Il testo rielabora una relazione sul libro di Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990 (1979), presentata e discussa ad una riunione seminariale della redazione della stessa rivista tenutasi a Roma il 27 ottobre 1990.
Un “Tractatus technologico-ethicus”
Al centro della riflessione del libro di H. Jonas ci sono i temi letteralmente “vitali” dell’odierna condizione umana: il sapere dell’uomo e i suoi limiti; il potere smisurato che da questo sapere deriva; i fini a cui esso viene indirizzato e le conseguenze lontane e imprevedibili in cui sfocia; la vulnerabilità della natura e con essa delle condizioni vitali dell’umanità stessa; il disorientamento etico che caratterizza l’attuale mondo in perpetuo movimento; l’esigenza di mettere sotto controllo la tecnica, le cui promesse di progresso si vanno sempre più convertendo in minacce; il futuro come oggetto primo della responsabilità e come problema politico: che cosa possiamo attenderci, che cosa è legittimo chiedere ad esso? E’ opportuno, per cominciare, riepilogare in modo necessariamente schematico e sommario le tesi sviluppate da Jonas in quello che egli stesso definisce nella Prefazione un “Tractatus technologico-ethicus” (p. XXIX).
- II trionfo della civiltà tecnologica ha segnato un cambiamento qualitativo dell’agire umano, in seguito al quale ogni etica tradizionale è divenuta inadeguata e non fornisce più i necessari criteri di guida. Si pone dunque l’esigenza di una nuova etica.
- Sorge immediatamente un problema: come possiamo fondare questa nuova etica? Da dove possiamo/dobbiamo partire? C’è qui l’elemento più originale del libro di Jonas, la cosiddetta «euristica della paura»: dobbiamo partire dalla conoscenza, per quanto incerta, delle minacce incombenti. Esse ci fanno intravvedere ciò che dobbiamo difendere e proteggere, ciò di cui dobbiamo prenderci cura. Ed è proprio a questa indagine sul malum da temere che ricaviamo il bonum da preservare e il «primo dovere» che ne discende: dobbiamo agire in modo da non mettere in pericolo le condizioni da cui dipende la permanenza dell’umanità sul pianeta.
- Ci si può chiedere per quale motivo non si debba volere la fine, il suicidio dell’umanità; perché si debba invece volere che un’umanità ci sia anche in futuro. Si pone, in altre parole, il problema del «fondamento» di questo comandamento primario. Secondo Jonas questo fondamento è di ordine «ontologico»: la priorità dell’esistenza dell’umanità rispetto alla possibilità della sua estinzione è una sorta di «comandamento implicito nell’essere» che gli uomini devono saper riconoscere e far proprio.
- Jonas giudica comunque che la natura stessa ha sistemato le cose in modo tale che gli uomini non devono fare un grande sforzo per aderire a questo comandamento ontologico. Esso trova nella nostra volontà un sostrato disponibile, come testimonia in modo inoppugnabile l’esempio – fornito dalla natura stessa – delle cure che i genitori prestano alla prole, generazione dopo generazione, senza il bisogno di ingiunzioni esterne. Questo comportamento spontaneo ci dà anche il modello a cui deve conformarsi il nostro agire: il criterio della responsabilità. La responsabilità – un’obbligazione affatto asimmetrica, che non ubbidisce al criterio di reciprocità dei diritti e dei doveri – sorge dal fatto stesso che l’uomo è un essere consapevole, capace di agire causalmente, dotato cioè di sapere e di potere sulla natura e gli altri uomini (2). La responsabilità, dunque, come condizione preliminare di ogni morale, cardine di una nuova etica il cui orizzonte essenziale è il futuro.
- Gli ambiti di validità della nuova etica – necessariamente un’etica pubblica, poiché il «potere sul potere» (cioè sulla tecnica) «dovrebbe provenire dalla società, poiché nessuna convinzione privata, nessuna responsabilità o paura» meramente individuali sarebbero adeguati al compito (p. 182) – si sono di molto estesi. Il discorso etico tradizionale aveva dei limiti ben definiti; riguardava il «qui e ora», e soprattutto i rapporti interumani. La tecnica, la natura, il futuro erano ambiti, dimensioni, fuori dal suo raggio. L’irruzione di una nuova dinamica, l’emergere della vulnerabilità della natura, gli effetti imprevisti del potere della tecnica hanno dilatato questi limiti. Nel momento in cui l’uomo è diventato per la natura un pericolo maggiore di quanto essa non sia mai stata per lui, anche la sorte della biosfera deve rientrare nel campo della responsabilità umana. In questa luce, la nuova etica deve caratterizzarsi per essere un’etica «della conservazione, della salvaguardia, della prevenzione», in una parola del «rispetto» (dell’uomo e della natura), piuttosto che un’etica del progresso e della perfezione (p. 178).
