Jerry Essan Masslo: il primo morto per razzismo in Italia nel dopoguerra
Nell’agosto del 1989, veniva ucciso a Villa Literno (in Campania) Jerry Essan Masslo, un bracciante impiegato nella raccolta dei pomodori. Si trattò del primo assassinio a sfondo razziale della storia d’Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Un episodio che allora fece una profonda impressione, ma che oggi è quasi dimenticato…
«È veramente troppo tardi quando, nella notte di quel tragico 24 agosto ’89, in un casolare abbandonato alla periferia di Villa Literno, durante l’ennesima rapina ai danni dei braccianti africani, viene brutalmente trucidato il giovane sudafricano Jerry Essan Masslo». Sono le parole con cui Giulio Di Luzio, giornalista e scrittore, apre uno dei tristi capitoli del suo libro “A un passo dal sogno. Gli avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’immigrazione in Italia” (Besa Editrice).
Jerry Essan Masslo, sudafricano rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziali del suo Paese (Nelson Mandela sarà liberato pochi mesi dopo…), è ucciso nel corso di una rapina da giovani balordi di Villa Literno.
L’impressione del crimine colpisce milioni di cittadini in provincia di Caserta e in tutta Italia. Comincia a farsi strada la coscienza che anche in Italia è presente un popolo di lavoratori migranti quasi senza diritti, oggetto del più barbaro sfruttamento, sottoposti alle vessazioni di caporali senza scrupoli. E della minaccia rappresentata dalla crescita di un odioso razzismo; una realtà che pochi, fino a quel momento, avevano avuto il coraggio di guardare negli occhi.
A poco più di un mese di distanza da quella morte, il 7 ottobre si svolge a Roma una grande e straordinaria manifestazione antirazzista. Ma, come purtroppo ci dicono gli episodi di xenofobia e di razzismo che si ripetono quotidianamente a distanza di vent’anni, l’indignazione di un giorno di molti non basta a cambiare le pulsioni profonde che si annidano nei settori culturalmente più deprivati della società, soprattutto se queste pulsioni sono criminosamente incoraggiate e sfruttate da un ceto politico reazionario e dai media ad esso asserviti. Per capire le migrazioni. Perché i flussi migratori? Quali ne sono le cause? Quali i possibili effetti? Come reagire? Sono inevitabili le reazioni razziste e xenofobe? E cosa bisogna fare per prevenirle?
Se ne discute almeno da vent’anni. E non si può dire che non era possibile comprendere e non era possibile agire diversamente… Il testo che segue, redatto diciassette anni fa, resta per molti aspetti attuale. Sono largamente superati i dati numerici. Li ho lasciati perché possono consentire un confronto con la situazione attuale. Si tratta della relazione tenuta alla conferenza sull’immigrazione della federazione milanese del Partito della Rifondazione Comunista il 17 maggio 1992. [TB, 2009]
I FLUSSI MIGRATORI CHE COINVOLGONO L’ITALIA
La mia comunicazione si soffermerà su alcuni aspetti analitici e quantitativi dei flussi migratori che hanno coinvolto il nostro paese in questi ultimi anni. Cercherò di proporre un quadro, necessariamente schematico, 1) delle tendenze (socio-economiche, ecologico-demografiche, e politiche) operanti sul medio-lungo periodo che nell’attuale quadro internazionale ed interno determinano e alimentano i movimenti migratori che intersecano anche il nostro paese e 2) della destinazione finale degli immigrati nell’ambito del sistema economico italiano.
A mo’ di premessa richiamo una osservazione di Umberto Melotti che a mio parere inquadra correttamente il problema nei suoi caratteri generali: «Le nuove migrazioni internazionali dal Sud al Nord del mondo sono il segno più significativo di un’epoca di crisi e di transizione che è destinata a durare, se non ci saranno catastrofi, per almeno un secolo… Queste migrazioni rappresentano l’ultimo atto di un dramma che è “inciso a caratteri di fuoco e di sangue” (Marx, 1867) negli annali dell’umanità: la formazione e l’estensione a scala planetaria del sistema capitalistico e delle sue contraddizioni. Ma rappresentano anche il primo capitolo di una nuova fase della storia, caratterizzata dalla trasformazione del mondo in un insieme di formazioni sociali, multi-razziali, multi-etniche, multi-culturali, multi-linguistiche e multi-religiose, divise da un divario crescente, ma anche sempre più interdipendenti, e quindi almeno tendenzialmente solidali nei loro destini» (Melotti, 1990, p. 15).
In effetti, i processi in cui anche il nostro paese si trova coinvolto sono parte di sconvolgimenti planetari di grande portata di cui è essenziale essere consapevoli. In questo senso, la presenza sempre più numerosa (anche se a tutt’oggi di gran lunga inferiore a quella che caratterizza altri paesi europei) e sempre più visibile di lavoratori provenienti da paesi del terzo mondo nelle nostre città è il prodotto di processi e contraddizioni che segnano in questa fase lo sviluppo capitalistico su scala mondiale e ci ricordano che il nostro paese fa pienamente parte di questi sviluppi nel bene e nel male. Questo significa, da un lato, che non possiamo separare i vantaggi (veri o presunti) del nostro modello sociale e del nostro tipo di sviluppo dai prezzi che esso costa (ai lavoratori e alla società italiana, ma anche alle popolazioni del resto del mondo). Dall’altro, che solo ragionando in una logica sovranazionale abbiamo la capacità di comprendere la direzione degli avvenimenti che ci riguardano. La stessa distinzione fra primo mondo (ricco, sviluppato) e terzo (e quarto) mondo (povero, sottosviluppato), ad esempio, è sempre più fuorviante. Il mondo è sempre più uno solo. Fra le sue diverse parti è in atto e si va rafforzando una interdipendenza sempre più stretta. Il relativo benessere “medio” che in questa fase l’Italia ricava dalla sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro (che vede la nostra economia inclusa a pieno titolo nel cosiddetto “centro” del sistema capitalistico mondiale), è in relazione con i processi di impoverimento di altre parti, maggioritarie, del pianeta, e questo nostro relativo benessere non è al riparo dagli effetti indotti in altre aree dalla povertà e dalla disoccupazione. Gli immigrati che oggi incontriamo nel nostro paese sono uno degli effetti di questa interdipendenza; sono, in un certo senso, un pezzo di terzo e quarto mondo che si sta trasferendo nel primo mondo e che ci ricorda che il mondo, in realtà, è diventato da tempo uno solo, nel bene e nel male.
Flussi migratori. Alcuni cenni ai fattori internazionali
La vicenda storica dello sviluppo capitalistico del nostro paese che tutti grosso modo conosciamo, e che, come è noto, è stata profondamente segnata dalle migrazioni, sia interne sia verso l’estero, potrebbe servire da modello per illustrare le relazioni che intercorrono fra sviluppo capitalistico e processi migratori. Lo sviluppo capitalistico è un processo per sua natura contraddittorio, ambivalente, di costruzione e di distruzione allo stesso tempo, che ha tradizionalmente comportato tra i suoi effetti quello di produrre lo sradicamento e lo spostamento di grandi masse umane nelle aree investite dai processi connessi all’accumulazione allargata del capitale. Semplificando drasticamente potremmo dire che nello sviluppo capitalistico operano costantemente due tendenze contrapposte.
Da una parte, la distruzione delle condizioni economiche precedenti (che, secondo i momenti e i luoghi, possono essere rappresentate dalle strutture economiche tradizionali, in passato spesso ancora pre-capitalistiche, oggi anche post-capitalistiche; ovvero da livelli di sviluppo capitalistico più arretrati, dipendenti o periferici; o ancora da livelli di sviluppo capitalistico “maturo” entrati in crisi strutturale, ecc. e la cui sparizione comporta sempre in venir meno delle opportunità di lavoro e delle fonti di sostentamento per larghe masse).
