non siamo stati capaci di agganciarci a nuovi soggetti sociali entro il più ampio proletariato capaci di esprimere conflittualità, lotte, resistenze, aspirazioni di cambiamento, processi di timida ricostruzione di coscienza di classe etc.
La nostra propaganda è stata sempre più inefficace e tarata su di un modello di comunicazione non più sufficiente, statico, estraneo alle capacità di ricezione in un mondo frenetico e alienante, percepito come distante e non utile dai nostri stessi destinatari. L’azione organizzata, sensazionalistica, agitatoria, militante è sempre stata snobbata. La prassi adottata dal nostro intervento militante non si è mai esposta in termini di volontà di strutturare un’organizzazione da combattimento, un’avanguardia organizzata della classe che ponga l’attività politica in termini di forza e di potere, di conflitto e di direzione delle lotte reali. Non è mai esistito un piano di intervento definito e tarato sulle forze reali dell’organizzazione su specifiche campagne politiche finalizzate al radicamento in determinati settori di classe, contesti geografici, quartieri popolari etc.
I miglioramenti nell’utilizzo di alcuni strumenti ci sono stati ma sempre talmente limitati da non percepire un reale cambio di paradigma di propaganda, azione e agitazione, quasi più come eccezioni ad una normalità fatta di lunghi comunicati e volantini in cui inserire articoli di giornale; di un giornale irregolare e con argomenti spesso sconnessi dal dibattito di fase al momento della distribuzione, incapace di valorizzare i diversi interventi del partito e di divenire strumento organizzativo interno o di scambio politico con i movimenti e le altre organizzazioni; di un sito labirintico, dispersivo, sorpassato, isolato nella rete; di una rivista teorica malcurata e confinata alla sola commemorazione di scadenze particolari con articoli e scritti datati e autoreferenziali.
Tutto ciò viene sommato al crollo della militanza nelle sezioni, alla totale assenza di formazione anche nell’utilizzo stesso dei limitati strumenti di propaganda centrali, alla sempre maggior marginalità e stanchezza dei compagni e delle compagne rispetto alle dinamiche politiche e sociali dei fenomeni dei conflitti sociali e di classe, con chi è maggiormente impegnato nel sindacato direzionato sempre più a privilegiare tale terreno di intervento tralasciando completamente il partito, percepito più come un freno che come uno strumento di forza e di sistematizzazione del proprio lavoro.
Non ci si può limitare, come già affermato in altri contesti e momenti, ad alzare la carta del contesto oggettivo e della fase sfavorevole e di generale difficoltà per tutte le organizzazioni della sinistra. Perchè al generale arretramento della coscienza di classe e alla costruzione di una rappresentanza politica del mondo del lavoro in termini reazionari, interclassisti, populistici non tutti hanno visto solo crolli e sfaldamenti delle proprie forze, del proprio consenso e della propria influenza.
Due esempi su tutti ci permettono di renderci conto di come, anche se con posizioni politiche e impostazioni avverse e concorrenti alle nostre, differenti strategie di costruzione, radicamento e intervento politico abbiano prodotto risultati ben differenti e nettamente in controtendenza, mettendo in mostra come un manipolo organizzato e combattivo possa approfittare delle crisi delle direzioni riformiste anche in questo contesto.
Il primo è il processo di Potere al Popolo. Il maggior attivismo e la maggior spregiudicatezza tattica della Rete dei Comunisti, l’utilizzo di efficaci strumenti di propaganda e costruzione di consenso e dibattito influenzato da proprie analisi e chiavi di lettura – come con il sito ControPiano – ha permesso a questo limitato e marginale gruppo politico di finire alla testa di una operazione politica di portata nazionale, assumendo l’egemonia di un “movimento” della larga avanguardia e di una consistente porzione di ciò che rimane del popolo della sinsitra, e imponendo la propria ipoteca su ciò che rimane della base e del patrimonio di Rifondazione Comunista – piatto a cui da anni, nonostante il suo graduale disfacimento, tutti nella sinistra radicale e extraparlamentare puntavano, compresi noi – .
Il secondo esempio è il percorso di quella che è stata da sempre etichettata e liquidata come una setta insignificante e opportunista: Lotta Comunista.