- Il tema del futuro porta direttamente al confronto con l’unica altra «etica della responsabilità verso il futuro» che sia stata proposta, e cioè con il marxismo, e solleva il tema dell’utopia, ovvero di che cosa sia lecito attendersi e proporsi di ottenere dall’avvenire. Il marxismo ha indubbiamente dei pregi agli occhi di Jonas, ma in ultima analisi gli appare indistinguibile dall’avversario che pure ha preteso di combattere. Infatti, se il capitalismo è stato l’alfiere e l’impulso incessante che ha condotto al trionfo il «programma baconiano» (cioè il progetto di usare il sapere per il dominio della natura in vista di un miglioramento del destino umano; cfr. p. 179), il marxismo aspira ad esserne «l’esecutore testamentario». La sua utopia – la realizzazione del regno della libertà e dell’abbondanza – è poi solo un sogno pericoloso, un’illusione che contrasta con i limiti ecologici del pianeta e con la stessa natura umana. Al bando dunque l’utopia, prima che essa spinga a correre rischi maggiori inseguendo un’impossibile realizzazione.
- Quale prospettiva ci indica in alternativa Jonas? Non è facile da dire: affidarsi ad un’azione pubblica ispirata all’etica della cautela, della limitazione, della lungimiranza. Rimane però nebuloso il modo in cui i principi astratti possono diventare fatti concreti, il modo di passare dalla teoria alla prassi. Jonas nutre, non è chiaro se il timore o l’auspicio, che possa affermarsi un potere «forte» (una «tirannide illuminata e benintenzionata», qualora gli assetti democratici si rivelassero incapaci di fronteggiare le future evenienze) in grado di imporre quelle misure che si rendono indispensabili per garantire la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta.
Ovviamente questa sintesi ha semplificato la ricca e complessa articolazione dell’analisi di Jonas. Tornerò adesso sugli snodi principali della sua riflessione per discuterli in modo puntuale.
Un’etica nuova per imbrigliare Prometeo
Torniamo innanzitutto al nucleo centrale della riflessione di Jonas, i problemi di rinnovamento dell’etica di fronte alle sfide della tecnica e alla crisi ecologica. Certamente si tratta di una delle parti del libro più stimolanti. II punto di partenza è la constatazione che sono venute meno le premesse di fatto di ogni etica tradizionale, le quali sono cosi definite da Jonas:
«1) La condizione umana, definita dalla natura dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali. 2) Su questa base si può determinare senza difficoltà e avvedutamente il bene umano. 3) La portata dell’agire umano e quindi della responsabilità è strettamente circoscritta» (p. 3)
Tali premesse erano corrispondenti ad una condizione storica di fondamentale stabilità, in cui il futuro poteva presumersi non qualitativamente diverso dal presente, quale quella che ha preceduto la nascita della modernità. In quella condizione, gli interventi dell’uomo sulla natura erano «essenzialmente superficiali e incapaci di turbare il suo equilibrio stabilito» (p. 5), cioè la natura appariva ancora in grado di «provvedere a se stessa». In quel quadro di potere umano limitato, la tecnica era un ambito «neutrale» sotto il profilo morale. Erano invece l’uomo e i rapporti interni alla polis l’ambito proprio del discorso morale, il quale era dunque «antropocentrico» in senso forte. Esso rifletteva i limiti del sapere umano (non richiedeva qualcosa di più del sapere ateoretico accessibile a tutti mediante l’esperienza) e il raggio ristretto degli effetti delle azioni umane (era dunque un’etica della prossimità e della contemporaneità). Entro questi confini, «la maggior parte del futuro doveva essere affidata al destino e alla stabilità dell’ordine naturale, mentre tutta l’attenzione veniva a concentrarsi sul giusto adempimento di ciò che nel presente di volta in volta toccava fare. Ma l’agire giusto è assicurato al meglio nell’essere giusto: perciò l’etica aveva specialmente a che vedere con la «virtù», che rappresenta appunto il miglior essere possibile dell’uomo e poco si cura, al di là del suo operato immediato, di ciò che verrà dopo» (p. 153).
E’ vero che, nel caso della morale politica, esistevano anche delle preoccupazioni rivolte alla stabilità futura (la continuità dinastica nei regimi ereditari, la prosperità della città o dello Stato, negli altri), ma in generale la «migliore costituzione» era comunque identificata con quella che garantiva la stabilità delle cose future in quanto promuoveva la virtù dei governanti e dei governati. «Per il resto si era consapevoli dell’incertezza delle cose umane del ruolo del caso e della fortuna, che non era possibile prevenire, ma ai quali si poteva fare fronte soltanto mediante un’equilibrata disposizione d’animo e una costituzione della comunità che fosse il più stabile possibile» (pp 154-55).
Lo sviluppo della moderna civiltà della tecnica ha però soppresso irrevocabilmente l’ordine stabile e riconoscibile del mondo pre-moderno, con ciò rendendo non più sufficiente il mero affidamento sulla virtù individuale il cui presupposto è «l’assenza di quella dinamica che domina ogni essere e coscienza moderni» (p. 155). Più nello specifico, gli smisurati poteri creati dal Prometeo irresistibilmente scatenato della tecnica hanno da tempo travalicato i limiti contemplati dalla morale tradizionale: c’è bisogno di una nuova etica per disciplinarli e per impedire loro di diventare una «sventura per l’uomo» (Prefazione dell’autore, p. XXVII).
Un primo ordine di problemi nuovi con cui fare i conti riguarda i limiti del nostro sapere. Siamo qui in presenza di un «paradosso del programma baconiano», dice Jonas. Bacone pretendeva che «il sapere è potere». Ma nel momento di massimo successo di questo programma di dominio umano sulle cose, ci accorgiamo che si va aprendo un «divario» sempre più pericoloso «tra la forza del sapere predittivo e il potere dell’azione» che di molto la oltrepassa. II sapere non cessa di essere, per Jonas, un «dovere impellente»; si tratta però di cercare un sapere di un tipo nuovo (3).