Dall’altra, la creazione di nuove condizioni di accumulazione e di sviluppo (che portano con sè l’allargamento della base produttiva, lo sviluppo delle forze produttive, la nascita di nuovi settori, l’aumento della ricchezza e delle possibilità occupazionali, ecc.).
Le due tendenze non sono altro che le due facce della stessa medaglia. Secondo le fasi storiche prevale l’una o l’altra, ma in ogni caso la dialettica sviluppo/sottosviluppo, Nord/Sud, centro/periferia (come è stata variamente tematizzata) è una costante dello sviluppo capitalistico. Questa dialettica è circolarmente causa ed effetto della natura ineguale dello sviluppo capitalistico (cioè si alimenta delle diseguaglianze che trova e che in parte riproduce mentre ne produce di nuove), ed è perciò un dato intrinseco alla gerarchia economica mondiale e alla divisione internazionale del lavoro che riassumiamo nel termine di imperialismo, il quale, d’altra parte, come insieme di meccanismi economici, finanziari, politici, militari e quant’altro opera attivamente nel senso di una perpetuazione e di un incremento di queste diseguaglianze.
Gli studiosi dei processi migratori sono soliti distinguere le cause di questi fenomeni in fattori di espulsione (push factors, quelli che provocano la partenza della gente) e in fattori di attrazione (pull factors, quelli che operano nelle aree verso cui si dirigono i flussi migratori). Potremmo generalizzare questa distinzione applicandola non solo ai flussi di manodopera ma anche ai flussi delle merci, ai flussi finanziari (investimenti, redditi, pagamenti, ecc.), a quelli tecnologici e ai flussi di risorse energetiche e minerarie.
Potremmo allora riformulare le osservazioni appena fatte dicendo che lo sviluppo capitalistico è per sua natura generatore tanto di fattori di espulsione quanto di fattori di attrazione. Prevalgono i fattori di attrazione nelle aree e nei momenti in cui si concentra l’accumulazione del capitale e della ricchezza; prevalgono invece i fattori di espulsione nelle aree e nei periodi in cui la penetrazione capitalistica ha prevalenti effetti distruttivi sull’economia tradizionale o sulle condizioni economiche preesistenti e si traduce pertanto in spoliazione: espropriazione ed esportazione di risorse di ogni tipo (dal risparmio alla forza lavoro, dalle capacità professionali alle risorse naturali). Parlando di flussi migratori si fa riferimento spesso al fattore demografico. Che esso abbia giocato in passato e che esso giochi oggi un ruolo importantissimo non può essere messo in dubbio. Ma, parlando in generale, la dinamica demografica non può essere vista come “il” fattore causale unico dei flussi migratori e neppure come il fattore in qualche modo cruciale. Le versioni di fonte giornalistica del fenomeno immigrazione in termini di conseguenza della dinamica demografica sono culturalmente e politicamente “inquinate”, oltre che scientificamente inadeguate e fuorvianti. Dunque, anche l’operare di tendenze demografiche differenziate nelle diverse aree del pianeta (e la loro relazione con i flussi migratori) va messo in rapporto da un lato con la storia della trasformazione capitalistica del mondo e dall’altro con la allocazione mondiale delle risorse (in senso ampio) che viene operata nel quadro imperialistico esistente.
Aggiungo, per evitare equivoci, che non voglio proporre — perché non ci credo — un rigido ed univoco determinismo economico fra sviluppo capitalistico internazionale da un lato e flussi migratori dall’altro. Anzi, voglio richiamare la vostra attenzione sull’importanza di tutta una serie di fattori extra-economici che devono essere considerati da un’analisi concreta: non solo la dinamica demografica (che risulta influenzata anche da fattori tipicamente sociali e culturali come sono la posizione sociale e familiare delle donne e la natura e l’influenza delle prescrizioni religiose in materie come la contraccezione, l’aborto, il numero dei figli, ecc.), ma anche il degrado ecologico e gli eventi politici (repressioni, guerre civili, guerre), fattori che operano spesso come “punto di catastrofe” di situazioni socio-economiche critiche, e — fattore non trascurabile — le scelte politiche in materia di immigrazione operato dai paesi di destinazione dei flussi. Tutti questi fattori, tuttavia, acquistano il loro rilievo specifico soltanto se collocati sullo sfondo rappresentato dalle contraddizioni di questa fase dello sviluppo capitalistico mondiale.
Flussi migratori in Europa nel dopoguerra
Da un punto di vista storico si può osservare che l’Europa è stata la fonte di intensi flussi migratori per tutto il periodo storico dell’ascesa e dell’affermazione del capitalismo e fino ad anni molti recenti. Dal 1846 al 1930, per dare una cifra, furono oltre 50 milioni gli europei che si stabilirono in altri continenti. Questo flusso secolare si inverte all’indomani della seconda guerra mondiale. Il saldo migratorio fra l’Europa e il resto del mondo diventa positivo. Si tratta soprattutto di movimenti di manodopera fra le ex colonie e le ex potenze coloniali (Inghilterra, Francia, Belgio, Olanda). Contemporaneamente, e per tutta la fase «della ricostruzione post-bellica e dell’espansione strutturale» (Melotti, 1990) che va dal 1950 al 1967, o al più tardi al 1973-74, si rafforzano anche le migrazioni interne che si dirigono dai paesi europei di sviluppo capitalistico “ritardato” (paesi mediterranei fra cui l’Italia, e Irlanda), o situati ai margini dell’Europa (Turchia), ovvero ai margini dello sviluppo capitalistico (Jugoslavia) verso i paesi dell’Europa centro-settentrionale (Germania, Svizzera, Benelux, Svezia, ecc.). I flussi di questa fase sono costituiti essenzialmente da manodopera considerata “temporanea”, assorbita per lo più nel settore industriale, dove va ad occupare in genere le posizioni più basse e dequalificate, facilmente licenziabile nei momenti di difficoltà congiunturale: “lavoratori ospiti” (Gastarbeiter), secondo la formula ipocrita in uso nella RFT.
Con la crisi economica non più congiunturale ma strutturale che colpisce a metà degli anni settanta tutta l’economia mondiale, compresi i paesi europei, si verifica una situazione nuova anche per quel che riguarda i flussi migratori in Europa. I governi europei si orientano verso politiche di contenimento dell’immigrazione; varano anzi incentivi finanziari per coloro che accettano di essere rimandati indietro. Queste politiche ottengono risultati molto limitati: diminuisce il numero dei lavoratori stranieri, ma non il numero degli stranieri presenti nei paesi europei, il quale, invece, addirittura aumenta, grazie ai ricongiungimenti familiari. In effetti, i processi degli anni precedenti hanno portato alla costituzione in molti paesi europei di vere e proprie comunità costituite dai lavoratori stranieri e dalle loro famiglie, che sono l’inizio di una trasformazione in senso plurietnico dei paesi europei. Per altri versi, la crisi degli anni settanta si accompagna ad una ristrutturazione su vasta scala della divisione del lavoro, in seguito all’esaurirsi della dinamica propulsiva dei settori trainanti della fase precedente (edilizia, metallurgia, meccanica, chimica, ecc.).
Uno dei tratti di questa ristrutturazione è il decentramento nelle periferie (paesi del terzo mondo, ma anche regioni meno sviluppate del nord) delle lavorazioni a più elevata intensità di lavoro e a minor contenuto tecnologico. In effetti, a partire dagli anni sessanta, processi di industrializzazione si mettono in moto in molti paesi del terzo mondo, senza peraltro che ciò porti a un rovesciamento della loro posizione di dipendenza che si esprime in tante forme (proprietà straniera dei settori economici moderni o legati allo sfruttamento delle risorse naturali, dipendenza tecnologica, condizionamento politico, dipendenza finanziaria, ecc.).