Nonostante tutti i pruriti che può produrre ad un genovese tale sigla, non gli si può non dare atto di aver adottato una strategia di costruzione, radicamento e affermazione della propria forza e del proprio potere. Conquistando la fiducia di larghi settori di lavoratori e lavoratrici attraverso il proprio lavoro sindacale si trovano oggi a poter controllare interi settori del sindacato in particolare in alcune città e contesti lavorativi particolarmente significativi. In Liguria non c’è categoria della CGIL che non abbia uomini di LC nelle dirigenze e tra gli RSU. A questo hanno associato una diffusione del proprio materiale di propaganda sistematico, militante, capillare e a tappeto con cui fornire una formazione ed una disciplina ai propri aderenti e militanti, garantendosi un vero e proprio controllo diretto del territorio e del proprio consenso.
Su questa base e dopo un lavoro sotterraneo di anni, nelle ultime scadenze han saputo imporre un sempre maggior protagonismo e una maggior forza e influenza. Il 1 Maggio del 2016, a Genova in occasione del corteo nazionale indetto dalla CGIL nel capoluogo ligure, Lotta Comunista impose una prova di forza attraverso la piazza che spiazzò la burocrazia CGIL, mostrando maggior radicamento, compattezza e un immaginario chiaramente classista e comunista. La direzione di vertenze strategiche e la conquista di posizioni chiave dentro la struttura sindacale han permesso di rafforzare il legame di fiducia tra avanguardie di classe, settori combattivi di lavoratori e i propri militanti e quadri, di permeare la cossiddetta società civile e di intercettare le nuove leve del proletariato – studenti e migranti – e di lanciare un’operazione politica corale e combinata sul tema dell’antirazzismo come quella di Genova Solidale, con cui hanno lanciato un’opa sull’ANPI regionale. Con questa operazione attuata in maniera centralizzata e disciplinata al momento giusto, cavalcando un tema centrale che coinvolgeva proprio i quartieri popolari della Genova operaia hanno formalizzato un rapporto politico con un certo associazionismo di sinistra (associazioni di quartiere, circoletti, ARCI, ANPI etc) che si è trasformato in un rapporto egemonico capace di mobilitare assemblee e cortei di migliaia di persone in cui veicolare parole d’ordine classiste e anticapitaliste sul tema della resistenza al razzismo e al neofascismo. Ciò ha portato Lotta Comunista a concludere un’intervento politico sostanzioso per il rilancio dell’attività autunnale con un corteo contro il governo giallo-verde di 2-3.000 persone composto di sole bandiere rosse, striscioni con slogan classisti e anticapitalisti, un palco conclusivo che ha trasformato una intera piazza in un auditorium. Il tutto basandosi interamente sulla forza della propria organizzazione militante, disciplinata, efficiente e sul radicamento ottenuto in anni di attività.
Queste due esperienze mettono in mostra come due realtà politiche, proprio perchè hanno avuto strategie di radicamento nella classe e nel corpo della società civile ben differenti dalla nostra – incentrata sulla propaganda elettorale e sull’intervento politico inteso come sanzione della giusta linea ideale calata dall’alto, critica all’arco delle forze politiche parlamentari, spietati attacchi personalistici verso dirigenti di altre organizzazioni della sinistra radicale, ma senza particolare attenzione al reale radicamento nella classe, nelle mobilitazioni, nella società civile, nei quartieri popolari, nei luoghi di lavoro –, si sono rafforzate , radicate o hanno messo in piedi operazioni politiche audaci capaci di portarle alla ribalta del dibattito politico e sindacale, da piccolo gruppo o da setta economicista senza alcuna proiezione politica esterna ed autonoma quali erano, riuscendo a conquistare realmente intere porzioni di classe, di avanguardia, di popolo della sinistra in via di disfacimento.
Cosa voglio dire con questo? Ci troviamo di fronte ad una fase storica complicatissima e difficile, è vero, ma non può divenire la giustificazione su cui rinchiudersi nella autoconservazione e autorecinzione entro steccati dottrinari e in difesa della astratta purezza e correttezza teorica del nostro programma complessivo. Una organizzazione politica conta quando sa esprimere un potere ed un’organizzazione capaci di rappresentare, per la parte più combattiva della classe e per ampi settori di avanguardia, uno strumento efficace per la lotta politica, per la proiezione e rappresentazione delle lotte sociali ed economiche, per la direzione della componente organizzata della classe e per l’organizzazione stessa di essa.
