per non disperdere il punto di vista di classe nella disgregazione della nuova composizione del lavoro
[Articolo pubblicato in due parti sui n° 3 e 4 del 2015 di Unità di classe]
di LucaS
“Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono definite con chiarezza. Eppure che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla quale è molto difficile rispondere” (Bascetta, il manifesto, 12.11.2014).
Già, che cosa è uno sciopero sociale? In fondo, qualunque sciopero è sociale, nel duplice senso di essere sia un processo collettivo, sia l’espressione di una relazione fra classi. Con questa definizione si vuole in realtà costruire una narrazione, una particolare interpretazione dei conflitti sociali. Una rappresentazione politica, quindi, che è stata declinata sostanzialmente in due diverse versioni.
Una ristretta, nella quale si sottolinea l’obbiettivo di ricomporre le diverse soggettività del lavoro attraverso il precariato. Una generale, nella quale si indica la dislocazione del conflitto oltre i rapporti di lavoro, in quanto la produzione di valore sarebbe oramai inscritta nella conoscenza/intelligenza diffusa delle relazioni sociali. In questa prima parte consideriamo la versione ristretta, in cui si vuole evidenziare la centralità di una particolare composizione di classe: il precariato e più in generale le diverse figure atipiche. Prendiamo ancora Bascetta, il 10 dicembre sul manifesto: “lo sciopero generale deve fare i conti con le trasformazioni subite, nel tempo, dalla società e dalle forme del lavoro. Quei tutti si presentano oggi assai più disomogenei e articolati di quanto non fossero una trentina di anni fa … Molti, disoccupati, precari, autonomi non dispongono nemmeno di un lavoro che possa essere sospeso, eppure rappresentano un elemento decisivo di quella dimensione «generale» alla quale lo sciopero dovrebbe rivolgersi…. Attività fondate sull’intermittenza, sull’incertezza, sull’occasione, sulla continua riconversione del proprio agire, spesso considerate una semplice fase di transito tra una condizione e un’altra, si collocano agli antipodi di ogni prospettiva corporativa. Lo stesso mondo relazionale del lavoratore precario, autonomo o sotto contratto a termine, non si lascia racchiudere entro uno specifico ambiente professionale. I termini «generici» della sua vita attiva gli conferiscono, appunto, un carattere «generale» che non si lascia organizzare in nessun sistema di «categorie». Seppure dei «precari» stessi si sia soliti ragionare come di una specifica «categoria» da affiancare a quelle del lavoro dipendente nelle quali finirà coll’essere riassorbita e addomesticata. Ma proprio perché la condizione precaria resta indefinita, irriducibile al «particolare», i suoi interessi si sviluppano piuttosto in una direzione necessariamente universalistica”.
In queste righe si sottolinea l’emersione di un soggetto generico e generale, in quanto continuamente transeunte tra diverse condizioni di lavoro. Un forza lavoro libera, il cui antagonismo non è limitato da specifiche condizioni professionali. Quindi più mobilitabile, più movimentista, più radicale. Il precariato metropolitano come componente più sviluppata e anticapitalista del proletariato, la cui organizzazione di lotta attraverso uno sciopero sociale sarebbe quindi quella più rivoluzionaria.