Contemporaneamente, un processo parallelo e opposto a quello dell’esportazione delle attività “mature”, modifica i mercati del lavoro “interni”: la diffusione del fenomeno della immigrazione “clandestina”, ossia irregolare; il che consente, in qualche modo, di “importare” non tanto o non solo la manodopera di cui c’è bisogno, quanto le condizioni di flessibilità e di sfruttamento che la crescita del potere sindacale ha fortemente limitato nel corso del periodo precedente. «Esportazione di attività produttive e importazione di manodopera hanno configurato, nel loro complesso, un’internazionalizzazione dell’economia capitalistica decisamente più alta che nella prima fase strutturale” (Melotti, 1990, p. 39).
L’Italia è solo in parte coinvolta da questi fenomeni nel corso degli anni settanta quando, pure, dal 1972 il saldo migratorio diventa positivo. Per tutta una fase gli immigrati che giungono in Italia sono per lo più esuli e rifugiati politici (di fatto e non di diritto, eccetto i cileni) provenienti dall’America latina (cileni, uruguaiani, argentini, più tardi salvadoregni), dal Corno d’Africa (eritrei, somali) e anche dai paesi del Medio Oriente (palestinesi, iraniani, curdi) e, limitatamente, dell’Estremo Oriente (episodio dei boat people, ecc.).
La svolta degli anni ottanta
Un cambiamento di grande portata nel quadro che determina i flussi migratori su scala internazionale interviene nel corso degli anni ottanta. Si tratta di cambiamenti che sembrano destinati ad accentuarsi nel corso di questo decennio, all’inizio del quale, il crollo politico dei paesi dell’Est, la disgregazione economica in atto di quest’area, le tensioni etniche già sfociate in una sanguinosa guerra civile fra i popoli e gli stati dell’ex Jugoslavia, apportano nuovi fattori di acuta drammatizzazione della situazione. Per la prima volta anche l’Italia è coinvolta in pieno da queste tendenze in linea con gli altri paesi sviluppati d’Europa. In sintesi le caratteristiche salienti di questa nuova fase possono essere riassunte dicendo che i flussi migratori attuali vedono una netta prevalenza dei fattori di espulsione sui fattori di attrazione. In altre parole, essi sono sempre meno motivati dalla domanda di lavoro delle tradizionali aree di approdo (anche perché la relativa ripresa degli anni ottanta non è riuscita ad assorbire i consistenti fenomeni di disoccupazione che permangono in tutte le economie sviluppate, in Europa, in Nordamerica e anche in Giappone, per il carattere labour saving delle trasformazioni tecnologiche degli anni settanta-ottanta), e sempre più determinati dalle drammatiche situazioni dei paesi di partenza rispetto alle quali la scelta di emigrare tende ormai ad assumere il carattere di una «fuga verso la sopravvivenza», per usare una formula del Censis (Melotti, 1990, p. 31).
L'”effetto vetrina”
Forse, il principale fattore di attrazione del Nord del mondo verso i popoli dell’Est e del Sud del mondo è costituito oggi da quello che si potrebbe definire l’“effetto vetrina” esercitato dal Nord sul Sud e l’Est; si tratta cioè dell’attrattiva esercitata dall’immagine di sé che esso proietta verso il resto del pianeta (modernità e onnipotenza tecnologica, consumismo, lustrini premi e cotillon televisivi, più la retorica sulla democrazia, i diritti umani, ecc.). Qualcosa che la sinistra ha sottovalutato, ma la cui forza abbiamo visto all’opera nel caso del crollo del regime della Germania est e, più recentemente, nel caso degli albanesi approdati alle nostre coste con l’illusione di avere a portata di mano non solo il lavoro ma anche, molti, il benessere e la ricchezza facili (e che invece si sono visti rispedire indietro come pacchi indesiderati, dopo un trattamento indegno di animali, non solo di persone umane).
Un divario crescente
«La divisione del lavoro tra le varie nazioni è tale che alcune si specializzano nel vincere, altre nel perdere». Questa amara osservazione dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano (citata in WWI, 1990, p. 232) ha trovato una drammatica conferma nelle tendenze affermatesi su scala mondiale negli anni ottanta. Mentre i paesi sviluppati conoscevano dal 1982-83 una certa ripresa (anche se non ai livelli del boom postbellico) la condizione di molte aree del resto del mondo subiva un sensibile peggioramento. La forbice tra paesi del Nord industrializzato e paesi del Sud del mondo si è andata perciò ulteriormente allargando nel corso degli anni ottanta e questo divario tende ad accentuarsi negli anni novanta. «Lo iato tra nazioni ricche e nazioni povere» scriveva quattro anni fa il rapporto Brundtland, «si sta allargando anziché restringersi, e ci sono scarse probabilità, date le attuali tendenze e la situazione istituzionale, che questo andamento possa essere rovesciato» (WCED, 1988, p. 25). Caduta dei tassi di crescita; crisi debitoria e stagnazione degli aiuti e degli investimenti esteri; calo dei prezzi delle materie prime e delle esportazioni; decremento dei redditi individuali e aumento delle forze di lavoro disoccupate e sottoccupate; tagli alle spese sociali e agli investimenti: questi sono alcuni degli elementi salienti che nell’ultimo decennio determinano, combinandosi in proporzioni diverse, la difficile situazione economica, a volte al limite della catastrofe sociale, di molti paesi del terzo mondo. La crescita media annua del terzo mondo è stata negli anni ottanta la metà di quella degli anni settanta, con una media, nella prima metà del decennio, non superiore all’1% annuo; e si osservi che nel 1988 il reddito medio pro capite del Sud del mondo era pari al 4% di quello del Nord; per l’Africa subsahariana questa cifra scendeva addirittura all’1,5%! (Bonifazi e altri, 1991, p. 18). Per le economie dei paesi dell’Est il rallentamento della metà degli anni ottanta diventa un vero e proprio tracollo alla fine del decennio, anche se per ragioni essenzialmente politiche. In termini di crescita pro capite, la caduta è stata ovviamente ancora più consistente. I dati articolati per aree geografiche mostrano una preoccupante diminuzione per l’America latina (— 0,6%, contro il + 3,8% degli anni settanta) e un declino rovinoso per l’Africa nera (— 3% contro il + 2%). Occorre sottolineare che questa cifra — 3% annuo moltiplicata per un decennio significa la diminuzione di oltre un terzo del reddito pro capite. Viene valutata del 50% la caduta degli investimenti, cioè delle possibilità di sviluppo futuro (Cherbourg, 1991). Assistiamo già ad una marginalizzazione dei paesi più poveri (Africa nera, Asia sudorientale); essi non esistono praticamente più per il capitalismo mondiale. Compaiono sui mass media solamente in occasione delle catastrofi che li colpiscono: le inondazioni in Bangladesh, il colera in Perù, già molto più discretamente per la fame in Africa. Il meccanismo del debito estero — il cui ammontare, mettendo insieme i paesi del terzo mondo e quelli dell’Europa orientale, aveva superato alla fine del 1990 i 1550 miliardi di dollari, (Cherbourg, 1991) — ha funzionato nel corso degli anni ottanta in modo tale che il servizio sul debito stesso è diventato superiore ai nuovi crediti. «Secondo i calcoli della Banca mondiale, limitatamente al solo debito a lungo termine, l’aumento dei pagamenti per gli interessi ha più che compensato le entrate costituite dai nuovi prestiti e, dopo il 1984, il trasferimento netto (nuovi prestiti meno interessi e rimborsi) è diventato positivo a favore dei paesi occidentali; esso ammonta a circa 50 miliardi di dollari all’anno dopo il 1988. E’ il terzo mondo che aiuta i paesi ricchi» (Cherbourg, 1991). A questo drenaggio va aggiunto quello che assume la forma di fuga dei capitali, di cui si rendono responsabili le corrotte classi dirigenti indigene. Per la sola America latina è stato calcolato che la fuga di capitali sia stata di circa 250 miliardi di dollari nel corso degli anni ottanta, una quota pari al 60% dei crediti ricevuti (WWI, 1990). Si aggiunga che la politica protezionistica messa in atto dai paesi industrializzati nei confronti delle esportazioni industriali del terzo mondo ha provocato loro una perdita compresa fra i 50 e i 100 miliardi di dollari ogni anno nell’ultimo decennio (WWI 1990, p. 238). La Cee ad esempio, impone una tassa quattro volte più elevata sui tessuti importati dal terzo mondo rispetto a quelli che impone alle importazioni da altri paesi industrializzati. La caduta dei prezzi delle materie prime, poi, calcolata fra il 40 e il 50% in media nel decennio (WWI, 1990, p. 237, e Cherbourg, 1991) ha contribuito a peggiorare le ragioni di scambio, restringere le entrate valutarie, rendere più oneroso il servizio del debito, deprimere i redditi pro capite, soffocare le spese sociali, tagliare gli investimenti per lo sviluppo.