Un secondo ordine di problemi sorge dalla vulnerabilità della natura. «In questo secolo è stato raggiunto un punto, da tempo in incubazione, in cui il pericolo diventa palese e la situazione si fa critica» (p. 177). Come conseguenza del «duplice successo» (economico e biologico) della specie homo sapiens, si è creato un «enorme incremento del ricambio organico del corpo sociale complessivo con l’ambiente naturale» (p. 180), con ciò facendo intravedere l’esaurimento delle risorse e la rottura del tessuto ecologico del pianeta da cui l’uomo dipende. Ne discende una responsabilità dell’uomo verso la biosfera (4) e si pone la questione di riconoscere dei «diritti» anche alla natura extra-umana. Per altro verso, recenti sviluppi come la realizzazione di tecniche terapeutiche che prolungano la vita o l’acquisizione della capacità di manipolare il genoma umano, pongono l’esigenza di una responsabilità per la stessa «integrità» degli esseri umani.
Un terzo ordine di problemi riguarda le implicazioni politiche di questa «situazione apocalittica», che è derivata dai poteri smisurati della tecnica. Quest’ultima è presentata come una sorta di destino metafisico (che ricorda molto la posizione di Heidegger), una specie di vocazione intrinseca dell’uomo, «impulso illimitato e progressivo della specie», tendenza dell’homo faber ad andare oltre l’homo sapiens (p. 13). Questo carattere «intrinsecamente estremista» ed «utopico» della tecnica (p. 28) è in ultima analisi indipendente dalla forma sociale in cui essa si realizza: fin dall’inizio, «nella sua attuazione capitalistica», il programma baconiano non ha goduto né della razionalità né della giustizia (con cui sarebbe stato di per sé compatibile); «[…] ma la dinamica del suo successo, destinata a determinare una produzione e un consumo smisurati, avrebbe travolto presumibilmente ogni società (infatti nessuna è composta di saggi), a causa della relativa miopia delle finalità umane e della reale imprevedibilità delle dimensioni del successo» (p 179). Traspare qui, come altrove, il pessimismo antropologico di fondo di Jonas. Sembra che per lui gli uomini siano comunque destinati a tralignare, a superare il limite che un buon senso lungimirante potrebbe scorgere. Questo spiega perché per lui l’unico rimedio concepibile (ma di incertissima realizzabilità) sia qualcosa di simile al governo platonico dei filosofi (5). Torneremo più avanti su questo motivo.
L’incertezza del futuro e l'”euristica della paura”
Il sapere, l’abbiamo visto, resta per Jonas un «primo dovere»: dobbiamo acquisire, per quanto ci è possibile, la conoscenza oggettiva degli effetti a lungo termine delle nostre azioni. Senza questa conoscenza, affidandosi al caso, nessun comportamento etico è concepibile. Purtroppo la conoscenza a cui possiamo accedere riguardo agli effetti lontani delle nostre scelte attuali è largamente ipotetica e probabilistica (ma su di essa dobbiamo costruire una sorta di scienza del futuro che Jonas definisce «futurologia comparata»). Essa resta in ogni caso indispensabile anche per costruire i fondamenti della nuova etica: infatti, solo se sappiamo ciò che è minacciato sappiamo anche ciò che occorre preservare. «[…] è naturale che la percezione del malum ci riesca infinitamente più facile della conoscenza del bonum; essa è più immediata, più plausibile, molto meno esposta a divergenze di opinioni e soprattutto non intenzionale […] sappiamo molto meglio ciò che non vogliamo che ciò che vogliamo» (p. 35).
Ma al di là di questo procedimento (che Jonas chiama appunto «euristica della paura»), il carattere di incertezza che domina, ineliminabile, la percezione del futuro, deve poter essere incluso nella teoria stessa. In effetti esso diventa la condizione per enunciare un nuovo principio: «si deve prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza» (p. 39). Nelle decisioni umane che coinvolgono il futuro è utile ispirarsi alla prudenza della natura la quale, mediante l’evoluzione naturale, «lavora con le piccole cose e non gioca mai il tutto per tutto» (p. 40), potendosi cosi permettere nel dettaglio innumerevoli «errori» in cambio di pochi e modesti «colpi andati a segno». Va escluso dunque il «giocare il tutto per tutto» anche con il futuro della umanità. Occorre inoltre, specie in materia di scelte tecnologiche, «vigilare sugli inizi»; lo sviluppo tecnologico, infatti, tende ad avere una dinamica cumulativa e a lungo andare coattiva: «mentre siamo liberi di fare il primo passo, al secondo e a tutti gli altri successivi siamo già schiavi» (p. 41). Non va mai dimenticato, poi, che nessun vantaggio ipotetico vale il rischio di perdere l’umanità è il suo fondamento di autorità, che è «qualcosa di unico e straordinario nel flusso del divenire dal quale ha avuto origine, tale da superarlo con il proprio essere, ma anche da poterne essere nuovamente inghiottito» (p. 42).