Dopo dieci anni di costruzione del PCL possiamo affermare che le strategie e le tattiche adottate hanno fallito e non ci hanno fatto per nulla avanzare in questa direzione. Dopo dieci anni non solo non abbiamo mantenuto e rafforzato il nostro radicamento e consenso inziale, ma lo abbiamo “lentamente” eroso fino all’attuale situazione di quasi insignificanza politica, che porta con sé l’inevitabile crisi interna fatta di demoralizzazione, disorientamento, lassismo, assenza di disciplina, federalismo, svuotamento dei ruoli dirigenti e delle strutture organizzative, proliferazione di tendenze e mini-correnti interne ognuna con la propria ricetta magica.
Abbiamo mantenuto un paradigma di intervento che avrebbe potuto fornire i suoi frutti in un contesto ben differente, con masse e avanguardie in mobilitazione ma legate all’egemonia di organizzazioni e dirigenze di massa con posizioni riformiste, centriste o quant’altro. Oggi di fronte alla sparizione della “sinistra” come strumento della rappresentazione delle istanze delle classi subalterne e sfruttate, a fronte della proliferazione di organizzazioni con ordini di grandezza insignificanti a livello nazionale e prive di qualsiasi legame reale con le dinamiche e i conflitti della classe, alla sempre maggior sussunzione delle strutture sindacali tradizionali entro lo Stato borghese come strumento di irregimentazione e destrutturazione della classe, alla individualizzazione e ristrutturazione delle relazioni sociali e della comunicazione di massa associate all’affermazione diffusa e radicata dell’ideologia dell’anti-ideologia e anti-partito, non può più essere efficace un partito che si pone come depositario di una verità assoluta da far calare sulle masse e sulla classe attraverso pronunciamenti che la stessa classe, le stesse masse e di conseguenza anche le stesse avanguardie che da questa possono emergere, o che esrpimono il residuo di percorsi storici e sociali passati, non recepiscono, non intercettano, considerano estranee.
Per assurdo, in un contesto del genere, anche quando emerge dalle contraddizioni sociali, economiche e politiche la necessità di una parola d’ordine come la nazionalizzazione, l’esproprio e il controllo sociale, comunque non siamo in grado di intervenire nel dibattito ed essere riconosciuti proprio come l’organizzazione che da sempre rivendica la mobilitazione per quella parola d’ordine, per portarla alle estreme e necessarie conseguenze. E’ proprio ciò che è avvenuto ad esempio con la vertenza Alitalia, con la mobilitazione dei ferrotranvieri genovesi, con le mobilitazioni antifasciste e antirazziste, con la tragedia del Ponte Morandi e il tema delle concessioni autostradali. Se non sei soggetto politico credibile, radicato, riconosciuto, capace di imprimere una propaganda che sia anche azione e che possa trasformarsi in agitazione, anche se esprimi la verità e l’analisi più completa, corretta e coerente rimarrai insignificante, ai margini, non recepito ne considerato e incapace quindi di capitalizzare le posizioni di cui sei il depositario più coerente.
Ciò non significa porre l’elemento dell’intervento politico in secondo piano o rinunciare alla propaganda programmatica e politica rivoluzionaria, anticapitalista e marxista in demarcazione dalle altre correnti del marxismo. Questo significa che la necessità odierna è proprio quella di far emergere la strategia politica dalla realtà effettuale, dal movimento reale dei rapporti di classe e della coscienza, per meglio adattare metodo e merito dell’intervento e della costruzione soggettiva alla necessità di prendere le istanze delle masse e della classe per condurle transitoriamente alla conclusione rivoluzionaria e al potere dei lavoratori. Per fare questo però un partito deve essere in grado di essere in questo movimento reale, di mostrarsi compartecipe e parte integrante di quei processi comprendendone le dinamiche e intervenendo su quelle, di essere concretamente strumento, attraverso la sua struttura e i suoi militanti e quadri, della costruzione di una coscienza di classe e comunista con la teoria ma, anche e soprattutto, con la prassi e con l’azione.