Il divario demografico
Accanto al divario economico, fra paesi sviluppati e paesi del terzo mondo si è aperto da tempo un secondo divario non meno esplosivo: il divario demografico. Non è questa la sede per esaminare le cause della crescita demografica del terzo mondo, che oltretutto presenta caratteristiche non uniformi. Parlando in generale si può dire che essa dipende dal ritardo con cui sta avvenendo nei paesi meno sviluppati la “transizione demografica” che è già stata sostanzialmente completata in Europa. Come è noto, col termine di transizione demografica si intende il processo che conduce dall’equilibrio demografico dell’era preindustriale (caratterizzato da tassi di natalità e di mortalità entrambi elevati, e da una speranza di vita piuttosto bassa) ad un nuovo equilibrio con tassi di natalità e mortalità entrambi bassi e vita media prolungata. La prima fase di questa transizione è marcata dalla riduzione dei tassi di mortalità; la seconda dalla riduzione dei tassi di natalità. L’intervallo di tempo fra i due momenti è responsabile dell’esplosione demografica. Ora, la seconda fase è tuttora da completare in molte regioni del terzo mondo, e trova ostacoli proprio nella situazione di povertà (che per altro verso contribuisce a mantenere), e in fattori sociali e culturali, come l’oppressione femminile (che impedisce la diffusione di atteggiamenti favorevoli al controllo delle nascite), e religiosi (opposizione alla contraccezione e al diritto di aborto, ecc.). Ora, nelle condizioni economiche descritte in precedenza, alle quali andrebbero aggiunte delle considerazioni sui rapporti di proprietà nelle compagne che determinano in molti paesi una crescente espulsione dei contadini, la forte dinamica demografica (e la struttura d’età della popolazione che la contraddistingue, schiacciata verso il basso) alimenta tumultuosi processi di urbanizzazione e accentua in modo esplosivo i fenomeni della disoccupazione, della sottoccupazione e in generale della povertà, sui quali si innestano le tensioni migratorie. In effetti, il rigonfiamento delle città del terzo mondo è forse il processo socio-demografico maggiormente responsabile della disponibilità a emigrare. L’urbanizzazione favorisce lo sradicando dalla comunità di origine di centinaia di milioni di uomini e donne. Sconvolge legami sociali e mentalità. Attraverso il contatto consentito dalla metropoli con la “modernità”, per quanto stracciona essa sia (fatta di Coca cola, soap opera televisive, automobili, ma anche di scuole, fabbriche e mezzi di informazione), essa crea le condizioni di quella “socializzazione anticipatoria” che predispone molti giovani a mettersi in movimento verso i paesi del Nord del mondo.
La “frontiera” del Mediterraneo
Con riferimento ai processi che riguardano in modo particolare il nostro paese, c’è un dato della situazione demografica che merita una sottolineatura. Si tratta del forte divario fra la riva nord e la riva sud del Mediterraneo, il quale è una delle “frontiere” calde dei flussi migratori fra Sud e Nord su scala mondiale, divario in via di acutizzazione. I paesi come l’Italia, la Francia e gli altri della riva nord del Mediterraneo sono caratterizzati da bassi tassi di natalità e da un rapido invecchiamento della popolazione, situazione che nel prossimo futuro aprirà dei vuoti nelle forze di lavoro e nei bilanci della previdenza sociale. I paesi della riva sud e est (paesi del Maghreb, Egitto, Turchia, ecc.) si distinguono invece per tassi di natalità ancora elevati e un popolazione molto più giovane, quindi per una forte offerta di lavoro. Tra il 1950 e il 1990 la popolazione della Turchia e dell’Egitto, ad es., è passata rispettivamente da 21 e da 20 milioni di abitanti a 56 e a 52 milioni di abitanti. Le proiezioni dicono che, continuando le tendenze in atto, nel 2020, mentre la popolazione della riva nord resterà pressoché stabile (dovrebbe passare dai 200 milioni attuali a circa 210), quella della riva sud aumenterà del 75%, passando da 192 a 328 milioni circa. Ma il dato più significativo è la stima dell’incremento delle forze di lavoro, che nel 2020 supererà di 10 milioni l’incremento del 1990 (che è stato di circa 20 milioni di entrate nel mercato del lavoro), e costituirà una formidabile spinta all’immigrazione, salvo il caso improbabile che un numero crescente e adeguato di posti di lavoro non venga creato in loco.
Degrado ambientale
Al divario economico e demografico, si aggiunge per molti paesi dell’Africa subsahariana l’ulteriore elemento del degrado ambientale, che si è andato aggravando da un ventennio. «Le nazioni africane dipendenti dalla vendita di materie prime sono costrette, dall’entità dei debiti che non sono in grado di pagare, a sfruttare al massimo il loro fragile suolo, trasformando così terre fertili in deserti. Le barriere doganali erette dalle nazioni ricche — ma esistenti anche in molti paesi in via di sviluppo — rendono difficile agli africani vendere le merci a prezzi ragionevoli, fatto che sottopone a pressioni ancora maggiori i sistemi ecologici» (WCED, 1988, p. 29). Va osservato che negli ultimi vent’anni si è avuto una costante peggioramento della situazione degli approvvigionamenti alimentari in Africa (WCED,1988, pp. 102-3 e 159). Scrive il rapporto Brundtland: «L’impoverimento delle risorse di base locali può comportare l’impoverimento di zone più vaste: il disboscamento dei rilievi a opera degli agricoltori causa inondazioni nelle zone agricole di pianura; l’inquinamento industriale priva i pescatori delle loro prede, e questi tetri cicli locali oggi si ripetono a livello regionale e nazionale. Il degrado delle terre aride spinge milioni di profughi “ambientali” al di là dei propri confini nazionali… Nel prossimo secolo, le cause ambientali fonte di movimenti di popolazione potranno aumentare bruscamente… Zone agropastorali sono sottoposte alla pressione di un crescente numero di contadini senza terra, le città si riempiono di gente, automobili e fabbriche» (WCED, 1988, p 28-29). Senza aggiungere qui anche un’analisi dei fattori politici dei flussi migratori, osserviamo che queste tendenze andranno accentuandosi nel decennio in corso. Un rapporto dell’Oxfam, associazione internazionale di volontariato civile, del quale hanno dato notizia i giornali l’ottobre scorso, formulava previsioni drammatiche. In seguito al peggioramento delle condizioni complessive delle condizioni del terzo mondo, i disastri naturali e sociali che colpiscono a intermittenza questo o quel paese del Sud del mondo, sono destinati a farsi più frequenti. Da una registrazione di 523 disastri negli anni sessanta, saliti negli anni settanta a 767, negli anni ottanta siamo arrivati a 1387. Dietro a queste cifre ci sono eventi come la carestia in Etiopia, la tragedia dei curdi, le inondazioni del Bangladesh, il colera in alcuni paesi dell’America latina. Il rapporto fornisce comunque anche alcune stime sui “disastri quotidiani” della povertà. I 140 mila morti del ciclone del maggio di un anno fa in Bangladesh suscitano più impressione del fatto che 140 mila bambini muoiono ogni 3 mesi in Bangladesh di diarrea e polmonite o dei 140 mila bambini che muoiono nel mondo ogni 3 giorni per fame o malattie (“l’Unità”, 13.10.91).