Dal momento, tuttavia, che nel quotidiano agire umano è sempre presente un elemento di incertezza circa le sue conseguenze, questo aspetto di azzardo e di scommessa deve essere contemplato nella teoria.
A questo proposito Jonas elabora alcuni criteri riassumibili nel principio: «non si deve mai fare dell’esistenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire» (p. 47). Qui si dice in altri termini che va esclusa anche la semplice possibilità di un esito catastrofico dell’agire, al di là di qualsiasi calcolo sui vantaggi sperati.
La prima esplosione atomica nel deserto del Nuovo Messico
A questo dovere primario Jonas dà anche una formulazione che riecheggia l’imperativo categorico kantiano: «agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (p. 16). O detto altrimenti: non dobbiamo compromettere il futuro dell’umanità.
Il fondamento “ontologico” della nuova etica
Quali “diritti” possono accampare presso gli uomini del presente coloro che non sono ancora nati e potrebbero anche non nascere mai? Messo in questa forma è più chiaro il senso dell’interrogativo: «perché non dobbiamo volere il suicidio dell’umanità?». In ultima analisi: che cosa fonda il nostro dovere verso le generazioni future?
Osserva opportunamente Jonas che qui non possiamo applicare il criterio di reciprocità dei diritti e dei doveri che informa ad esempio le ordinarie regole della convivenza civile. Non c’è alcuna reciprocità fra presente e futuro. E’ ben vero che nell’etica tradizionale c’è un esempio di obbligazione non-reciproca: i doveri dei genitori verso la prole, «l’archetipo di ogni agire responsabile» (p. 50). Tuttavia, il dovere verso i figli (viventi…) e il dovere verso le generazioni successive (soltanto previste…) «non sono la stessa cosa».
Si pone qui un problema – quello del fondamento ultimo dell’etica, della giustificazione dei suoi principi essenziali – che è uno dei più controversi in filosofia. Fino all’illuminismo e a Kant, l’approccio prevalente è stato quello di cercare il fondamento dei valori morali in un ordine trascendente (nel Dio della rivelazione o in quello della ragione). Successivamente hanno avuto sempre più spazio i tentativi di giustificare i principi morali in base ad un ordine immanente (della natura o della ragione) o, più semplicemente, in base a qualche criterio tratto dalla storia o stabilito da un contratto sociale. Ma si tratta di una strada incerta, che lascia un varco al relativismo, se non al nichilismo dei valori.
Jonas, per parte sua, osserva che la fede sarebbe certamente utile allo scopo di fornire il fondamento cercato, ma purtroppo essa «non è disponibile su ordinazione» (p. 57). D’altra parte giudica inadeguato il ricorso a principi quali la solidarietà, la simpatia, l’equità, la compassione verso le generazioni future, proposti da altri studiosi per rendere i posteri in qualche modo nostri contemporanei e su questa base riconoscere loro quei diritti che costituiscono per noi altrettanti doveri.
La strada scelta da Jonas è un’altra, ancorché inusuale: egli ritiene che sia possibile dare all’etica un fondamento «ontologico», cioè ricavare dall’ordine dell’essere i valori a cui deve attenersi il nostro agire (6).
Non riassumeremo qui l’intera argomentazione di Jonas, che occupa nel libro una settantina di pagine. Ci limitiamo a riportarne gli elementi essenziali. Due sono i presupposti della dimostrazione ontologica di Jonas: la possibilità di individuare una struttura finalistica dell’essere e il cosiddetto «assioma ontologico» che conferisce superiorità all’esistenza dei fini sull’assenza degli stessi. Non un qualsiasi fine è di per sé un valore oggettivo. Lo è soltanto un fine che sia intrinseco alla natura delle cose e del quale si possa dedurre che il suo valore non dipende dal giudizio umano ma sia posto dalla natura stessa.
Si dà la possibilità di identificare come «valore oggettivo» l’esserci dell’umanità, così da fondare su questa base il suo «dover esserci» e la relativa nostra obbligazione in proposito? Jonas è convinto che la risposta sia positiva.
Nella natura stessa, infatti, nell’evoluzione multiforme degli esseri viventi, noi possiamo cogliere una sorta di tendenza verso la soggettività.
Quest’ultima appare come una facoltà di autodeterminazione dell’essere che è anche facoltà di porre autonomamente dei fini. «Creando la vita, la natura manifesta quantomeno uno scopo, appunto la vita stessa» (p. 92), la quale è dunque uno scopo «immanente» alla natura.
Questa capacità della natura di manifestare «oggettivamente» dei fini, per l’assioma ontologico costituisce il fondamento oggettivo dei valori. «La natura, prefiggendosi degli scopi o dei fini, pone anche dei valori» (p. 102). Lo scopo è «un’autoaffermazione sostanziale dell’essere», una dichiarazione a favore di sé e contro il nulla. Ogni essere vivente è dunque un’autoaffermazione dell’essere, che si manifesta per così dire ciecamente nella natura ma che «acquisisce una forza vincolante nella libertà cosciente dell’uomo» (p. 105). Ciò vale, a maggior ragione, per lo stesso esserci dell’umanità. Che era quello che dovevamo dimostrare.
Mi pare che l’argomento ontologico di Jonas, sollevi alcuni problemi che mette conto segnalare.