Non abbiamo nessuna contrarietà teorica a questa analisi. Non c’è infatti nessun principio che impone l’una o l’altra composizione di classe come quella autenticamente anticapitalista. È solo la lettura concreta della situazione concreta che ci offre risposte. La stessa esperienza del movimento operaio ci conferma che settori generici, precari, semioccupati o disoccupati hanno talvolta giocato un ruolo determinante nella lotta di classe. Perché lo sviluppo capitalista si dipana attraverso contraddizioni, cicli di sviluppo e crisi, lunghe fasi espansive e lunghe depressioni distruttive. In questo andamento non progressivo (nel duplice senso di non esser lineare e di esser segnato da barbarie), la classe lavoratrice ha conosciuto diverse forme di organizzazione e di coscienza di sé. E quindi in diverse fasi sono emersi settori precari e dispersi (più o meno metropolitani). Basti pensare alla storia del socialismo e del sindacalismo italiano: una delle sue radici, sulla fine dell’800, non si colloca nelle grandi concentrazioni industriali (le filande della campagne lombarda o le prime ferriere tra Milano e Torino), ma in Romagna e in Emilia, intorno a lavoratori e lavoratrici precari e migranti. Masse proletarie ora braccianti, ora sterratori, ora muratori, ora camerieri, ora mendicanti, ora mezzadri, che non casualmente si organizzano sindacalmente e politicamente nella riproduzione: non nelle fabbriche, non per mestiere, ma nelle Camere del lavoro (spesso costruite intorno a luoghi di ritrovo), nelle cooperative di consumo, nella conquista degli enti locali per avviare lavori socialmente utili. Esperienze simili, o che hanno visto al centro di lotte importanti simili composizioni di classe, le possiamo trovare negli anni venti e nei primi anni trenta in Germania, con l’organizzazione politica dei disoccupati nella KPD, o in anni più recenti nel movimento piqueteros argentino, vero protagonista della fase pre-rivoluzionaria del 2001-2002.
I punti critici che vogliamo invece sottolineare sono tre.
Primo. La forma prevalente della classe è veramente oggi quella del precariato? È vero, negli ultimi anni i contratti precari sono stati la maggioranza: il 70-80% tra i neoassunti. Sembra quindi esser questa la forma del lavoro dominante. Non è così. In Italia ci sono circa 22,5 milioni di occupati, 3 milioni di disoccupati, 14 milioni di “inattivi”: tra gli occupati, 16,9 milioni sono dipendenti e 5,6 milioni autonomi (partite IVA, professionisti, ecc); dei dipendenti, 14,5 milioni sono a tempo indeterminato (2,5 milioni a tempo parziale) e solo 2,1 milioni sono a termine (600mila quelli a tempo parziale). Due terzi dei lavoratori e delle lavoratrici sono quindi dipendenti subordinati a tempo indeterminato: lavoratrici e lavoratori classici.
Secondo. Questo precariato è veramente generico e generale, astratto da identità e condizioni particolari? Se li sommiamo, tutti i lavoratori atipici sono 7 milioni e rotti. In questa massa sono però comprese figure molto diverse: commercianti e artigiani (circa 1 milione), professionisti di vecchia e nuova generazione (avvocati, commercialisti, notai, tecnici IT, ecc: circa 3,5 milioni, di cui almeno un milione considerati “professionisti affermati”); insegnanti e ricercatori precari (più o meno 500mila), precari storici della PA (intorno a 1 milione) o consulenti specializzati (come le infermiere assunte a partita IVA); e, certo, anche quello che possiamo chiamare proletariato metropolitano generico (lavoratori e lavoratrici oggi nella logistica, domani in catena di montaggio come interinali, dopodomani da McDonald’s). Difficile calcolare quanti siano, perché spesso sono trasversali alle diverse categorie (iscritti gestione separata, pubblica amministrazione, LSU, ecc). Rappresentare l’insieme degli atipici come proletariato generico è però una distorsione, che nega tipicità e differenze di classe che attraversano questo mondo: identità, interessi e coscienze di categoria che sono anche molto radicati (ad esempio tra insegnanti precari, infermiere professionali, avvocati o professionisti della IT).