L’Italia da paese di emigrazione a meta di immigrazione
La storia di migrazioni che hanno interessato in passato il nostro paese è nota nelle sue grandi linee. Fino a vent’anni fa l’Italia è stata tradizionalmente una terra di emigrazione. In un secolo, tra il 1876 e il 1975 gli italiani che sono andati all’estero sono stati circa 26 milioni, di cui 14 verso i paesi extraeuropei e 12 verso paesi europei. Due le fasi più importanti: gli anni tra la fine del secolo scorso e i primi due decenni di questo secolo, e nel secondo dopo guerra. La vicenda delle migrazioni italiane non è completa senza il capitolo importantissimo dei flussi interni del periodo dell’espansione postbellica. Lo sviluppo interno italiano, il passaggio da un’economia ancora fortemente agricola e rurale ad un’economia moderna, fortemente industrializzata e terziarizzata, ha visto imponenti flussi interni, dalle regioni del Mezzogiorno e dell’Italia nord-orientale verso il triangolo industriale e verso i grandi centri urbani. Questi fenomeni si sono quasi del tutto esauriti nel corso degli anni settanta, duranti i quali cominciano a prender corpo i primi flussi di immigrazione. Gradualmente, e quasi senza accorgersene, da paese di emigrazione l’Italia diventa meta di immigrazione. Il cambio di segno nel saldo tra flussi in uscita e in entrata avviene già negli anni settanta (nel 1972, quando tuttavia il dato prevalente che viene colto è quello dei rientri), ma il trapasso si è accentuato negli anni ottanta, in relazione con il mutamento della situazione internazionale che abbiamo descritto. Tra i primi nuclei di lavoratori stranieri che si stabiliscono in Italia vanno segnalati i tunisini in Sicilia occidentale (Mazara del Vallo), che trovano occupazione nelle barche da pesca. All’estremo opposto d’Italia, in Friuli, si segnala l’arrivo degli jugoslavi impegnati soprattutto nell’edilizia.
Un fenomeno di una certa consistenza fin dagli anni settanta è l’immigrazione di filippine e capoverdiane, che trovano collocazione come lavoratrici domestiche presso famiglie benestanti. Una frazione consistente della presenza straniera in Italia nella seconda metà degli anni settanta è fortemente legata a fattori politici. La cosa riguarda in particolare la comunità latinoamericana (in prevalenza cileni esuli del regime di Pinochet, i quali per questo motivo hanno potuto godere fin dall’inizio di un rapporto più stretto con le forze di sinistra e i sindacati); e gli eritrei, il cui legame col nostro paese ha ragioni storiche nell’occupazione coloniale (fin dalla fine del secolo scorso), ma la cui presenza va ricondotta alla situazione creata dalla lunga guerra di liberazione contro l’occupazione etiopica, in corso fin dalla fine degli anni sessanta e inaspritasi nel corso degli anni settanta. Si riconosce generalmente che la comunità eritrea in Italia è stata fin dall’inizio una delle più organizzate e politicizzate. Prevalente anche in questo caso la componente femminile, occupata soprattutto nei servizi domestici. Si consolida inoltre la presenza dei cinesi, che risale agli anni sessanta e tende a organizzarsi in comunità piuttosto chiuse e autosufficienti; a questa presenza si deve la rapida diffusione del fenomeno dei ristoranti cinesi; l’attività di pelletteria è un altro settore in cui sembra essersi specializzata questa comunità.
Nel corso degli anni ottanta tende a cambiare la composizione dei flussi per provenienza geografica e caratteristiche demografiche, pur senza che vengano meno le tendenze già precedentemente in atto. In continuità con le tendenze degli anni settanta possiamo vedere i nuovi flussi dall’America latina: innanzi tutto la comunità salvadoregna, nella quale prevale la componente femminile che trova occupazione nei servizi domestici, il cui esodo è legato alla repressione e alla guerra civile che dilania il piccolo paese centramericano; quindi gli argentini, il cui caso è per certi aspetti peculiare in quanto si tratta molte volte di una emigrazione italiana di ritorno. Espressione dei mutamenti strutturali (economici, demografici, ecologici) di cui abbiamo estesamente parlato in precedenza, sono altri flussi migratori, in particolare quelli che provengono dai paesi del Maghreb, dai paesi dell’Africa subsahariana e da alcuni paesi asiatici come Sri-Lanka. Occorre osservare che in questa nuova fase si assite a una accentuata dispersione della provenienza geografica e risulta meno evidente il legame fra questi nuovi immigrati e l’Italia come paese di destinazione. In verità, gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che l’arrivo in Italia di questa nuova emigrazione sia stata determinata, inizialmente, dai provvedimenti con i quali, verso la metà degli anni settanta, sono stati chiusi i precedenti sbocchi tradizionali di questa immigrazione: la Francia per gli immigrati francofoni, la Germania per i turchi; la Gran Bretagna per gli asiatici, ecc. Si è osservato infatti che i flussi d’immigrazione investono nel corso degli anni ottanta tutti i paesi dell’Europa mediterranea, fino a poco tempo prima area tradizionalmente di emigrazione verso il resto d’Europa; la presenza straniera in Spagna, Grecia e Portogallo verso la fine degli anni ottanta ammontava rispettivamente a 360 mila, 192 mila, e 95 mila persone (Macioti, Pugliese, 1991, p. 10).
La forte precarietà è forse il dato più manifesto che unifica questa nuova immigrazione. Il tasso di disoccupazione è molto alto; questo spinge questi immigrati a una grande mobilità o conferisce loro una forte visibilità la quale ha sicuramente contribuito a generare fenomeni di allarme sociale nei loro confronti — amplificati dai mass media e dai politici governativi che ad un certo punto hanno cominciato a sparare cifre fantasiose: ricordo che Craxi parlò di un milione e mezzo di lavoratori immigrati, e “la Repubblica” sparò una volta la cifra di tre milioni di stranieri in Italia a metà degli anni ottanta quando, secondo le indagini più attendibili, il numero oscillava tra i 500 e i 750 mila (Macioti, Pugliese, 1991, p. 19). Questi nuovi immigrati si spostano spesso in cerca di possibili occasioni di lavoro: dalle spiagge adriatiche e tirreniche dove esercitano il commercio ambulante o trovano impiego negli alberghi e nei pubblici esercizi, alle campagne campane o pugliesi dove trovano occupazione stagionale nei lavori agricoli; dalle strade e le piazze delle grandi città, dove esercitano attività di commercio al limite dell’accattonaggio e dell’illegalità, ai cantieri edili e alle fabbriche della Brianza, del bresciano, del reggiano, ecc. Le maggiori difficoltà di collocazione nel mercato del lavoro, accentuano dunque le tendenze all’emarginazione e alla permanente precarizzazione dei nuovi arrivati ai margini della legalità (difficoltà di ottenere il permesso di soggiorno, ecc.), che li rende disponibili ad accettare non solo il lavoro nero e il commercio abusivo, ma a volte anche la prostituzione, il piccolo spaccio e i rapporti con la criminalità organizzata (di cui peraltro sono le prime vittime) (su questo, Melotti, 1990, p. 52).