Non basta quindi far discendere da una verità e da un sistema di analisi generale la più giusta intepretazione del momento attuale e, come epicurei, da distante indicare ciò che manca per la rivoluzione come descritta sui libri. Il rapporto deve essere dialettico, perchè il partito deve saper connettere proprio il movimento reale, legato ai rapporti di classe, con la prospettiva politica della rivoluzione comunista che tolga le briglie del capitale al progresso della società e dell’umanità, per ricondurlo ad un significato di equità, dignità, di eliminazione dello sfruttamento e dell’oppressione, di recupero di un equilibrio con l’ambiente .
Il partito stesso, attraverso una strategia centralizzata e una tattica attenta delle dinamiche politiche e sociali reali, deve essere in grado di intervenire per la costruzione di organismi autonomi della classe, di costruire esso stesso il potere della classe sulla quale poggiare la forza e la comunicabilità del proprio intervento politico, non solo accennarne le necessità ideali per poter raggiungere il fine del “governo dei lavoratori e delle lavoratrici”.
Il compito odierno dei militanti e dei quadri del partito deve essere anche e soprattutto questo, la costruzione degli organismi di lotta della classe su cui innestare la propaganda politica. Perchè il partito non può essere considerato rigidamente come la somma di singoli iscritti e militanti tenuti assieme da una dirigenza ristretta, che comunica la corretta analisi generale del momento sulla base degli assunti teorici del marxismo-rivoluzionario. Il partito deve essere espressione di organizzazioni di classe di cui detiene l’egemonia o in cui è in grado di veicolare la propria propaganda attraverso propri militanti, quadri, simpatizzanti e deve votarsi alla conquista di questo potere, per il semplice motivo che oggi non siamo in una fase in cui sia attuale una strategia che possa legare immediatamente l’intervento politico generale alla presa del potere della classe lavoratrice, essendo completamente assente la base materiale perchè questo passaggio sia anche solo compreso nei suoi connotati astratti.
Oggi siamo in una fase storica in cui è necessario ricostruire, quasi da zero, la coscienza di classe e le strutture autonome della classe stessa sul piano economico, sociale e politico. Il tutto in un momento di attacco frontale delle classi borghesi e del capitale nella sua ristrutturazione globale dei rapporti di forza e dei mercati. Una classe che non solo è frammentata nazionalmente ma che all’interno di ogni Stato-nazione è spezzettata territorialmente, in categorie, in mansioni, in condizioni legali e illegali di lavoro, quasi ritornando ad un livello di spezzettamento paragonabile al periodo dei sindacati di mestiere corporativi con l’aggiunta di una introiezione di concetti individualistici, concorrenziali e competitivi, che hanno fatto perdere l’abc, non tanto degli ideali comunisti ma proprio dei concetti di classe, di solidarietà e mutualismo, di azione collettiva, di organizzazione e sistematizzazione delle proprie istanze e rivendicazioni. Una classe che dovrebbe fondare questa sua ricostruzione da zero anche sulla base di una scala, per lo meno, europea – per la strategia più immediata e legata al nostro contesto particolare di intervento attuale possibile -.
Queste caratteristiche di profondo arretramento della classe si portano con se gli inevitabili arretramenti delle avanguardie di ogni genere e conseguentemente, ma non meccanimamente e inevitabilmente, oggi non esistono strutture politiche della sinistra – non solo dell’ampio ventaglio della galassia che si rifà al marxismo – che sappiano intercettare su scala europea una quota consistente della classe stessa.
Spesso di troviamo ad affermare di trovarci in un sorta di “ottocento tecnologizzato”, affermazione che non è così distante dalla realtà, e che dovrebbe farci trarre delle conclusioni e delle elaborazioni strategiche e tattiche che non possono essere le stesse degli anni ’60-’70, che non possono essere neppure le stesse della fase rivoluzionaria del 1917, ma che possono essere paragonabili alle dinamiche politiche e sociali della classe degli ultimi decenni dell’800. L’intervento politico non può non tenere conto del contesto sociale e di classe in cui si inserisce, le rotture organizzative affermate e agite dalle avanguardie rivoluzionarie e marxiste erano legate ai processi sociali e politici in cui maturavano, ma non si ponevano mai su di un livello di distanza rispetto alla coscienza reale tali da essere incomprensibili e astratte.