Terzo. La centralità di una particolare composizione di classe sta nella sua forza, che è una combinazione di numero, rappresentazione di sé (coscienza politica) e ruolo nei processi di produzione. La versione ristretta non prende in considerazione quest’ultimo aspetto. Intendiamo cioè sottolineare il ruolo del lavoro produttivo di capitale. Alcune letture teoriche, una certa tradizione, un intero immaginario simbolico hanno identificato il lavoro produttivo con la fabbricazione di oggetti. Gli operai con le mani sporche di grasso, i caschetti e le tute. Non è così. Il lavoro produttivo è quello inserito in un rapporto che permette al capitale di crescere sfruttando la forza lavoro. La merce quindi non è una cosa, ma il risultato di una relazione sociale. Quello che definisce il lavoro come produttivo non è né la tipologia professionale, né cosa si produce e neanche la tipologia di contratto che si applica. Ma è la relazione in cui si è inseriti: anche un clown, o un insegnante, può esser un lavoratore produttivo, se il suo lavoro è inserito in un circuito di valorizzazione capitalista (se cioè dalla sua attività un impresa estrae plusvalore, che viene realizzato in profitto attraverso la vendita sul mercato di una merce, concreta o intangibile che essa sia). Un centralinista al call center Almaviva è produttivo di capitale. Un’infermiera del San Raffaele, ospedale di un gruppo quotato in borsa, è produttiva di capitale (anche se assunta a partita IVA). Come un ricercatore nei laboratori GlaxoSmithKline, o un insegnate precarissimo che tiene ripetizioni presso la CEPU (in nero e non). Un lavoratore in un’azienda del gas ex municipalizzata, nel momento in cui questa viene inserita nel mercato per produrre capitale (SpA), diventa produttivo (mentre prima, facendo lo stesso identico lavoro, non lo era).
Con queste considerazioni non vogliamo quindi negare differenze e scomposizioni nella classe. Il punto è che vogliamo ricomporre lavoratrici e lavoratori non sulla rappresentazione di sé, non sulle forme giuridiche dei loro contratti, ma sul loro ruolo nei rapporti di produzione. Perché la centralità è quella del lavoro che è direttamente in contrasto con il capitale. Il salario e l’organizzazione del lavoro (ritmi, turni, intensità dello sfruttamento) in queste realtà sono direttamente legati ai profitti. Essendo nella loro vita quotidiana inseriti in una relazione antagonista con il capitale, sono spesso questi lavoratori e queste lavoratrici (precari o stabili, produttori di auto o di servizi assistenziali), che sviluppano una prospettiva anticapitalista e che hanno il potere contrattuale di inceppare la riproduzione di capitale.
Per questo è importante ricomporre il lavoro produttivo, contro le altre rappresentazioni politiche del conflitto. Vedremo infatti, nella seconda parte, come questa versione ristretta è in fondo solo uno scivolo per proporre la versione generale: la negazione del conflitto di classe nei rapporti di lavoro, in funzione della costruzione di una coalizione sociale interclassista (una sola moltitudine).
24.3.2015
LucaS
Nel numero scorso abbiamo visto come lo sciopero sociale sia una rappresentazione politica, sostanzialmente declinata in 2 versioni: una ristretta (che individua la centralità di una nuova figurasociale: il precario) ed una generale, che approfondiamo ora. Partiamo ancora dalle riflessioni di Marco Bascetta.
“La produzione di valore e la sua appropriazione avvengono in larga misura al di fuori del lavoro dipendente e perfino al di fuori da una sfera di attività agevolmente identificabili come «lavoro»… esistono naturalmente, e non sono affatto pochi, i lavoratori salariati, fabbriche, uffici, servizi che, per quanto sotto crescente ricatto, possono essere fermati. Ma sono parte marginale” (il manifesto, 12.11.2014).
E’ una rappresentazione che si richiama a note teorie post-operaiste (Negri, Hardt, Fumagalli, Moulier Boutang, Paulré). Il capitale non si accumulerebbe più attraverso l’estrazione di plusvalore, cioè attraverso la determinazione di un prezzo della forza lavoro (il salario) inferiore al valore trasmesso alle merci. Il capitale avrebbe cioè subito negli ultimi decenni una grande trasformazione, determinata per alcuni dalla lotta di classe (ad esempio Negri) e per altri dalla rivoluzione microelettronica, che avrebbe reso la forza-lavoro sostanzialmente superflua (Frola, Storia e tesi del gruppo krisis, Il rasoio di Occam, 14.2.2015). In un caso come nell’altro, la nuova forza produttiva che determinerebbe la valorizzazione del capitale sarebbe la mente sociale, cioè la conoscenza/intelligenza diffusa che si produce nelle relazioni.