La situazione gravissima del mercato dell’abitazione in Italia, poi, pesa in modo particolare nel determinare questa precarietà. Da un lato espone gli immigrati ad una speculazione odiosa (quando trovano un appartamento o un posto letto più o meno degno di questo nome), dall’altro li spinge a occupare edifici vuoti ma fatiscenti e a costituire quindi quelle situazioni precarie e ghettizzanti, come la Cascina Rosa a Milano o la Pantanella a Roma, che ben conosciamo e che li espone agli atti di intolleranza e agli interventi repressivi delle autorità di polizia.
Un ultimo dato nuovo significativo: dal punto di vista della religione si può osservare che questa ondata degli anni ottanta costituisce una novità per l’Italia, in quanto è costituita in prevalenza da immigrati di religione islamica. Oggi l’islam è a tutti gli effetti la seconda confessione praticata nel nostro paese. Considerando nel dettaglio i flussi, sulla base soprattutto di indagini locali o regionali si può dire quanto segue (in estrema sintesi). I marocchini sono diventati negli anni ottanta la prima presenza straniera in Italia per consistenza numerica. La composizione demografica è prevalentemente di giovani, maschi, celibi o senza famiglia al seguito, con caratteristiche di forte precarietà. Occupati nei lavori agricoli (soprattutto nel Mezzogiorno), come manovali nell’edilizia, nelle imprese di servizi (pulizie, ristorazione), e nel commercio ambulante, che tende però ad essere una sorta di prima e/o di ultima spiaggia, in mancanza di alternative migliori per la sopravvivenza. Un altro gruppo consistente è costituito dagli egiziani, occupati soprattutto nel settore terziario (ristorazione, servizi) ma anche nell’industria. I senegalesi sono la principale comunità di immigrati dell’Africa subsahariana. Essi simboleggiano in qualche modo i nuovi immigrati degli anni ottanta. Si tratta di una immigrazione quasi esclusivamente maschile, di giovane età., generalmente con un buon livello di scolarizzazione. Sono stati caratterizzati dall’inizio da una condizione di forte precarietà di collocazione, anche per la più netta “diversità” marcata dal colore delle pelle. Anche per tradizione nazionale, i senegalesi si sono dedicati massicciamente alle attività di commercio ambulante, anche se è in crescita la componente occupata nell’industria. Non è il caso di dettagliare oltre l’analisi, visto che l’intenzione era quella di fornire un abbozzo che desse l’idea dell’articolazione del fenomeno. Si può concludere riportando un’osservazione di Melotti, secondo il quale negli anni ottanta si osserva «un incremento più che proporzionale delle immigrazioni socialmente più problematiche e culturalmente più lontane» (p. 52).
Alcuni dati quantitativi
Dopo il dibattito alla camera del febbraio del 1990, nel corso del quale l’on. Martelli aveva dato alcune prime stime, si sono succeduti altri studi e ricerche che nell’insieme hanno molto ridimensionato le cifre fantasiose che erano state fornite in precedenza in sede giornalistica e politica. Una stima abbastanza articolata è stata poi proposta dall’Istat alla Conferenza nazionale sull’immigrazione (giugno 1990), la quale, in attesa dell’elaborazione dei dati del censimento dell’ottobre 1991, resta a quel che so la stima globale più recente del fenomeno. Ovviamente i contorni di questa realtà restano di difficile precisazione e restano margini d’errore difficili da quantificare, anche perché si tratta di un fenomeno molto fluido e cangiante anche nel breve termine. Una delle stime più circostanziate (fonte ministero degli Interni) riferita al 31 dicembre 1990, quindi successivamente alle sanatorie del 1987-88 e del 1990 (le sanatorie, previste dalle leggi 943/1986 e 39/1990 hanno dato rispettivamente 120.000 e 225.000 regolarizzazioni), fornisce queste cifre: 781.000 stranieri presenti con permesso di soggiorno (290.000 più di un anno prima, vedi più avanti). Circa un terzo da paesi sviluppati (Europa occidentale, Usa, Giappone e Oceania). Degli altri due terzi: 73.000 dai paesi dell’Europa orientale (questo dato sarà sicuramente aumentato, soprattutto per l’afflusso degli albanesi), 239.000 dall’Africa, 65.000 dall’America latina e 140.000 dall’Asia (Bonifazi, Misiti, Righi, 1991, p. 16). Difficile stimare gli irregolari (i cosiddetti “clandestini”). Ricordiamo che nel febbraio del 1990, al momento del dibattito alla camera in occasione dell’approvazione della legge Martelli, il sottosegretario alla Presidenza del consiglio aveva allora dichiarato: «I clandestini attualmente presenti in Italia non sono più di 150 mila, con una approssimazione del 50%. Il che significa che la stima finale oscillerebbe tra 100 e 200 mila clandestini». Dopo di allora c’è stata la sanatoria e, soprattutto, un inasprimento dei controlli di polizia ai confini e all’interno del paese (che hanno ad esempio portato da 30.000 a 62.000 i divieti di ingresso fra l’89 e il ’90 e da 500 a 10.000 e a 22.000 le espulsioni nel 1989, ’90 e ’91), ragione per cui si può formulare la valutazione prudenziale che il numero degli irregolari non sia da allora aumentato, ma semmai diminuito. Il che porta complessivamente la cifra degli stranieri in Italia attorno al milione, 100 mila più 100 mila meno. Siamo nell’ordine della stima dell’Istat, presentata alla Conferenza nazionale sull’immigrazione (Roma, 4-6 giugno 1990), la quale dava, per il 31/12/89, una cifra leggermente più alta: 1.144.000 presenze, così ripartita: provenienti dalla Cee 181.000, extracomunitari 963.000. Questi ultimi consistevano di 111.000 minori a carico, 26.000 studenti maggiorenni, 85.000 lavoratori regolari, 67.000 disoccupati registrati, 94.000 inattivi, e ben 580.000 lavoratori irregolari (la stima si riferisce alla situazione precedente alla legge Martelli). Interessante la distribuzione geografica. La presenza per regione vedeva questa graduatoria (riporto le situazioni più rilevanti): Lazio, 178.500; Sicilia, 135.400; Lombardia, 105.200; Campania, 83.500; Piemonte, 67.400; Toscana, 70.300 Veneto, 57.600; Emilia Romagna, 51.800, ecc. Questa stima dell’Istat dava un’immagine del fenomeno un po’ più ampia di quella fornita per il 1988 dal professor Natale, che aveva stimato un valore oscillante tra un minimo di 738.000 e un massimo di 1.060.000 (media 857.000). Ricordo che i permessi di soggiorno al 31/12/89 erano pari a 490.000, di cui 120.000 cee e 361.000 extracee. (Frey e altri, 1992, p. 132-134). In complesso, e al netto di possibili errori, va osservato che la presenza straniera in Italia è in ogni caso al di sotto o al più attorno al 2% della popolazione, ben al di sotto del 5-7% di altri paesi europei, o del 15% della Svizzera.
Quali sono le motivazioni degli arrivi? C’è una domanda interna?