Innanzitutto, la pretesa di fondare su un “a priori” di ordine ontologico il suo imperativo morale assomiglia a una versione “secolarizzata” della derivazione divina dell’etica operata dalle religioni. Qui, al posto della volontà divina, abbiamo quella della natura, «i fini immanenti dell’essere».
Per altro verso, possiamo paragonare la posizione di Jonas a quella della corrente “profonda” della environmental philosophy che pretende di scardinare l’antropocentrismo dell’etica tradizionale e di mettere al suo posto il «biosistema come un tutto: non mera collezione di particelle biotiche, ma unità integrata e auto-organizzata»; dove è quest’ultimo contesto più ampio che deve diventare «portatore di valore» (7).
Ora, pare molto dubbio questo salto mortale dalla “verità” al “bene”, dall'”essere” al “dover essere”. E’ noto che Jonas contesta questa separazione che si è affermata fra scienze naturali ed etica, fra i “fatti” e i “valori”, e che imputa ad essa il vuoto morale della società contemporanea (8). Tuttavia, se la “separazione” è certamente deprecabile ai fini pratici, la “distinzione” fra i due ordini di discorso (quello scientifico e quello ontologico, da un lato; quello etico dall’altro) mi sembra irrinunciabile.
Altra questione, ovviamente, l’opportunità, anzi la necessità, di giustificare un ambito di valori incontestabili ed universali appoggiandosi sui dati oggettivi forniti dalla conoscenza scientifica. Ma la pretesa convalida dell’argomento ontologico di Jonas o è un illusorio sostituto di una derivazione religiosa della morale; o è un non meno illusorio tentativo di dedurre dalla natura in quanto tale una norma per l’umanità a prescindere dalla vicenda storica e dalle fratture sociali che attraversano il mondo umano.
Non c’è qui lo spazio per sviluppare adeguatamente questi temi per cui mi limito ad alcuni cenni.
Si può dubitare, innanzitutto, che nel quadro della società classista sia possibile l’affermarsi di una “coscienza di specie”, di un’etica ecologica di validità universale, condivisibile da sfruttati e sfruttatori, capace di determinare nuovi comportamenti comuni e nuovi modi di vita sostenibili. Quali che siano le prospettive a lungo termine, quelle immediate sono troppo spesso diverse e antagoniste per essere conciliabili.
Fatta questa riserva per ciò che riguarda la pretesa di universalità dell’etica, è certamente corretto affermare che non solo i rapporti fra gli uomini sono un oggetto legittimo dell’etica, ma lo è tutto ciò che entra in un modo o nell’altro nel raggio della loro azione: anche la natura dunque, e la tecnica come inerente al rapporto degli uomini fra loro e con la natura. E tuttavia il fondamento della morale non può essere rintracciato in altro che nell’uomo stesso: siamo noi a conferire “valore” alle cose e ai comportamenti, in relazione ai nostri fini e ai nostri bisogni.
E’ vero tuttavia che va oggi abbandonata ogni forma di “antropocentrismo arrogante” (come la versione borghese-capitalistica del programma baconiano di dominio-sfruttamento illimitato della natura) in favore di una posizione di “antropocentrismo umile”, o anche “avvertito” e “prudente”. E ciò proprio in conseguenza della coscienza del posto dell’uomo nella natura e della consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni su di essa (e degli stessi limiti di questo nostro sapere) che oggi possiamo trarre dall’ecologia (9).
In questo senso va anche riattualizzata l’ipotesi marxiana di “umanizzazione della natura” e di “naturalizzazione dell’uomo”, cioè di “conciliazione” fra gli uomini e la natura: con l’abbandono di ogni tentazione di prometeismo manipolatorio, in favore di una assunzione umana di responsabilità per l'”amministrazione fiduciaria” della natura in vista della permanenza della specie sul pianeta. Responsabilità che deve ispirarsi al criterio della cooperazione, secondo la suggestiva proposta di Edgar Morin: l’uomo si assume una funzione di guida della natura e nel contempo si fa guidare da lei (10).
La critica del marxismo
Col marxismo – scrive Jonas – «per la prima volta la responsabilità per il futuro storico nel regno della dinamica viene posta con evidenza razionale sulla mappa etica» (p. 158), motivo per cui esso va considerato un interlocutore obbligato.
In effetti la riflessione di Jonas si confronta ripetutamente col marxismo, contro il quale formula tutta una serie di critiche che ora prenderemo in esame. Ma va detto subito che è difficile riconoscere “il marxismo di Marx” in molte pagine di Jonas. Più spesso si ha a che fare con le interpretazioni superate che ne hanno dato il determinismo positivistico della Seconda Internazionale o quello volontaristico del diamat staliniano. A questa immagine deformata si sovrappone a volte un’altra immagine distorcente, ricavata arbitrariamente dalla prassi dei regimi del cosiddetto “socialismo reale”, e questo falsa tutti i termini del confronto. E’ significativo, e in fondo non tanto paradossale, che questo “marxismo” distorto venga a volte giudicato favorevolmente da Jonas in quello che ha di staliniano (la vocazione autoritaria e manipolatrice verso le masse) e rifiutato per quello che conserva di filosofia della liberazione umana.