In questo quadro è quantomeno necessario mettere mano pesantemente a una qualsiasi linea politica strategica che non abbia permesso un reale rafforzamento di una organizzazione politica, e dare così vita ad un cambiamento del paradigma di costruzione, radicamento e intervento per meglio adattarsi alle dinamiche sociali e politiche attuali, alla coscienza esistente e ai rapporti di forza in campo.
Quello che stiamo vivendo con il nostro Partito è una sorta di chiusura in un castello di carta nella costante elaborazione di un’analisi più o meno approfondita della fase politica generale, per tentare di raccoglierne i frutti ad una tornata elettorale o attraverso un volantinaggio a macchia di leopardo e quasi mai continuativo, sulla base dell’affermazione di quale sia la prospettiva finale e quali strumenti di classe mancano oggi per la presa del potere – assemblea dei delegati e delle delegate, governo dei lavoratori etc – .
Affermo che questo sia un castello di carta perchè purtroppo la debolezza della nostra struttura su ogni terreno, in considerazione dei compiti elevatissimi e generali, ma immediati, che ci poniamo è evidente: sul terreno della militanza e della conquista di posizione di direzione in movimenti, lotte, luoghi di lavoro etc; sul terreno economico e dell’autofinanziamento; sul terreno della formazione e della preparazione della diffusa struttura dirigente al funzionamento e alle necessità del partito stesso; sul terreno dell’intervento sindacale (sebbene sia l’unico terreno in cui abbiamo minimi livelli di influenza e rapporto con la classe attraverso l’area sindacale in CGIL e la dirigenza dell’SGB) e della conquista di direzioni di settori classe; sul terreno della capacità di mobilitazione delle nostre forze su campagne o interventi nazionali; sul terreno anche solo della diffusione del materiale di propaganda e del contributo alla costruzione di questo materiale, sul terreno delle relazioni internazionali ai minimi storici con altre organizzazioni del solo marxismo rivoluzionario, figurarsi nel generale dibattito politico internazionale nella “sinistra” e nei movimenti.
La domanda che spesso mi pongo è: ma se domani, un Salvini qualunque al ministero dell’Interno decidesse di dichiarare illegali a livello formale le organizzazioni che si richiamano esplicitamente al comunismo tanto quanto quelle fasciste, cosa rimarrebbe del Partito Comunista dei Lavoratori, quali forze saremmo in grado di mobilitare, quale base e rete sociale saremmo in grado di attivare, quali strumenti saremmo in grado di utilizzare per garantire la continuità di un intervento politico?
Ecco perchè credo che siamo in un castello di carta, per di più isolato e ai margini del movimento reale della classe e della sinistra.
Nel quadro di cui più sopra, che ho formulato in questo periodo recente, ho percepito come inefficace la mia presenza nella Segreteria Politica del Partito Comunista dei Lavoratori, percependomi impotente rispetto alle necessità del marxismo rivoluzionario e della classe lavoratrice, oltre che evidentemente del partito stesso. Percepire, e contribuire in minima parte, lo sforzo immenso, quotidiano e bulimico di una avanzatissima dirigenza, nei termini dei singoli compagni e compagne che la compongono, nell’elaborazione della giusta analisi e della giusta proposta, che però ricadono su di un corpo gracile, demoralizzato e consumato che si trova ad affrontare una marea con dei secchi, mi fanno pensare che non sia quello il luogo dove posso, in questo momento, dare una mano in termini utili al partito.
Questo mio pessimismo rispetto all’efficacia di quella assunzione di responsabilità e della possibilità di sostenerla – motivo per cui la mia situazione personale citata inizialmente ha un peso non indifferente su questa scelta – mi costringono a prendere in considerazione che le conclusioni a cui potrebbe approdare il mio ragionamento fuoriescono dalle indicazioni emerse dalla linea congressuale recente in termini anche abbastanza ampi.