Ci sono state incertezze da parte degli studiosi a mettere a fuoco i nessi della nuova immigrazione con le condizioni della domanda di lavoro esistenti oggi nel nostro paese, dal momento che non è scontato attendersi rilevanti flussi migratori in presenza di una numerosa disoccupazione interna che non ha fatto che crescere nel corso degli anni ottanta, e che si aggira stabilmente sul 12% delle forze di lavoro (Nord, 7,8%; Centro, 9,7%; Sud e isole, 19,2%; media nazionale, 12% nel 1989). Oggi c’è abbastanza accordo sul fatto che nella situazione attuale i flussi migratori sono in minima parte attratti da una specifica domanda di lavoro, soprattutto per ciò che riguarda il segmento tradizionalmente centrale del mercato del lavoro, la domanda di manodopera regolare per il settore industriale. Il fatto che molti immigrati trovino comunque collocazione dipende più dalle condizioni che essi sono disposti ad accettare che dall’esistenza di una domanda inevasa. Come ha osservato Enrico Pugliese, gli immigrati «non tanto occupano posti di lavoro rifiutati dai lavoratori nazionali, quanto… accettano condizioni di lavoro che i lavoratori locali tentano di evitare, perché collocate al di sotto del livello di garanzia, di sicurezza, di reddito e di protezione considerato accettabile nell’attuale fase di sviluppo sociale» (citato da Melotti, 1990, p. 49). Non è facile determinare la distribuzione settoriale degli immigrati, perché i dati del ministero del Lavoro censiscono solo il segmento “regolare” e inoltre fornisco dati globali. In attesa dell’elaborazione dei dati raccolti col censimento dell’ottobre scorso, le informazioni più dettagliate e attendibili si ricavano oggi dalle indagini regionali o locali che illustrano situazioni specifiche di assorbimento dell’immigrazione. Nell’analisi che segue, i dati quantitativi a cui facciamo riferimento sono esclusivamente quelli dell’Istat forniti dal ministero del Lavoro per la componente “regolare” (“unità di lavoro a tempo pieno riferite a stranieri non residenti” è la formula dell’Istat, che non coincide proprio esattamente con le unità lavorative). Non sono riuscito a trovare una disaggregazione per provenienza di questi dati, il che significa che essi raggruppano insieme stranieri comunitari ed extracomunitari, extracomunitari del Nord del mondo (Nordamerica, Giappone, Oceania) e gli altri (Africa, Asia, America latina), il segmento di gran lunga più numeroso (la fonte utilizzata è Frey e altri, 1992, pp. 127-128). Vediamo il dettaglio.
Lavoro dipendente Nel complesso i dati del ministero del Lavoro danno 572.700 lavoratori stranieri dipendenti “regolari” nel 1989 (erano 495.000 nel 1985), pari al 2,5% delle “unità a tempo pieno”.
Industria manifatturiera. L’utilizzo della manodopera immigrata nell’industria è un dato tuttora limitato e che solo di recente comincia ad assumere proporzioni significative. Riguarda soprattutto l’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) e la piccola e media impresa. Sarebbe ovviamente interessante poter avere dei dati piuttosto articolati sulla provenienza geografica, sesso, età, qualifica, distribuzione geografica, ecc. ma non so se questi dati esistono su scala nazionale e non ho avuto il tempo di fare una ricerca in proposito. L’Istat, per la componente “regolare”, fornisce la cifra di 11.500 unità nel 1985 e di 13.400 nel 1989, concentrati nei metalmeccanici (12.100 nel 1989). Per altri aspetti. L’assunzione è tipicamente nominativa. Quando l’occupazione è regolare, per quanto le condizioni restino comparativamente peggiori di quelle della manodopera italiana, esse rappresentano una situazione di relativo “privilegio”, per così dire. La domanda di lavoro in questo settore, per quanto ancora limitata, appariva in espansione prima delle recenti difficoltà economiche.
Edilizia. La presenza di immigrati in questo settore è molto più consistente, riguarda l’intero territorio nazionale ed appare in espansione. I dati Istat stimavano la manodopera impiegata in questo settore in 41.100 nel 1985 e in 46.100 nel 1989, ma è chiaro che il fenomeno è molto sottostimato. E’ abbastanza evidente che l’impiego degli immigrati in edilizia, oltre che alla natura del lavoro, tradizionalmente pesante e poco stabile (soprattutto per le mansioni dequalificate) per cui esso tende a essere meno ambito dai lavoratori italiani, è legato soprattutto alla possibilità di sfruttare condizioni extracontrattuali ed extralegali (lavoro nero), un dato tradizionale nel settore anche con la manodopera italiana.
Agricoltura e pesca. I dati Istat danno l’occupazione (“regolare”) straniera in questo settore a livelli superiori all’industria (compresa l’edilizia) e in espansione: 54.700 nel 1985, 65.00 nel 1989. Il bracciantato agricolo è diffuso soprattutto nel Mezzogiorno (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia), ma anche al Centro (Lazio, Toscana) e al Nord (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Friuli). Riguarda in particolare le attività stagionali (raccolta dei pomodori, delle olive, ecc.), ma non solo (in misura minore manodopera straniera è impiegata anche nei lavori di contivazione, di allevamento e di trasformazione dei prodotti agricoli). Vede impiegati soprattutto lavoratori africani (soprattutto tunisini, marocchini, egiziani, senegalesi) e jugoslavi (in Friuli). E’ caratterizzato da condizioni di estrema precarietà, sottosalario, assunzioni irregolari, e forme di supersfruttamento venute alla luce in passato a seguito di drammatici fatti di cronaca. Giovanni Mottura, che si è occupato in particolare della presenza degli immigrati in agricoltura, è però dell’opinione che questa presenza sta «portando alla luce la possibilità concreta che il crescente squilibrio tra domanda e offerta in determinati comparti apra in agricoltura spazi di lavoro non precario e non necessariamente dequalificato per lavoratori immigrati» (in Frey e altri, 1992, p. 116). Per ciò che riguarda il settore della pesca va detto che la presenza straniera riguarda soprattutto la comunità di tunisini insediata a Mazara del Vallo già dagli anni settanta (che conta varie migliaia di persone, non tutte occupate nei pescherecci).
Servizi. E’ una realtà in forte crescita e molto articolata e diffusa; riguarda settori come ristorazione, gli alberghi e i pubblici esercizi, le stazioni di servizio, le imprese di pulizie, le lavanderie, ecc. I dati Istat sono piuttosto significativi per questo settore. Per la voce “servizi destinabili alla vendita” si dà la cifra di 177.300 nel 1985 che sale a 236.300 nel 1989. Anche le differenziazione per comparti è interessante: — “commercio”: da 64.300 a 98.800; “alberghi e pubblici esercizi”: da 66.200 a 87.200 — “trasporti marittimi e aerei”, voce che comprende soprattutto i marittimi imbarcati su navi italiane: da 35 a 36 mila unità, pari al 47,6% dell’occupazione del settore (è questo un gruppo di lavoratori che vive probabilmente in condizioni bestiali e a cui si presta in genere poca attenzione). Anche nel terziario si possono supporre diffuse situazioni extracontrattuali di assunzione, orario, salario, ecc. In alcuni comparti — tipico il caso dei ristoranti — gli immigrati si trovano a volte alle dipendenze di connazionali, in genere presenti da più tempo in Italia, che gestiscono attività autonome.