Più di ogni altro viene preso di mira l’aspetto messianico-utopico: l’ultimo capitolo del libro è interamente dedicato ad un excursus critico contro Ernst Bloch, il filosofo marxista della speranza e dell’utopia concreta (Il principio responsabilità richiama volutamente e polemicamente il titolo dell’opera maggiore di Bloch, “Il principio speranza”, purtroppo non ancora per noi disponibile integralmente).
Un significativo momento di confronto col marxismo si sviluppa in relazione alla questione se sia preferibile, ai fini di garantire la sopravvivenza dell’umanità, il capitalismo o il socialismo, una società autoritaria o una liberale. Jonas è disposto a riconoscere diversi punti a vantaggio del «socialismo» e della sua «ideologia». Ammette ad esempio una superiorità di principio – ai fini della conservazione delle risorse – dell’economia pianificata in conformità ai bisogni rispetto ad un’economia di mercato orientata dal profitto alla sollecitazione dei consumi (11); e riconosce anche il vantaggio dell’uguaglianza in una società senza classi (12).
Più in generale, egli dà un giudizio positivo del «moralismo ascetico» che nei regimi «comunisti» consente di mobilitare le masse per fini remoti e di ottenere nel presente sacrifici prolungati (p. 188) e dell’«entusiasmo» e della «disponibilità al sacrificio» senza uguali che il marxismo ispira ai suoi seguaci. Ma si chiede anche se essi non svanirebbero, una volta che fossero volti non più a realizzare l’utopia dell’abbondanza ma l’antiutopia dell’automoderazione. Non si renderebbe necessario in questo caso una sorta di inganno di massa per ottenere l’obiettivo della moderazione mediante l’entusiasmo suscitato dal miraggio del benessere? Si tratterebbe di qualcosa di simile alla «nobile menzogna» di Platone con cui l’élite al potere tiene le masse sottomesse. Sarebbe certo meglio che le rinunce fossero volontarie, osserva Jonas, ma dal momento che questo è poco plausibile «non inorridisco», dice, difronte all’idea di istituire un regime di menzogna (pp. 190-191). D’altra parte, un merito del «socialismo» agli occhi di Jonas non è forse «il potere governativo totalitario» che permette di imporre alle masse sacrifici che difficilmente sarebbero deliberati da un processo decisionale democratico (p. 187)?
Per fortuna, la storia dell’ultimo decennio ha fatto definitivamente giustizia di questi ambigui apprezzamenti di Jonas; il crollo del “socialismo reale” dimostra una volta di più l’impotenza sostanziale, alla lunga, dei regimi autocratici a dominare una società civile articolata e complessa.
Più serie e rilevanti altre obiezioni al marxismo. Innanzitutto quella di condividere il culto della tecnica del «programma baconiano» (di cui anzi il marxismo si vorrebbe «esecutore testamentario») e la sua aspirazione a «trasformare la natura» e ad assoggettarla all’uomo. A prova di questa vocazione Jonas porta la negazione dell’idea dell’esistenza di “limiti” della natura e dell’artificialità umana e le illusioni lysenkoiste di una plasmabilità indefinita della natura vivente ad opera dell’uomo. Ma l’una e l’altra cosa sono piuttosto esempi della perversione staliniana delle idee originarie di Marx e di Engels (13).
Più in generale Jonas rimprovera al marxismo di essere un’ideologia utopistica che si alimenta alla prospettiva ottocentesca del «progresso». Ma questa prospettiva è ora in dubbio e non solo nell’ambito della crescita economica, ma anche in quello dell’avanzamento morale dell’umanità. Lo stesso progresso scientifico e tecnologico – peraltro indubitabile – sconta dei prezzi crescenti e «inevitabili» (come l’esasperata specializzazione del sapere o le ambivalenti conseguenze della tecnica). Nell’ambito delle istituzioni sociali e politiche la perfezione è d’altra parte irraggiungibile. Alcuni assetti soddisfano meglio le esigenze di uguaglianza o di libertà, altri quelle di efficienza o di sicurezza. «Non si può avere tutto insieme in egual misura» (p. 220).
L’utopia marxista è particolarmente «pericolosa» in relazione alle condizioni di miseria di gran parte del Terzo Mondo dove essa rischia di funzionare da scintilla di un’esplosione di violenza incontrollabile, l’Armageddon, la fine del mondo (p. 234). Jonas non nega la legittimità etica della rivoluzione (14). Ma essa non può più essere l’arma del proletariato dell’Occidente avanzato, «pacificato» dal consumismo e dal Welfare State. Qui l’utopia rivoluzionaria è rimasta «prerogativa di esigue élite di idealisti radicali provenienti dai ceti privilegiati». Nel Terzo Mondo, invece, l’esca di una impossibile utopia può condurre a catastrofi irrimediabili.