Tanto da ritenere corretto, opportuno e più coerente dimettermi da quel ruolo affidatomi dal Partito.
Ad oggi infatti comincio a considerare e credere che il progetto originario del Partito Comunista dei Lavoratori sia chiuso in un fallimento e che serva una rifondazione del progetto del Partito Comunista dei Lavoratori stesso e in generale delle prassi di intervento e costruzione di un’organizzazione coerentemente marxista-rivoluzionaria, su una linea strategica differente con cui battersi per affermare l’egemonia della prassi marxista-rivoluzionaria, classista, anticapitalista, internazionalista all’interno del movimento reale e della classe.
E considerate le necessità oggettive sopradette e le condizioni soggettive di qualsiasi organizzazione marxista-rivoluzionaria più o meno conseguente, credo che ciò a cui faccio riferimento possa essere solamente un cambiamento radicale in grado di esser percepito come un volano per il raggruppamento di forze militanti e avanguardie capaci di intervenire nella ricostruzione dell’organizzazione generale della classe per svilupparne la coscienza di sé, dei suoi interessi e del suo potere di resistere, contrattaccare e conquistare ciò che è necessario a sè e a tutta la società.
Questo cambiamento potrebbe essere solo un processo capace di riunificare in un’unica organizzazione con diverse correnti e tendenze interne a livello nazionale, europeo ed internazionale le organizzazioni che si richiamano alla tradizione della quarta internazionale e del marxismo rivoluzionario, nonostante le molte differenze che possono intercorrere tra questo o quel filone storico. Un’unica struttura di quadri che possa avere un peso specifico significativo per poter intervenire lanciando campagne politiche e interventi nei luoghi di lavoro e nei contesti di vita del proletariato, con la prospettiva di poter affrontare questa fase storica riuscendo a preparare le basi per affermare la propria proposta politica a livello di massa e rappresentare realmente un’alternativa per esprimere la sua avanguardia organizzata e cosciente, e lo strumento per la sintesi degli interessi della classe lavoratrice e della liberazione della società dalle briglie del capitale e della borghesia.
E’ una proposta radicale e per alcuni considerabile liquidazionista o centrista, perchè porterebbe alla fusione con organizzazioni centriste con limiti nel programma e nelle analisi di alcuni processi, nelle strategie di costruzione etc. Credo che questo metro di ragionamento utilizzi anche dei pregiudizi nei confronti delle organizzazioni altre del marxismo rivoluzionario, in cui i corpi militanti spesso sono sovrapponibili uno all’altro, con posizioni interne alle varie organizzazioni diffuse nelle basi che potrebbero attraversare tranquillamente le tre-quattro principali strutture politiche – PCL, SCR, SA, PDAC, FIR etc. -. Per di più è necessario anche comprendere e analizzare cosa, oggi, di ciò che viene utilizzato per giustificare la divisione in organizzazioni differenti, venga percepito e compreso realmente dalle avanguardie stesse – non tanto dalle masse politicamente analfabetizzate e dalla classe -, al punto di rendere agli occhi di queste avanguardie tali divisioni come frutto di patologie ideologiche astratte, non aiutando l’affermazione e l’immagine di una determinata proposta politica teorica. Ci sono fratture che in determinate fasi possono giustificare la rottura e la reciproca accusa serrata e dettagliata, ma ci sono anche fratture che in altre fasi storiche e contingenti possono essere ragione di battaglia interna ad una stessa organizzazione per l’egemonia di quel processo e di quella struttura politica. In un momento in cui le masse e la classe faticano a comprendere l’esistenza di sè stesse come depositarie di interessi comuni, generali e autonomi, e in cui le avanguardie faticano anche solo ad ipotizzare gli strumenti concreti dell’organizzazione di classe e sociale per strutturare una difesa, una lotta e la conquista di ciò che è necessario, come è possibile pensare che sia comprensibile a qualche avanguardia la correttezza di dividersi in organizzazioni politiche differenti per l’idea che si ha del processo politico in Venezuela, o di quanto si utilizzi il termine “governo dei lavoratori e delle lavoratrici” come conclusione di ogni singolo volantino, etc?