Servizi domestici. Si tratta di un segmento che occupa quasi esclusivamente manodopera femminile e che rappresenta forse il comparto in cui è più numerosa la presenza di lavoratori stranieri in cifre assolute. Secondo i dati dell’Istat questo gruppo ha registrato negli ultimi anni una presenza piuttosto stabile poco oltre le 200 mila unità (210.400 nel 1985 e 211.900 nel 1989). Per ciò che riguarda la provenienza è costituito soprattutto da filippine, capoverdiane, eritree e latinoamericane. Le condizioni di lavoro prevedono spesso la disponibilità 24 ore su 24, una sorta di semischiavitù, che non lascia in genere molte alternative e che vincola fortemente la libertà delle lavoratrici. Anche in questo settore lo spreco della forza lavoro è frequente. Non sono rari i casi di personale di servizio con laurea o diploma. Ho incontrato personalmente, durante il recente censimento, delle filippine con laurea in medicina e in ostetricia o con il diploma di infermiera, occupate come donne di servizio con orari settimanali di 60-70 ore.
Piccolo commercio ambulante autonomo Non ho trovato stime nazionali di questo settore che è forse il più fluido e difficilmente censibile della presenza straniera. Si tratta in effetti di una situazione ai margini del mercato del lavoro vero e proprio e a volte al limite con la mendicità; si tratta spesso infatti di una condizione di ripiego, di pura sopravvivenza, nell’attesa di qualche occasione migliore. Dominante la presenza di nordafricani (maghrebini, senegalesi, ecc.). E’ anche il tipo di attività, con quella dei lavavetri ai semafori, che più ha suscitato reazioni di rifiuto e di intolleranza, per la sua visibilità e il “disturbo” che provoca a chi preferisce voltar lo sguardo dall’altra parte e non accorgersi dei problemi.
Umanità sprecata
Vale la pena riprendere, quasi in conclusione, alcune osservazioni già accennate ieri da Romano Madera. Un dato che emerge dalle ricerche e dall’esperienza quotidiana è quello — tra le altre cose — di un vero grande spreco di risorse umane. Ad andarsene, a emigrare (si è già detto ieri), non sono generalmente i più poveri e i più disperati; sono piuttosto coloro che hanno qualche carta da giocare per l’inserimento nel paese di destinazione e un certo spirito d’intraprendenza: un titolo di studio, una capacità professionale, un margine di reddito per sostenere il costo del viaggio e l’inizio della vita all’estero, un punto di appoggio nel paese d’arrivo costituito da parenti, amici, associazioni religiose, ecc. Molti dati parziali confermano questa realtà. Ora, queste capacità, che sono un potenziale di sviluppo e di ricchezza per la società, attualmente vanno sprecate, sia per i paesi di provenienza (che hanno sostenuto il costo del mantenimento e della formazione di queste risorse umane e professionali), sia per i paesi di arrivo (che generalmente non utilizzano gli immigrati che come forza lavoro flessibile a bassa qualificazione e superfruttamento). «Si fa un investimento sulla formazione di un giovane in Egitto, nel Senegal o nelle Filippine, per creare un tecnico agricolo, un economista o un insegnate, e si ottiene il risultato di avere in Italia un cameriere di ristorante, un venditore ambulante o una domestica» (Macioti, Pugliese, 1991, p. 85). Riflettere su questo dato, ad es., ci consentirebbe di demistificare il discorso sulla programmazione degli accessi, la cui logica è meramente quella del bisogno capitalistico di una riserva di manodopera flessibile a buon mercato in questo o quel settore. Non certo la programmazione del massimo utilizzo delle risorse esistenti (comprese quelle umane dei paesi del terzo mondo) per un progetto sovranazionale di sviluppo finalizzato ai bisogni, l’unico che possa giustificare una programmazione dei flussi di manodopera (accanto alla programmazione dei trasferimenti di tecnologia, risorse finanziarie, ecc., ovviamente). In realtà, sappiamo che la presenza di immigrati in condizioni di irregolarità e di clandestinità è tollerata e anzi tacitamente ammessa (entro certi limiti) perché risponde a esigenze economiche e politiche di controllo sui lavoratori immigrati e di gestione ideologica del fenomeno come divisione del proletariato e alimento delle tendenze razziste e xenofobe (un’analisi molto interessante delle responsabilità delle classi dominanti, delle autorità politiche e dei mass media nella promozione del razzismo attraverso il linguaggio e l’utilizzo di stereotipi e immagini stigmatizzanti ecc., in van Dijk, 1989).
Conclusioni
Tra la fine del decennio scorso e l’inizio di questo, l’Italia si è resa improvvisamente conto di essere diventata meta di immigrazione, e ciò è accaduto sulla scia del moltiplicarsi di episodi di intolleranza e di razzismo, fra i quali ha assunto un significato emblematico l’assassinio di Jerry Essan Masslo nell’agosto 1989 a Villa Literno. La stessa sinistra si è trovata a fare i conti affannosamente con un fenomeno che, pur in atto da un quindicennio e più, non aveva ricevuto sufficienti attenzioni, e con reazioni che un luogo comune consolatorio e rassicurante — gli italiani “brava gente”, vaccinati contro il razzismo da un’esperienza secolare di emigrazione — aveva troppo frettolosamente escluso che potessero mai verificarsi. Sulla trasformazione del posto del nostro paese nella geografia mondiale dei flussi migratori che abbiamo esaminato in questa sede, va detto e ribadito che si tratta in qualche modo del risvolto dell’inserimento del nostro paese nei primi posti della graduatoria mondiale dei paesi sviluppati, di quell’inserimento che qualche anno fa era stato rivendicato da varie parti, non senza aspetti di deteriore retorica nazionalistica, e che nel gennaio 1991 è stato usato come giustificazione della partecipazione italiana al massacro unilaterale denominato Guerra del Golfo («la quota da pagare per far parte del club», per Bruno Vespa, allora direttore del TG1). Si tratta perciò di un processo largamente inevitabile, che tenderà ad assumere caratteri strutturali, e che si colloca dentro tendenze di lunga durata dell’evoluzione della situazione mondiale. Ogni progetto d’azione verso il fenomeno immigrazione, dunque, deve fare i conti con la sua natura strutturale se non vuol essere velleitario. E’ questa una sfida che si pone al nostro paese ma in particolare al movimento operaio e alla sinistra. La strategia delle classi dominanti e delle forze che le rappresentano, al di là delle incertezze e dei ritardi, abbiamo avuto modo di apprezzarla. E’ ispirata al criterio del massimo beneficio al minor costo per le forze padronali. Sì quindi all’immigrazione, ma “limitata” e “controllata”; massima discrezionalità e minimo di intervento di accoglienza (scaricato volentieri sul volontariato e sull’assistenza privata); minimo dei diritti e massimo della segregazione di fatto.
E’ una politica che attiva xenofobia e razzismo, perché mira a rendere al massimo “diversi”, “altri” sul piano della dignità e dei diritti gli stranieri che arrivano nel nostro paese per lavoro. Una politica che, al di là dei giudizi morali, è pericolosa per la sinistra perché alimenta risentimenti xenofobi e divisioni nelle classi popolari e fra i lavoratori. Ci sono forti rischi per il movimento operaio nel lasciar correre questa politica. E’ essenziale invece farsi portatori di una battaglia per l’integrazione civile e politica (senza dunque cancellazione delle diverse identità culturali e etniche) dei lavoratori stranieri nel nostro paese e nelle strutture organizzate del movimento operaio. La sfida da vincere è quella di impedire il radicarsi di atteggiamenti, espliciti o di fatto, di esclusione e di discriminazione nella società e fra i lavoratori verso gli immigrati, i quali sono destinati a costituire una componente nuova e crescente del proletariato nel nostro paese. Oggi questa è spesso una battaglia dura, controcorrente. Ma è un investimento sul futuro. Ma oggi noi, che ci proponiamo di rifondare una forza e una prassi comunista, dobbiamo saper guardare avanti.
Riferimenti bibliografici