In realtà, in tutto il lavoro umano è presente una componente mentale: anche nei compiti più semplici, è il pensiero che guida l’attività (Varoufakis, Halevi e Theocarakis, Modern political economics, 2011). Secondo queste teorie, però, la capacità di produrre oggetti sarebbe oggi diffusa e automatizzata: il valore manifatturiero costituirebbe quindi una percentuale minima ed in continua decrescita del valore di un bene. Il valore sarebbe al contrario sostanzialmente determinato da componenti intellettuali: ideazione, ricerca e sviluppo, design, brand, campagna pubblicitaria, ecc (Negri e Vercellone. Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo. Posse, 2007, pp.46-56).
La mente umana, comunque, è una mente sociale. Nel senso generale che si costruisce in un ambiente sociale (Lukács, Ontologia dell’essere sociale,1968; Hood, The self illusion, 2012). Ma anche nel senso specifico che questa capacità produttiva della mente origina dalla cooperazione sociale: l’intelligenza, la creatività, le esperienze, le conoscenze delle persone sono il risultato di processi collettivi. Non si produce valore nel lavoro, ma nelle reti sociali che si tessono quotidianamente nel corso di tutta la propria vita. L’economia contemporanea sarebbe quindi fondata su questa diffusione dei saperi, senza più confini ai luoghi e ai tempi di lavoro.
Secondo queste impostazioni, di conseguenza, il “capitale” non si determinerebbe più attraverso il controllo del lavoro, ma tramite il semplice potere politico, un dominio che “vampirizzerebbe” questa capacità produttiva diffusa attraverso due strumenti: un controllo pervasivo della società (microfisica del potere) e il sistema finanziario transnazionale (gestione della moneta e del debito pubblico).
Un pervasivo controllo sociale: il capitale “deve ottenere una mobilitazione..dell’insieme delle conoscenze e dei tempi di vita..La prescrizione della soggettività, al fine di ottenere l’interiorizzazione degli obiettivi dell’impresa, l’obbligo al risultato, la pressione del cliente insieme alla costrizione pura e semplice legata alla precarietà, sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di rispondere a questo problema inedito. Le diverse forme di precarizzazione del lavoro sono..uno strumento..per imporre e beneficiare gratuitamente di questa subordinazione totale” (Negri e Vercellone, 2007, vedi sopra)
Il sistema finanziario internazionale: “..il potere finanziario stabilisce in modo autonomo e sovranazionale il valore della moneta..(con una) creazione netta di moneta, al di fuori di qualsiasi forma di signoraggio statuale..La produzione di moneta a mezzo di moneta implica una ridefinizione della legge del valore-lavoro e nuove regole di sfruttamento..tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria” caratterizzata da un elevato grado di concentrazione” (Fumagalli, il manifesto, 9.9.2011).
In tutte queste teorie, si tiene in considerazione la permanenza di precedenti forme di lavoro (il classico lavoro salariato capitalista). Ma al di dà del loro peso numerico o economico, le si ritiene comunque marginali: la tendenza le renderebbe progressivamente superate e in ogni caso le assorbirebbe in una diversa struttura del valore; come la schiavitù nell’’800 e ‘900, sarebbero solo un residuo di precedenti formazioni sociali. Non ci sarebbe quindi più alcun senso nel condurre una lotta sul salario (spartizione del plusvalore tra lavoro e capitale) o sull’organizzazione del lavoro (tempi, ritmi e intensità dello sfruttamento). Il lavoro salariato sarebbe comunque sussunto in un sistema che vede altrove l’origine del valore (biopolitica e mercati finanziari). Il conflitto si trasferisce allora nella società, espressione di una volontà di potenza collettiva contro il potere: un potere costituente policentrico, che riunisce l’insieme dei liberi auto-produttori del valore (una sola moltitudine). Una strategia che privilegia quindi la ribellione (sollevazione, striscione del corteo romano del 19 ottobre), la conquista di aree liberate (TAZ, o Zone Temporaneamente Autonome), la produzione cooperativa (beni comuni, open source), il reddito di cittadinanza (o meglio il salario sociale, in quanto tutti e tutte contribuiscono alla valorizzazione attraverso le loro relazioni sociali). In questo contesto si colloca lo sciopero sociale. Bascetta stesso spiega che “sciopero sociale, preso alla lettera, significa smettere di fare società, sospendere cioè quelle azioni e interazioni che caratterizzano il normale svolgimento della vita sociale, mantenendo quest’ultima, depurata dei suoi caratteri «funzionali», in una dimensione altra che ne contraddica l’asservimento alla condizione del lavoro e della produzione in senso più generale. Un altro tempo e un altro spazio. Senza alcun intento blasfemo o irrispettoso, semmai il contrario, un modello assai radicale lo indicherei nello Shabbat ebraico” (il manifesto, 12.11.2014).