Non che queste battaglie non siano corrette, necessarie e fondamentali in ogni momento, ma queste battaglie devono essere forza e motore della costruzione di un movimento comunista e proletario, e non lo strumento della sempre maggior alienazione delle strutture politiche dai processi di costruzione della coscienza dell’avanguardia e della classe.
Oggi, peraltro, ci presenteremmo comunque a questa sfida più deboli rispetto a ciò che avremmo potuto essere, se mai dovesse avverarsi ed essere realizzato un simile processo. Ma comunque è una sfida che dirigenti, quadri e militanti rivoluzionari oggi devono sapersi assumere, pena la definitiva marginalizzazione e sterilizzazione della nostra esistenza. Il compito dei rivoluzionari marxisti è quello di intervenire concretamente nel movimento reale e nei rapporti tra le classi per organizzare la classe e portarla alla presa del potere, non certo quello di ritagliarsi il proprio angolo in disparte in cui continuare a declamare la giusta interpretazione e la giusta analisi astratta senza possibilità alcuna di trasformarla in una prassi transitoria.
Per comprendere questo e smontare alcuni pregiudizi rispetto al senso di essere la continuazione della tradizione leninista e trotskysta, basterebbe proprio andare a vedere la storia del Partito Bolscevico, che non fu uguale a se stesso mai e in continua evoluzione assieme all’evoluzione dei rapporti di forza e dei rapporti tra le classi, della classe e della sua composizione, delle sue avanguardie e della sua coscienza; che non espresse mai un monolite ideologico e strategico ma che esprimeva al suo interno istanze e posizioni che oggi potrebbero trovarsi agli antipodi non tanto dello spettro del marxismo-rivoluzionario ma addirittura della generica sinistra da Rifondazione Comunista ai bordighisti più settari. I dibattiti e gli scontri politici interni peraltro erano pubblici, aperti, alla luce del sole dentro la stessa organizzazione, attraverso differenti organi di stampa delle varie componenti e organizzazioni del partito stesso, dimostrando come effettivamente esprimessero le emanazioni politiche delle dinamiche di classe e della coscienza, dando l’idea di essere un’organizzazione che, quindi, si evolveva e maturava assieme e dentro la propria stessa classe sociale di riferimento. Uno strumento capace di adattare la sua linea e incunearsi nelle crepe delle contraddizioni dei processi sociali, ponendo la necessità della assunzione da parte del proletariato e delle masse in mobilitazione la direzione del movimento generale per l’affermazione della democrazia proletaria e del socialismo, prima sostenendo l’Assemblea costituente contro i tentennamenti della borghesia, poi ponendosi come primi organizzatori della difesa della democrazia e del potere dei soviet contro la reazione, poi rivendicando la presa del potere dei soviet, fino alla chiusura in armi della stessa Assemblea Costituente ormai superata dai fatti storici, sociali e politici, adeguando la propria linea alle dinamiche reali nonostante la turbolenza di quegli anni, mesi e giorni. Non certo quando si parla di partito bolscevico si fa riferimento ad una segreteria, o ad un comitato centrale, che dall’alto della loro analisi sancivano cosa avrebbe dovuto esserci e cosa no in una determinata fase per poter avere la rivoluzione come era stata teorizzata, declamandolo con un comunicato e stamapando qualche migliaio di volantini.
E per di più è necessario anche comprendere che il Partito Bolscevio, le sue strategie e le sue tattiche, non siano pedissequamente trasportabili, anche nelle parole d’ordine, dall’Impero Zarista del 1917 all’Europa del 2018. Ciò che deve essere assunto è il metodo, l’analisi dei processi sociali, economici, di classe, la capacità di trasformare ogni lotta e resistenza in istanza politica rivoluzionaria, la spregiudicata lotta in ogni quartiere per l’affermazione della propria egemonia entro i processi reali, contribuendo a costruirli, formarli, direzionarli e fornendo alle rivendicazioni che emanavano da tali processi la prospettiva rivoluzionaria della presa del potere dalla parte della classe lavoratrice, ma in una fase in cui i proletari già avevano esperito e dato vita ad organismi autonomi del proprio potere: i soviet. Dando prova di un livello di coscienza oggi nemmeno lontanamente immaginabile.