Vedremo più avanti perché Jonas ritenga «impossibile» l’utopia del marxismo. Vediamo ora invece quale soluzione alternativa egli propone. In effetti la sua proposta non si rivolge alla generalità degli uomini, ma si indirizza alla élite del potere, in particolare ai governi dell’Occidente avanzato. Occorre cercare una «politica di prevenzione costruttiva come la più adeguata nel proprio interesse a lungo termine», nel nome di un «egoismo lungimirante» (p. 231). Si deve perseguire il graduale riequilibrio fra Nord e Sud del pianeta, da realizzare spostando verso i paesi più poveri una parte delle risorse e delle capacità economiche di cui godono oggi i paesi ricchi, dal momento che è semplicemente impossibile – per ragioni ecologiche – estendere al Terzo Mondo l’attuale capacità produttiva del primo. Se non fosse possibile ottenere questo riequilibrio in modo volontario, non resterebbe che imporlo con la forza (p. 237)
Questa conclusione non deve sorprendere. Fin dal primo capitolo Jonas ha espresso «il dubbio che il governo rappresentativo possa bastare a soddisfare, in base ai suoi principi e con i suoi procedimenti normali, le nuove richieste. Infatti, in conformità a questi principi e questi procedimenti, soltanto gli interessi presenti acquistano voce, facendo valere il proprio peso e esigendo considerazione». Invece «il “futuro” non è rappresentato in nessun organo collegiale ne è una forza che possa gettare il proprio peso sulla bilancia […]. Ciò ripropone in tutta la sua radicalità l’antica questione del potere dei saggi […] Si tratta di una questione di filosofia politica sulla quale io ho le mie idee, probabilmente chimeriche e certamente impopolari, che per ora possono stare dove sono» (p. 30).
Sono affermazioni che non hanno bisogno di commenti. Il tema di chi rappresenti il futuro nei momenti deliberativi del presente è sicuramente di grande rilievo e di non semplice soluzione (15). Tuttavia mi pare che quella autoritaria-tecnocratica proposta da Jonas non sia una soluzione obbligata: anzi, che essa sia fondamentalmente illusoria. Offre più speranza, invece, la costruzione di una coscienza ecologica di massa (che rappresenta una condizione necessaria anche se non sufficiente per affrontare i problemi ecologici con strumenti democratici). In questo senso funziona da stimolo la pervasività dei danni ambientali che già oggi possiamo toccare con mano. Il rimedio va cercato dunque, mi pare, in un allargamento degli strumenti di intervento e di controllo democratico in relazione all’ambiente e al futuro della civiltà (16).
Dalla “responsabilità” all’utopia positiva
Le obiezioni di Jonas contro l’utopia trovano uno sviluppo sistematico nell’excursus critico contro Ernst Bloch, nell’ultimo capitolo. Innanzitutto Jonas contesta la possibilità stessa di un’utopia dell’abbondamza per ragioni ecologiche (17). Un rapido esame dei limiti del pianeta (problema alimentare, esaurimento delle materie prime, problema dell’energia, riscaldamento dell’atmosfera…) porta a concludere che «in nessun caso […] la popolazione mondiale potrebbe imitare a lunga scadenza e impunemente l’esempio attuale di una minoranza mondiale sperperatrice» (p. 244).
Sembrerebbe un buon argomento per condannare il capitalismo, un modo di produzione che non offre più vie d’uscita dalla miseria ai quattro quinti dell’umanità presente. Invece Jonas ne trae motivo per chiedere la definitiva rinuncia dell’utopia: «In ogni caso ci si deve togliere dalla testa l’utopia […] perché già il suo perseguimento conduce alla catastrofe» (p. 245). E’ evidente che questa conclusione così drastica discende dall’identificazione abusiva compiuta da Jonas tra l’idea marxiana di fine del bisogno e il vortice irrazionale di consumi-sprechi-rifiuti che è proprio del modo di vita dell’Occidente capitalistico contemporaneo.
Secondariamente, Jonas contesta la desiderabilità stessa del marxiano “regno della libertà” (di cui ci dà un quadro in verità caricaturale). Più che «liberata» è possibile che la massa degli uomini venga «esclusa» dal lavoro. Ciò creerebbe un problema di destinazione del «tempo libero» che la proposta dell’otium attivo di Bloch non risolve minimamente. Restano in piedi infatti tutta una serie di problemi (la separazione fra il lavoro creativo e il lavoro ripetitivo, quella fra funzioni direttive e funzioni esecutive, fra attività socialmente riconosciute e attività inutili e/o svalutate…) che fanno concludere a Jonas che la fonte di essi non è l’estraneazione capitalistica bensì quella «tecnologica» (p. 255).
In questo ambito, l’errore fondamentale di Marx e di Bloch risiede, a detta di Jonas, nella falsa concezione della «separazione del regno della libertà dal regno della necessità», nell’idea che la libertà si colloca al di là della necessità e non invece «nell’incontro con essa» (p. 259). Tralascio di argomentare qui diffusamente come tutta l’interpretazione di Jonas abbia poco o nullo fondamento nei testi marxiani (18).
Infine, egli sviluppa una critica frontale all’antropologia blochiana del “non-essere-ancora”. All’idea di un humanum ancora incompiuto di Bloch, Jonas contrappone la riaffermazione di una umanità «cosi-sempre», che non può essere altro di quel che è sempre stata (19). Non è vero che l’uomo «autentico» aspetti ancora di essere realizzato. Esso è già sempre esistito «con tutti i suoi estremi» positivi e negativi. L’uomo «appare di volta in volta compiuto nella problematicità che lo contraddistingue […]. Un fenomeno limite della natura che, in base alla conoscenza umana, risulta invalicabile […]. Nel quadro di tale problematicità devono collocarsi ogni speranza e ogni timore, così come tutte le aspettative per il singolo individuo come per l’umanità». In particolare, l’«ambiguità» è una caratteristica intrinseca dell’uomo, la condizione stessa della sua libertà. Non si tratta dunque di adoperarsi per creare l’uomo autentico, ma di tutelare l’«integrità» di quello da sempre esistente (pp. 278-279).