Perché contestare questa lettura? Perché questa rappresentazione del conflitto è radicalmente altra da una prospettiva di classe. “Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale..Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti..Il capitale è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, …” (Marx, Il Capitale, libro III). Il capitale è un rapporto sociale fra persone, fra classi. Sostenere che la valorizzazione del capitale non avviene più nella produzione, che non esiste più estrazione di plusvalore, è sostenere che non esiste più capitale. Rimane solo un comando dispotico, di carattere neofeudale, che contrapporrebbe direttamente masse e potere: Impero e moltitudine. Lo sciopero sociale, allora,non è uno sciopero. E’ una coalizione contro il potere (più o meno imperiale). Una sollevazione interclassista. Un fronte popolare, dunque: lavoratori e lavoratrici, studenti e disoccupati, professionisti e anche proprietari che si ribellano contro i mercati finanziari, le banche, i poteri costituiti. Al fondo, allora, è solo una diversa forma della classica strategia di ampia alleanza tra settori proletari e piccola-media borghesia (piccoli produttori o capitali locali), contro gli interessi del capitale multinazionale. Una prospettiva democratica, anche se radicale e conflittuale.
Per questo siamo contro lo sciopero sociale. Nella sua versione ristretta, perché assolutizza una figura precaria astratta, proiezione ideologica di un soggetto immaginato (vedi scorso numero). Nella sua versione generale, perché per noi la ripresa del conflitto non passa per coalizioni interclassiste, ma per l’autonomia di classe. Il modo di produzione capitalistico ha composto nei secoli un mercato mondiale che domina l’intera organizzazione sociale. Certo, rimangono settori che non sono inseriti nei processi di valorizzazione: servizi pubblici, strutture comunitarie, sistemi di autoconsumo e relazioni di scambio. E conseguentemente si determina una complessa articolazione di classe: grande borghesia e proletariato, ma anche piccoli produttori contadini e artigiani, commercianti indipendenti, lavoratori e lavoratrici autonomi/e di vecchia e di nuova generazione. Il ciclo di crescita o crisi, però, come i rapporti tra diversi paesi e tra gruppi sociali, sono determinati in ultima istanza dai processi di accumulazione capitalista. Un’accumulazione che si realizza ancora attraverso lo sfruttamento (un salario inferiore alla valorizzazione delle merci, materiali o immateriali che esse siano). Gli uomini e le donne inseriti in questi processi vivono quindi una relazione antagonistica con il capitale, che si personifica nel padrone o nella direzione. E mantengono un elemento umano irriducibile alla sua volontà di controllo. La lotta anticapitalista si organizza e si fonda quindi su questa autonomia di classe: sull’irriducibilità dei lavoratori e delle lavoratrici, sui loro interessi antagonisti. Su questo antagonismo, e solo su questo antagonismo, possiamo sperare di ricostruire una prospettiva di fuoriuscita dal modo di produzione capitalista, una prospettiva socialista.
27.4.2015
LucaS