Tutto fuorchè la ripetizione di una verità e di una giusta analisi di un organismo esterno o ai margini dei processi reali e delle loro contraddizioni.
Tutti questi motivi e ragionamenti mi hanno quindi condotto alla presa di coscienza che stiamo disperdendo molte energie, che non riusciamo a fare passi in avanti o a puntellare una proposta politica marxista rivoluzionaria in modo efficace. In tutto questo non credo di esser stato in grado, nella posizione che ho ricoperto, di far fare al partito nemmeno i primi passi necessari, nè di riuscire a esprimere una proposta capace di rivoluzionare il nostro approccio alla classe, alle masse, alle mobilitazioni e alla lotta di classe. Le migliorie su vari fronti fatte dal Partito con lo sforzo di molti compagni e dirigenti vanno a tutto merito di chi ha saputo spendersi e dare gambe a questi passi, ma è innegabili che sono stati passi insufficienti, delle piccole gocce dentro un processo burrascoso.
Per contro la delegittimazione del mio operato e delle mie posizioni ad opera della base militante che pensavo, e ho cercato, di esprimere dentro gli organismi dirigenti, in funzione di una piattaforma politica e organizzativa che ha tentato di proporre una via alternativa al Partito, conferma il fatto che la mia presenza in Segreteria esprimerebbe esclusivamente me stesso. Nel mentre che elaboravo questo documento, peraltro, e in seguito alla mia auto-sospensione dalla Segreteria, giunge la notizia dell’uscita dell’ennesima sezione che il Partito non è stato in grado di coinvogliare dentro il proprio percorso, di formare alla sua costruzione, di recepirne le spinte positive e di cambiamento frenandone quelle centrifughe: la sezione di Firenze. Dopo quella di Napoli questa è un’ulteriore mazzata alla nostra organizzazione che deve realmente porsi degli interrogativi e affrontare un cambiamento radicale di paradigma prima di vedere la propria struttura sciogliersi come neve al sole. Al posto dei “salti” della costruzione dell’organizzazione stiamo assistendo ai salti di destrutturazione della nostra organizzazione, con processi quantitativi preoccupanti che si trasformano in arretramenti qualitativi tragici e quasi irrecuperabili nell’assenza di una qualsiasi spinta propulsiva o onda agganciata in maniera vincente.
Per questo compio un passo indietro in attesa del prossimo Congresso del Partito, in cui sicuramente la discussione sarà ampia, articolata, vivace e spero capace di portarci a conclusioni radicali per affrontare un contesto ed una fase critiche ma cariche di potenzialità e possibilità per una forza politica classista, anticapitalista, internazionalista e rivoluzionaria, se in grado di calarsi nel movimento reale per intervenirvi e spostare rapporti di forza, fornire di armi, tattica e strategia le avanguardie del proletariato e della società, ed esprimerne la direzione e la sintesi politica comunista attraverso un programma transitorio di rivendicazioni, che non risulti schematico e astratto ma che esprima realmente i passaggi utili e necessari oggi per porre all’ordine del giorno l’organizzazione autonoma della classe e l’egemonia del proletariato nei processi economici, sociali e politici su scala europea e locale, la strutturazione di una difesa dalle aggressioni frontali e generalizzate e dall’affermazione di una coscienza reazionaria e razzista espressione di una direzione piccolo-borghese dei processi di rottura con le contraddizioni emergenti nei processi di ristrutturazione capitalistica e imperialistica e, non meno importante, la costruzione dell’organizzazione delle avanguardie e dei quadri in grado di portare avanti una battaglia per l’egemonia nella classe e nella società.
Nella consapevolezza che oggi è necessaria una ri-alfabetizzazione della classe e delle masse – e quindi delle stesse avanguardie – fin dall’abc per tornare a rendere chiaro, tanto nella teoria quanto nella pratica, la necessità della lotta di classe e della mobilitazione collettiva, l’indispensabilità tanto di un certo tipo di sindacato quanto di un certo tipo di partito come strumenti per l’affermazione degli interessi e delle necessità degli sfruttati e degli oppressi all’interno della società e della storia.
Cristian Briozzo
Genova, 22/10/2018