Non c’è dubbio che Jonas ha ragioni da vendere nei confronti di certe ideologie volontaristiche che pretendono di creare l'”uomo nuovo” mediante la predisposizione di adeguate misure di “ingegneria sociale” (ideologie che hanno avuto largo corso in epoca staliniana). Eppure la possibilità di un progresso morale degli uomini legato alle opportune condizioni sociali, e la fecondità dell’idea stessa di questa possibilità, non possono essere seriamente negate. In questo senso, il “progressismo” di Bloch e del marxismo sono pienamente difendibili e risultano convalidati dalla storia (20); a patto, ovviamente, che essi non vengano fatti rientrare a forza nel quadro concettuale e pratico del Prometeo borghese.
Non è vero che un’etica della responsabilità verso le generazioni future e verso la natura – etica della quale si avverte indubbiamente la necessità – ci impone di rinunciare all’utopia. Al contrario. La vera responsabilità, nell’attuale condizione storica, consiste proprio nell’adoperarsi per realizzare un mondo in cui sia possibile riconciliare gli uomini fra loro e con la natura. E se di un’utopia si tratta (di questo non c’è dubbio, visto che questo mondo non esiste ancora in “nessun-posto”), si tratta di un’utopia non di meno positiva e necessaria, per la quale – oltre che per tanti altri aspetti sociali, economici, politici – la potenzialità critica del marxismo continua ad essere irrinunciabile.
E’ vero che troviamo in Marx e nella tradizione rivoluzionaria una certa componente “prometeica” (di cui ci sono tracce corpose negli stessi Lenin e Trotskij) che ha alimentato aspettative poco realistiche riguardo al futuro e una ingenua fiducia sulle possibilità della scienza, della tecnica e della produzione di consentire agli uomini di andare oltre soglie che oggi sappiamo non superabili (in particolare per quel che riguarda le possibilità bioecologiche) . Ma tutto ciò non ci appare più essenziale nel quadro dell’approccio marxiano al problema della liberazione umana. Si tratta di un elemento che va, per cosi dire, storicizzato e compreso nel contesto del complessivo paradigma marxista e della sua valenza critica. Se un secolo fa il marxismo valorizzava anche le potenzialità della tecnica moderna di soddisfare i bisogni liberando gli uomini dalla fatica, esso già coglieva l’ambivalenza della tecnica stessa, le contraddizioni del progresso capitalistico, i rischi che esso faceva gravare sugli uomini e sulla natura (21).
II nodo sapere-potere-responsabilità verso le generazioni future e verso la natura non è affatto estraneo al marxismo, ed anzi ha trovato più di un secolo fa delle illuminanti anticipazioni in molte pagine di Marx e di Engels. Troviamo in Engels, ad esempio, l’enunciazione che la formula “dominio dell’uomo sulla natura” (che tanto successo ebbe tuttavia tra i successivi marxisti “positivisti”) è fondamentalmente errata, assieme alla chiara percezione dell’interdipendenza della natura, dei limiti delle conoscenze umane, degli effetti a lungo termine del nostro agire tecnologico (22).
Troviamo in Marx la chiara formulazione di quello che deve essere l’orientamento a lungo termine dell’economia nei rapporti con la natura (che in anni recenti ha ricevuto il nome di “sviluppo sostenibile”); e troviamo pure un passo che non dovrebbe dispiacere a Jonas, in cui si afferma che la responsabilità verso i posteri deve diventare il criterio cui attenersi nell’amministrazione del pianeta in una superiore forma di civiltà (Marx pensava in effetti alla società comunista) (23).
Se nel marxismo originario manca ancora, inevitabilmente, una coscienza ecologica complessiva (l’ecologia scientifica non esisteva ancora!), troviamo comunque in esso una concezione del rapporto uomo-natura che mantiene un nucleo intatto di validità. L’uomo è parte della natura che lo ha generato, ed essa è il suo corpo extracorporeo. L’uomo però è natura in modo peculiare: esso è anche “società” e “cultura”, a partire dal lavoro, attività finalistica mediante la quale egli agisce come natura sulla natura e su se stesso.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, ha assunto nel corso della storia un’importanza cruciale: sempre più la mediazione dell’uomo con la natura, il “ricambio organico”, è diventato un processo condizionato socialmente, in quanto «ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società» (24).
E’ il condizionamento di specifici rapporti sociali – quelli capitalistici, nell’ambito dei quali il processo economico ha assunto una dinamica illimitata in quanto è determinato dal movente astratto del profitto (della valorizzazione del valore) – che ha creato la presente contraddizione fra mondo umano e natura circostante.
Senza spezzare questo condizionamento, senza rompere l’involucro sociale che impedisce di sottomettere al controllo della società la dinamica tecnologica e di convertirla ai fini di un interscambio razionale ed equilibrato fra gli uomini e la natura, ogni prospettiva di “riforma morale” (tale è, in ultima analisi, la posizione di Jonas, peraltro ricca di una tensione di pensiero che deve entrare nella nostra riflessione) è destinata a restare mera aspirazione, politicamente e antropologicamente debole.